LA CLASSE DIRIGENTE MERIDIONALE VISTA DA GUIDO DORSO NEL CONVEGNO DI STUDI DEL DICEMBRE 1944 A BARI
di Michele Eugenio Di Carlo
L’avvocato avellinese Guido Dorso, nel testo «La rivoluzione meridionale»[1] pubblicato nel 1926, definiva l’annessione una «conquista regia» sabauda del Regno delle Due Sicilie e attribuiva alla borghesia del Mezzogiorno un ruolo primario, al fianco delle élites militari e aristocratiche piemontesi, nell’aver mantenuto in essere un sistema economico semifeudale basato sul possesso della terra e sullo sfruttamento delle plebi rurali. Nello stesso testo, che costituisce la critica analitica più avanzata alla «conquista regia» e al «trasformismo» delle classi dirigenti italiane, Dorso affrontava il tema delle origini e dell’evoluzione della classe dirigente meridionale. Per l’intellettuale il momento storico era decisivo: occorreva evitare che i compromessi e le mediazioni della classe dirigente trasformista italiana avessero il tempo e lo spazio di riproporsi anche dopo la fine del fascismo. Era L’occasione storica [2].
Figura 1. Guido Dorso
Tuttavia, era al Convegno sui problemi del Mezzogiorno di Bari, nel dicembre 1944[3], che Dorso dava il maggior contributo agli studi sulla borghesia terriera meridionale. Il suo fine era chiaramente quello di orientare concretamente «le élites di avanguardia del Mezzogiorno» nell’ambito delle nuove e progressiste correnti politiche, che stavano affrontando «la non invidiabile responsabilità di decidere il destino dell’intero popolo meridionale»[4].
La classe dirigente del Mezzogiorno era nata dalla borghesia terriera che, tra fine Settecento e inizio Ottocento, aveva sostituito i baroni feudali a seguito della legge di eversione della feudalità del 1806, mai modificando il modello statico di produzione, basato esclusivamente sul possesso della terra e sul dominio totale delle plebi rurali, e determinando una «persistente immobilità economica, sociale e politica del Mezzogiorno». Nel passaggio della terra dai baroni a «tutti i vecchi amministratori feudali, tutti gli arricchiti dalle professioni liberali, tutti i massari imborghesiti», i contadini avevano subito un peggioramento delle condizioni di vita, dato che i nuovi padroni, «risiedendo sul posto, erano più esigenti e talvolta più esosi dei vecchi proprietari assenteisti».
La rivoluzione antifeudale, iniziata da Carlo di Borbone e proseguita dal figlio Ferdinando IV con la Prammatica del 1792 (rimasta «sì senza utile effetto, ma memorabile per il suo significato, col quale, si davano a censo, con assoluta prelazione dei nullatenenti, i demani, sia feudali che universali»[5]), completata nel 1806 dagli invasori francesi, non aveva trovato applicazione pratica dinanzi alla prepotenza e alla protervia impunita dei nuovi proprietari terrieri, che si erano semplicemente sostituiti ai baroni e che, pur di conservare un dominio locale, assecondavano sempre le dinastie al potere, dai Borbone, ai francesi, ai Savoia.
Nella sua relazione Dorso spiegava la funzione del ceto intellettuale, proveniente nel Mezzogiorno dalla stessa estrazione sociale dei proprietari terrieri: impiegati del ceto medio, burocrati, professionisti, magistrati, amministratori pubblici, docenti. Nelle società a prevalente economia agricola, gli intellettuali orientavano «la loro cultura e le loro ideologie in senso tradizionale», conservatore e persino reazionario, essendo legati «economicamente e psicologicamente» al ceto agrario dominante; mentre, nelle società che iniziavano ad avere uno sviluppo capitalistico non dominato dai borghesi agrari, il ceto intellettuale acquisiva una cultura tecnica al servizio di processi produttivi più avanzati e in funzione di interessi sociali e politici non più esclusivi della borghesia industriale e commerciale, ma anche del proletariato.
Figura 2. L’edizione Gobetti del 1925 de “La rivoluzione meridionale”.
