La rivolta di Vieste del 3 gennaio 1861
Il Gargano e la Capitanata non furono isole felici nel bel mezzo dei cicloni tempestosi dell’epoca, anzi il governatore Bardesono parlerà di condizioni di sfruttamento dei contadini e dei braccianti peggiori di quelle a cui erano sottoposti in America gli schiavi negri.
A Vieste la rivolta iniziò il 3 gennaio in una giornata di pioggia, quando verso le ore 22 un tale Giulio Notarangelo cominciò a inneggiare ad alta voce il nome di Francesco II. In meno che non si dica, nella piazza del «Fosso», si riunirono circa un migliaio di persone che urlavano a squarciagola: «Viva Francesco». Il sindaco Alfonso Perrone, presente a quell’ora nella sede del «Giudicato regio» insieme al nuovo giudice regio Antonio Mascia, lo invitò a intimorire un gruppo di giovani che intorno alle 23 percorrevano le strade cittadine in segno di protesta. Il giudice, sceso in strada, minacciò di chiamare la forza pubblica. Le voci si rincorsero immediatamente determinando uno spavento generale che calmò gli animi più esacerbati.
Altri tumulti si verificarono nei giorni 4 e 5 gennaio. Il giorno 6 gennaio, il «popolaccio», rilevato che le manifestazioni precedenti non avevano sortito conseguenze e constatato che la sede del corpo della Guardia Nazionale era sguarnito per evidenti timori da parte dei militi, prevedendo che nessuna forza avrebbe raggiunto Vieste dall’esterno, ne assalì la sede prelevando un cannone, distruggendo i quadri di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, togliendo e buttando via i simboli dei Savoia. La situazione divenne tale che i possidenti il giorno successivo, prima del ritorno dalla campagna dei contadini, decisero di concentrarsi armati nella sede della Guardia Nazionale per fermare la sommossa che avrebbe pregiudicato anche la loro incolumità fisica.
Il Perrone, autore di un Memorandum, non terrà mai in dovuto conto – quali moventi degli stravolgimenti politici e sociali in atto – le profonde condizioni di miseria delle masse subalterne, quasi le considerasse del tutto naturali e scontate; oltretutto, egli confidava nella dura repressione delle forze dell’ordine nei confronti dei contadini, visti e considerati quasi sempre come un pericolo e una minaccia.
Lo stesso non ebbe mai piena consapevolezza che l’estrema situazione di disagio in cui versavano i veri liberali era il risultato della politica cavouriana: pregiudiziale nei confronti dei democratici e conciliatoria nei confronti dei borbonici.
Infatti, anche a Vieste si possono riscontrare gli effetti e le conseguenze della politica moderata di eliminazione dell’esercito meridionale e di costituzione della Guardia Nazionale, entrambe finalizzate allo scopo di dar concretezza alla politica conciliatoria nei confronti dei borbonici.
Com’è palese, alle prime difficoltà la Guardia Nazionale abbandonò il posto di guardia per paura. Si può senz’altro presumere che atteggiamenti del genere, diffusi e praticati ovunque, siano da imputarsi alla scarsa organizzazione e alla superficiale preparazione dei militi stessi, ma non si può prescindere dall’ipotizzare che tali atteggiamenti siano stati anche la conseguenza della presenza voluta, e consentita, di molti elementi borbonici dediti al doppio gioco quando non al vero e proprio spionaggio.
Dal testo Vieste e la Daunia nel Risorgimento di Marco Della Malva si apprendono ulteriori particolari, compreso quello che l’11 gennaio il maggiore Michele Cesare Rebecchi rendeva noto al vice governatore di aver attaccato Vieste via mare e via terra ristabilendovi l’ordine e proclamandovi lo stato d’assedio, avendovi ravvisato lo stato di incitamento alla guerra civile, la proclamazione del caduto governo, l’attacco e la resistenza alle forze nazionali, vari tentativi di saccheggio.
Un anonimo, estensore di un manoscritto, ha descritto genericamente i fatti accaduti nei giorni 3, 4 e 5 gennaio, polemizzando tuttavia aspramente con il comportamento di Alfonso Perrone e di altri liberali, colpevoli – a suo dire – del mancato merito dato alla Guardia Nazionale locale che aveva domato la rivolta; della venuta della Guardia Nazionale di Monte Sant’Angelo al comando del maggiore Rebecchi; della proclamazione dello stato d’assedio; degli incidenti avvenuti tra i montanari e i popolani, che avrebbero contribuito ad acuire l’odio nei confronti dei possidenti liberali; dei contatti tra militi montanari e borbonici, che avrebbero poi favorito lo svolgimento dei tragici avvenimenti del 27 e 28 luglio, quando i briganti sarebbero entrati in Vieste.
Queste le parole scritte a proposito dall’Anonimo:
«Questa reazione fu sedata da un’imponente dimostrazione della Guardia Nazionale, alla quale non rimase alcun merito, per l’imprudenza del funzionante Sindaco di quei tempi Alfonso Perrone, che provocò dietro suo rapporto al Governatore… l’ordine di venuta ad una Colonna di Montanari, comandata dal Sig. D. Michele Cesare Rebecchi di Monte Santangelo. Non l’avesse mai fatto, né che il Rebecchi fosse venuto, come venne, se non altro sarebbe stato una scusa di meno ai fatti atroci che in prosieguo dovevano perpetuarsi da un buon numero di gente anche di questa colonna, che congiurò assieme alla feccia dei Viestani, come vedremo in appresso. E la scusa fu che la colonna e chi la comandava, onde rialzare lo spirito dei liberali, per assecondare sempre le vedute imprudenti di voluti liberali conigli, concertarono assieme con Alfonso Perrone, Carlantonio Nobile, Vincenzo Medina, Carlo Bosco, di dare un tono al Paese (frasario di questi Signori) ed apprendesi in che modo».(da Successe il ventisette a cura del Centro di Cultura «N. Cimaglia» di Vieste)
Ancora una volta si ha il riscontro che la politica moderata di conciliazione, permissiva nei riguardi dell’arruolamento di ex borbonici nella Guardia Nazionale, aveva comportato effetti devastanti: pur di avversare i democratici e gli autonomisti, i liberali monarchici erano disposti a perdere il Sud.
In ogni caso, anche la rivolta di Vieste sembra attestare in maniera inconfutabile la decisa avversione popolare contro l’aggressione militare dei Savoia e il fortissimo legame che univa il popolo a Francesco II di Borbone e all’eroica regina Sofia.
Michele Eugenio DI CARLO