Dai Borbone a Pino Daniele la napoletanità di Gigi Di Fiore
Presentato alla Feltrinelli l’ultima fatica letteraria del giornalista e storico
29 novembre 2019
Uno straordinario viaggio nella “carne”, ma anche nella più intima coscienza di Napoli quello compiuto dal giornalista e storico Gigi Di Fiore nel suo ultimo volume dal titolo “Napoletanità. Dai Borbone a Pino Daniele – Viaggio nell’anima di un popolo” (Utet, 2019) che sarà presentato oggi, alle ore 18, alla Feltrinelli di Salerno, intervistato da Erminia Pellecchia.
Gigi Di Fiore, nel suo ultimo lavoro analizza Napoli. Quali sono i peggiori stereotipi contro cui, da studioso e da cittadino, vuole abbattere?
Il principale stereotipo, per me insopportabile, è la condanna che si portano addosso i napoletani costretti a “fare i napoletani”. È la costrizione a recitare un’idea di loro stessi, che fa molta presa in programmi televisivi di elevata audience e piace tanto a chi vive altrove.
Nel libro parla di amore assoluto e di odio incondizionato…
L’amore assoluto è rivolto a radici uniche nel mondo che diventano nel tempo memoria e luogo dell’anima che si oppone alla quotidianità del luogo fisico Napoli che non si riesce a sopportare. È quell’amore-odio vissuto da molti napoletani che, dal dopoguerra, hanno raccontato e cantato la città. Il caso di Pino Daniele, che racconto nell’incipit del libro, è emblematico: innamorato della città che ha portato sempre dentro come sua fonte d’ispirazione costante, l’ha vissuta da lontano perché non ne tollerava il vivere quotidiano.
Se dovesse indicare un libro che ha maggiormente raccontato l’anima di Napoli, quale sceglierebbe?
Sui libri, soprattutto sulla Napoli del secondo dopoguerra, ho diversi titoli. Mi limito a citare “Mistero napoletano” di Ermanno Rea, “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese.
La fine dell’Italsider è raccontata da lei sulla scia de “La dismissione” di Ermanno Rea…
Quel momento storico fu crocevia fondamentale per la città. È stato la fine del grande progetto industriale voluto da Nitti, di una Napoli in grado di investire il suo futuro nell’occupazione diffusa in grandi industrie. Da Pietarsa all’Italsider in 120 anni quel sogno si è spezzato. E sono rimaste le macerie, in quartieri dove all’argine della cultura operaia e del lavoro con la dignità sociale che esprime, si sono sostituite le logiche dei clan della camorra che prima erano inesistenti in quei luoghi. Una città che ha visto spezzare un disegno subendone un altro degenerativo, in una realtà sociale sempre più disgregata
Manca un’idea di “città”. come lo spiega?
L’idea di città manca e fu anche Galasso a parlare di Napoli mai attraversata dalla modernità. Si è passati nei secoli da una Napoli capitale, resa grande da Carlo di Borbone con tante opere, alla città dei 30 anni d’oro della cultura napoletana che aveva per faro internazionale la presenza di Croce con il moltiplicarsi di poeti, canzoni, musicisti, drammaturghi. Penso invece che, per una serie di vicende storiche e di contesti anche internazionali, Napoli abbia oggi perso tutti i suoi centri decisionali, come il Banco di Napoli. Oggi, la città è diventata un grande B&b, senza idee di futuro e senza progetti sul suo possibile sviluppo ed è un destino cui non penso ci si possa rassegnare.
Stefano Pignataro
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