La lezione della Fallaci a chi si vergogna di essere un italiano
Oltre alla Rabbia, c’era l’Orgoglio di vivere in libertà. Ma ce ne siamo dimenticati…
Alessandro Gnocchi
Forse l’Italia rischia davvero di essere una espressione geografica, come voleva Metternich. I cittadini non sanno più dire cosa hanno messo in comune, per cosa vivono e per cosa morirebbero insieme con gli altri: un’idea di cultura, un tipo di civiltà, magari un paesaggio o certe tradizioni.
Nelle opere e nella biografia di Oriana Fallaci possiamo trovare proprio la difesa (a penna e a spada tratta) di un’idea di cultura, un tipo di civiltà, un paesaggio e certe tradizioni. Molti lettori e critici de La Rabbia e l’Orgoglio si sono concentrati troppo sulla Rabbia e hanno tralasciato l’Orgoglio. L’orgoglio di essere italiani e di condividere, con il resto dell’Europa e gli Stati Uniti, uno stile di vita, che possiamo chiamare occidentale, fondato (bene o male) sulla libertà. Quell’orgoglio latita e il libro, infatti, è una predica innanzi tutto rivolta alla nostra società. Una società ignorante della propria storia e vigliacca, prona ai dettami del politicamente corretto, disposta a scaricare il fardello della libertà. Una società che, di fronte alla minaccia del terrorismo islamico e alle rivendicazioni identitarie degli immigrati, si arrende e retrocede. Rinunciando, un po’ alla volta, a Stato di diritto, parità dei sessi, libertà d’espressione, separazione tra Stato e religione. Scrive la Fallaci: «Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse, (forse?), comunque una guerra di religione». È la guerra santa che mira «alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà, all’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirsi e divertirci e informarci» (La Rabbia e l’Orgoglio).
Eppure l’Italia in un certo senso ha un luminoso futuro dietro alle spalle. Patriottica senza retorica, la Fallaci aveva militato nella Resistenza da adolescente. Innamorata del Risorgimento, la Fallaci ha scritto il più ambizioso romanzo storico del Novecento, Un cappello pieno di ciliege (ignorato dalla critica, ma dove vivono i critici? Boh). Un monumento alle origini familiari ma soprattutto un monumento agli uomini che buttarono lo straniero fuori dall’Italia. La Fallaci mostra ammirazione per i politici della Destra storica, che occupano una posizione di rilievo anche ne La Forza della Ragione. Secondo la scrittrice, quella liberale fu l’unica classe dirigente di qualità che il Paese abbia mai avuto. «Quanto alla Destra storica si legge ne La Forza della Ragione è ormai un ricordo cancellato anche nella coscienza dei cittadini. Fu una Destra gloriosa. Secondo me, una Destra per modo di dire. Aristocratica, sì, ma rivoluzionaria». Sovrani, conti e marchesi guidarono le guerre d’Indipendenza e ottennero il rispetto «perfino» di Garibaldi e Mazzini. Erano uomini «intelligenti, coraggiosi, e davvero progressisti. Nonché onesti. Uno si chiamava Cavour. Un altro, Massimo d’Azeglio. Un altro, Vincenzo Gioberti. Un altro, Carlo Cattaneo. Un altro ancora, che ti piaccia o no, Vittorio Emanuele II. Di mestiere, re». I loro meriti? «Ci dettero il liberalismo, quei fior di uomini anzi di galantuomini. Ci dettero le Costituzioni, i Parlamenti, la democrazia. Ci insegnarono a vivere con la libertà». Lasciarono circolare idee a loro ostili, quelle repubblicane, anarchiche e socialiste. Fecero entrare l’Italia nell’epoca della libera Chiesa in libero Stato. E poi «ci insegnarono anche altre cose da non buttar via. L’amor patrio, per incominciare. L’orgoglio per la propria identità nazionale. Il senso dell’onore, della disciplina, del decoro. Le buone maniere, il rispetto per i vecchi, il valore della qualità quindi del merito».
La Rabbia e l’Orgoglio non è un libro contro l’immigrato in sé. È un monito a non emigrare da noi stessi, a non rinunciare a quanto di buono abbiamo conquistato guerra dopo guerra, strage dopo strage, sacrificio dopo sacrificio. Col linguaggio del pamphlet, la Fallaci ci mostra un passaggio storico. L’immigrazione incontrollata dai Paesi arabi e la parallela esplosione delle comunità musulmane europee rischiano di ribaltare i tradizionali equilibri demografici non solo dei quartieri metropolitani ma perfino di intere cittadine. La convivenza da incerta diventa impossibile nel momento in cui i numeri impazziscono.
L’ondata migratoria che si è abbattuta sull’Italia e sull’Europa non è paragonabile a quella che si abbatté sull’America tra Otto e Novecento. L’America era un Paese giovane e dagli spazi enormi: «Noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: recente mosaico di gruppi etnici e religiosi, disinvolto guazzabuglio di lingue e religioni e usanze, ma nel medesimo tempo aperti a ogni invasione e in grado di respingerla». La nostra identità culturale è definita da secoli e «non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri principii, i nostri valori. Sto dicendo che da noi non c’è posto per i muezzin, pei minareti, pei falsi astemi, per il fottuto chador e l’ancor più fottuto burkah. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che abbiamo bene o male conquistato, la democrazia che abbiamo bene o male instaurato, il benessere che abbiamo indubbiamente raggiunto. Equivarrebbe a regalargli la nostra Patria, insomma. L’Italia. E io l’Italia non gliela regalo» (La Rabbia e l’Orgoglio).
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