𝗟𝗮 𝗴𝘂𝗲𝗿𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗲 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗹𝗮 𝗿𝗲𝗮𝗹𝘁𝗮̀
Asterisco, schwa, presidenta, e altre sconcezze. La tempesta in un bicchiere d’acqua. La ventata ideologica sulla parità di genere si è abbattuta sulla lingua e fa strage di buon senso, realtà ed evidenza, ma deturpa anche sul piano estetico parole, cose e concetti.
Continua a leggere⤵
di Marcello Veneziani
Pubblicato il 02 Aprile 2023
Asterisco, schwa, presidenta, e altre sconcezze. La tempesta in un bicchiere d’acqua. La ventata ideologica sulla parità di genere si è abbattuta sulla lingua e fa strage di buon senso, realtà ed evidenza, ma deturpa anche sul piano estetico parole, cose e concetti. Per dirimere le controversie è stata interpellata dai magistrati di Cassazione che si occupano delle pari opportunità, l’Accademia della Crusca: come scrivere gli atti giudiziari rispettando la parità di genere? Se è per questo, da rispettare non c’è solo la parità di genere, ma anche la consuetudine e la tradizione, la realtà e la verità, e pure la bellezza rispetto alle brutture lessicali imposte per ragioni ideologiche. La Crusca saggiamente respinge asterischi e schwa con cui si vorrebbe deturpare la lingua e deflorare i nomi. Poi, forzando la consuetudine nel nome della correttezza, rifiuta l’articolo davanti al cognome (la Meloni, la Schlein), che viene spontanea in molti casi e che viene usata solo al femminile e non al maschile (il Draghi, il Mattarella). E con assoluto buon senso, boccia le ridondanze ideologiche definite “reduplicazioni retoriche” ovvero la tendenza a ripetere: i cittadini e le cittadine, le lavoratrici e i lavoratori, le figlie e i figli, anche se è d’uso dire signore e signori. La questione si fa più controversa a proposito dei nomi di professione in versione femminile: l’Accademia dei cruscanti manda in soffitta quel suffisso “essa” (dottoressa, sindachessa, professoressa, avvocatessa; anche leonessa?) e non prende in considerazione di lasciare la qualifica nel termine maschile (ad esempio la rivendicazione di Beatrice Venezi di farsi chiamare direttore d’Orchestra) e propende per la declinazione al femminile: direttora, prefetta, questora – che sembra indicare l’ora in corso. Ma poi, se ho ben capito, ridà ragione a Beatrice (stavo per dire alla Venezi), quando avalla “il maschile non marcato” di alcune definizioni come il Presidente del Consiglio. Insomma direttora o direttore? A me sfugge un nostalgico direttrice…
La legge si scontra con la diversità acquisita nel linguaggio, la cacofonia, il disagio nel pronunciarla: perché magistrata e avvocata può anche andare, ma colonnella, architetta (con sciame di allusioni pettorali), addirittura “pubblica ministero”, suonano oggettivamente maluccio e non vengono poi spontanee. Detesto la giustificazione cripto-ideologica che si tratterebbe di definizioni “inclusive”; credo che abbia pari valore anche l’istanza opposta di riconoscere e rispettare le differenze, che non devono essere disparità di giudizio e di pregiudizio, o di rispetto. Ma che sono riconoscimento della differenza tra il femminile e il maschile senza stabilire gerarchie tra l’uno e l’altra. Timidamente la Crusca avverte di non sopravvalutare i principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzione delle presunte storture della lingua tradizionale. D’altra parte – aggiunge con salomonico cerchiobottismo la Crusca – queste mode hanno “un’innegabile valenza internazionale, legata allo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata». In medio stat virtus, o forse in medio stat virus, perché alla fine non si dirime la controversia ma si ondeggia tra le due sponde. Ci rincuora sapere invece la netta bocciatura di quel delirio ideologico che sono gli asterischi o schwa: «È da escludere – dice la Crusca, riferendosi almeno alla lingua giuridica – l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi” di cui però riconosce il beneficio delle buone intenzioni. E la precisazione è ancora più pertinente per una lingua come l’italiano che non ha il neutro, ma solo due generi grammaticali, il maschile e il femminile. Come è noto, la questione è esplosa al massimo livello quando la premier Meloni (e qui non riusciamo a fare a meno di metterci quel “la” davanti) ha disposto di farsi chiamare il presidente del Consiglio. Una definizione che spacca il fronte femminista e gender, ma anche il mondo conservatore, legato alla tradizione. Definizione al maschile, anche se la Crusca ne attenua l’impatto definendolo “maschile non marcato”, che può andar bene se è il riferimento generico, astratto, all’impersonalità del ruolo; ma quando poi devi declinarlo ad personam, viene spontaneo e più verace aggiungere quell’articolo determinativo, la Presidente, o la Meloni. Tornando sull’articolo determinativo, la Crusca, pur consigliandone la dismissione, ritiene che il suo uso non abbia un significato discriminatorio, ma nasce da un senso comune. Più insidioso, invece – ne convengo – è chiamare le donne solo per nome e chiamare invece gli uomini per cognome o titolo professionale. E’ d’uso ma non è un buon uso; senza crociate, è giusto auspicarne il disuso. Infine per superare quei richiami reduplicati al maschile e al femminile (impiegate e impiegati) la Crusca consiglia di usare forme neutre o generiche come la persona, anziché l’uomo, e il personale anziché i dipendenti al maschile.
Nel complesso, indicazioni sagge, abbastanza equilibrate (anche troppo, fino a sfiorare l’equilibrismo), e un invito a usare la testa prima della lingua. Ma, se permettete, continuate pure ad usare gli occhi, e non a chiuderli per sposare regole “inclusive” o cedere a “mode ideologiche”. La realtà vista con gli occhi, magari poi vagliata dagli “occhi della mente” di cui parlava Platone, aiuta molto a definire la realtà.
(Panorama,n.14)