Illustrate le peculiari caratteristiche di una società di tipo preindustriale, Dorso passava ad analizzare le vicende della borghesia agraria meridionale: aveva conservato i vizi di quella baronale: redditiera, non interessata allo sviluppo della produzione agricola, totalmente poggiante sullo sfruttamento inumano del lavoro contadino. Se solo avesse assunto le responsabilità tipiche di una classe dirigente, l’agricoltura si sarebbe evoluta con la formazione di nuovi ceti tecnici, commerciali, manifatturieri e la questione meridionale non avrebbe assunto contorni drammatici.
Una borghesia terriera che sostiene la dinastia borbonica nella fase antifeudale di Ferdinando IV, ma che «appena avrà raggiunto il suo obiettivo di classe: il possesso della terra, ritornerà conservativa e reazionaria, per paura delle follie ideologiche degli intellettuali», i quali con la Repubblica Partenopea del 1799 vanno incontro a un destino drammatico. La marcia su Napoli del cardinale Ruffo viene inquadrata da Dorso come il risultato del «malcontento e del rancore delle plebi rurali» e, addirittura, come il «Primo e grandioso fenomeno di fascismo». Mentre il brigantaggio politico, sin dal decennio francese, viene spiegato come «la lotta di classe delle plebi rurali, che resistono allo sfruttamento terriero». Infatti, le manifestazioni di insorgenza e ribellismo, mai rivolte «contro il popolo minuto», avranno sempre come obiettivo i proprietari terrieri e, di volta in volta, il brigantaggio sarà «Borbonico ed antiborbonico, antifrancese e poi nuovamente antiborbonico e poi infine antiunitario», seguendo le giravolte strategiche della borghesia agraria nell’intento di contrastarla. E la borghesia terriera, avendo come fine il solo dominio locale sulle plebi rurali, sarà di volta in volta borbonica e antiborbonica, francese e antifrancese, antiunitaria e unitaria, poi fascista.
Quando la monarchia borbonica «si lascia soffiare dal Piemonte l’iniziativa dell’unificazione nazionale» e Mazzini propone il suo disegno repubblicano, liberali e borghesi napoletani si rivolgono ai sabaudi, trovando «nel centralismo piemontese l’incarnazione giuridico-burocratica di quell’ideale politico, verso cui, invano, avevano cercato di spingere l’assolutismo borbonico». Un «ideale politico» puramente rappresentato dall’interesse di consolidare e rafforzare il proprio «dominio regionale» nell’ambito del contesto storico dell’unificazione italiana[6]. Secondo Dorso il Mezzogiorno avrebbe invece dovuto respingere, insieme al «neo-guelfismo» borbonico, la conquista regia piemontese, ma «i dati fondamentali della classe dirigente meridionale erano contro la democrazia effettiva e progressista», anelando solo «dominio politico stabile e soggezione sociale». In definitiva, la classe dominante riteneva pericolosa la democrazia ed era «disposta ad accettare tutti i governi, ma alla condizione che il blocco agrario non venisse frantumato». L’untuoso compromesso spinge le plebi rurali al brigantaggio; monarchia sabauda e classe dirigente meridionale hanno il comune interesse non solo di «schiacciare la tardiva ribellione delle plebi», ma anche di diffamarla.
Si consolidava così la questione meridionale e «accadevano fatti economici e politici di eccezionale gravità»: l’unificazione del debito pubblico nazionale a vantaggio dell’indebitato Piemonte; l’estensione opprimente delle leggi tributarie piemontesi; la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici producente un gigantesco drenaggio di capitali liquidi dalla borghesia terriera meridionale alle casse dello stato e da queste alle province settentrionali per finanziare uno sviluppo capitalistico di tipo industriale. La borghesia del Sud sprecava miopemente le proprie riserve liquide nell’acquisto di beni demaniali, rinunciando ad una produzione moderna e capitalistica dell’uso della terra.
Il protezionismo industriale, inaugurato dal governo Crispi nel 1887 e proseguito durante la fase giolittiana, precipita l’agricoltura meridionale nella crisi, completando «il circolo vizioso iniziatosi col drenaggio dei capitali meridionali», portando il divario economico Nord-Sud a livelli altissimi e costringendo milioni di contadini all’emigrazione oltreoceano.
