Non c’erano che trecento metri da percorrere tra la casamatta della cittadella di Gaeta e la Porta a Mare, ma nella mattinata del 14 febbraio del 1861 la calca era tale che re Francesco II di Borbone delle Due Sicilie e sua moglie Maria Sofia soltanto a fatica raggiunsero la lancia che li stava aspettando al porto per trasportarli sulla corvetta francese “la Mouette”, da poco giunta da Napoli.
Piccola, lenta e dall’aspetto dimesso, essa sembrava del tutto adatta alla mestizia del momento. Avrebbe impiegato tre ore per trasportare i suoi passeggeri fino a Terracina, allora il porto più meridionale dello Stato Pontificio. Accompagnati da un ristretto numero di militari, dignitari di corte e servitori le “Loro Maestà” partivano per l’esilio, senza immaginare che non avrebbero mai più rivisto un lembo di quello che per gli ultimi diciotto mesi circa, cioè dalla morte del padre di Francesco, Ferdinando II, era stato il loro Regno.
Invero, i colpi di cannone sparati in segno di saluto già apparivano ai più, secondo il racconto di un ambasciatore presente, come “gli ultimi singhiozzi di un moribondo” e la bandiera napoletana abbassata fra le grida dei cannonieri “il lenzuolo funebre gettato sulla veneranda monarchia di Carlo III”.
Soltanto la sera prima “Franceschiello” (soprannome poco lusinghiero affibbiato dai detrattori all’ultimo dei monarchi che, nei centoventisei anni di vita del Regno delle Due Sicilie, avevano comunque fatto di Napoli una capitale di livello europeo) aveva negoziato con lo spietato generale Cialdini, comandante dei “Piemontesi”, la resa quasi incondizionata della striscia di terra compresa fra Gaeta e Formia che rappresentava, insieme alle cittadelle di Messina e Civitella del Tronto, quel che restava del più grande ed importante Stato dell’Italia preunitaria.
Se l’inizio della fine del dominio borbonico in Italia era partito da Sud, dal mare, con lo sbarco dei Mille a Marsala nel maggio del 1860, il colpo di grazia sarebbe invece giunto da Nord, con la discesa delle truppe piemontesi attraverso lo Stato Pontificio.
A Gaeta la coppia reale si era rifugiata il 7 settembre del 1860, in contemporanea con l’ingresso a Napoli di Giuseppe Garibaldi, entusiasticamente accolto nelle sue vesti di “dittatore delle Due Sicilie” da una grande folla composta anche da un nutrito numero di esponenti dell’ “Ancien Régime” desiderosi di mettersi al servizio del nuovo potente di turno, fra i quali primeggiava Liborio Romano, ex prefetto della polizia borbonica, che nei giorni precedenti aveva tempestato “l’invittissimo generale e redentore d’Italia” con una serie di telegrammi per sollecitarne l’arrivo a Napoli.
Forse considerando lo spostamento a Gaeta come un impiccio di breve durata, Francesco partì dalla sua capitale portandosi appresso soltanto il suo “armamentario religioso” fatto di reliquiari ed immagini sacre cui lui, figlio della santa regina Maria Cristina di Savoia, era devotissimo, senza però ritirare dal Banco di Napoli il suo patrimonio personale ammontante a circa undici milioni di ducati e nemmeno i cinquanta milioni di franchi d’oro che suo padre aveva fatto rientrare dalla Banca d’Inghilterra, con la conseguenza che tutto sarebbe stato incamerato dal futuro governo unitario.
La permanenza di Francesco e Maria Sofia a Gaeta, che già durante i primi due mesi aveva rappresentato una sorta di passione, negli ultimi tre si era trasformata in una lenta agonia. A partire dal 5 novembre infatti l’esercito assediante, forte di circa diciottomila effettivi, col supporto della squadra navale comandata dall’ammiraglio Persano, aveva iniziato a cannoneggiare senza pietà la cittadella di Gaeta, dove oltre agli abitanti avevano trovato posto più di dodicimila soldati rimasti fedeli al loro re.
Gli assediati ben presto si trovarono a che fare non solo coi proiettili avversari, ma anche con la scarsità di viveri, medicine e munizioni, oltre che con un’epidemia di febbre tifoide che li falcidiò nel numero e nel morale.
Il tragico clou tuttavia si raggiunse il 5 febbraio, quando uno scoppio tremendo segnalò a tutti che era appena esploso il deposito di munizioni del bastione di Sant’Antonio, lasciando per terra trecento fra morti, feriti e mutilati gravi. Proprio la vista di un simile strazio convinse Francesco II, che aveva vissuto tutto l’assedio con grande dignità e forza d’animo (così riscattando agli occhi dei più l’immagine di bamboccio inadatto al comando che certa propaganda gli aveva confezionato addosso), a scegliere la strada dell’esilio volontario, chiedendo a Papa Pio IX di ricambiare il favore che suo padre gli aveva riservato, offrendogli rifugio proprio a Gaeta dodici anni prima, per tutta la durata della Repubblica Romana.
Sul povero Francesco II di Borbone calava mestamente il sipario della storia.
Anselmo Pagani
Historia