Ad inizio Novecento, quando le formazioni politiche repubblicane, radicali e socialiste ottengono un relativo successo dopo essere state represse, Giovanni Giolitti, «ex procuratore del re piemontese», intuisce come applicare una nuova politica trasformista al fine di tutelare e salvaguardare il regime liberale sabaudo dalle pressioni popolari rappresentate esclusivamente dall’Estrema Sinistra. É quello il momento in cui il «socialismo rivoluzionario si trasforma in riformismo» e «accanto al capitalismo protetto sorge il proletariato protetto», mentre le condizioni delle plebi rurali del Mezzogiorno continuano ad aggravarsi sotto il peso del protezionismo nell’indifferenza dei governi liberali.
Lo storico Gaetano Salvemini tenta allora di richiamare il partito socialista alla sua funzione rivoluzionaria e alla sua missione storica, che non possono limitarsi alla tutela del proletariato industriale del Nord. Ma il suo tentativo si esaurisce: «il socialismo italiano è antimeridionalista» e nel 1911 è costretto ad abbandonare il campo politico socialista.
Giolitti non riesce a evitare lo sfaldamento del sistema liberale. Matura durante la guerra il nazionalismo, nasce il Partito Popolare Italiano, il Partito Socialista entra in crisi nel contrasto tra riformisti e massimalisti, gli intellettuali del Mezzogiorno si pongono il problema sempre rinviato della democrazia. Il caos è totale e la «rivoluzione è di nuovo nelle strade» durante il biennio rosso. La sinistra rivoluzionaria perde l’occasione, non crede nelle forze rivoluzionarie delle campagne del Sud, «ignora ancora il blocco agrario, e crede con i suoi sociologi positivisti che il Mezzogiorno sia un paese condannato al ruolo coloniale da inferiorità razziale». Nel frattempo, la classe dirigente meridionale appoggia tutti i governi liberali da Nitti a Giolitti, da Bonomi a Facta, con l’unico obiettivo di «conservare la struttura coloniale in cui l’anomalo sfruttamento capitalistico del Nord ha ridotto il suo paese».
Ed ecco che Benito Mussolini, «un avventuriero senza idee e senza scrupoli», proveniente più dall’anarchismo che dal socialismo massimalista, «attraverso funambolismi social-nazionalisti», ascende al potere mettendo insieme «reazionari e rivoluzionari, repubblicani e monarchici, militaristi e antimilitaristi, industriali e d operai, professionisti e burocrati» e cogliendo di sorpresa la borghesia meridionale che si affretta a recuperare posizioni di prima fila nel fascismo, non smentendo la propria vocazione trasformista.
Un fascismo che, smesse le vesti della rivoluzione, ben presto riconnette il blocco agrario meridionale a quello industriale delle regioni settentrionali, diventando il regime ideale per la borghesia terriera.
Le conclusioni di Dorso sono scontate: «Tutto il male che è stato fatto al Mezzogiorno ha avuto per origine i meridionali stessi». È questo il motivo per cui sul finire del dicembre 1944, quando grandi menti del «comunismo meridionalista», del «meridionalismo rivoluzionario», del «socialismo rosselliano», hanno scientificamente indagato la realtà storica del Mezzogiorno, Dorso spinge verso la formazione di una nuova élite intellettuale meridionale, capace di dare la spallata definitiva alla più miserabile classe dirigente d’Europa e al «mostruoso blocco monarchico-militare-industriale-agricolo».
[1] G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Torino, Piero Gobetti Editore, 1926.
[2] G. Dorso, L’occasione storica, Torino, Einaudi Editore, 1949.
[3] G. Dorso, Relazione letta al Congresso di Studi sui problemi del Mezzogiorno (Bari, 3-4-5 dicembre 1944), in Dati e prospettive attuali della Questione Meridionale, Bari, Canfora, 1945; ora in B. Caizzi (a cura di), Antologia della questione meridionale, Milano, Edizioni di Comunità, 1959, pp. 374-415.
[4] La citazione presente e quelle che seguono, non diversamente indicate, sono tutte tratte da B. Caizzi (a cura di), Antologia della questione meridionale, Milano, Edizioni di Comunità, 1959, pp. 374-415.
[5] Cfr. G. DORSO, La rivoluzione meridionale, prefazione alla 2ª edizione, Torino, Einaudi Editore, 1972, pp. 111-112.
[6] Ivi, p. 115.