Il Sud nel lungo percorso del Risorgimento italiano
Come ha scritto in maniera esemplare Saverio Musolino, in occasione dell’uscita nelle sale del film “Noi credevamo “ un ‘unificazione fatta dal Nord – guidata dal Piemonte – venuto a liberare e civilizzare un Sud represso e incapace di autodeterminazione” è una tesi storica che non prende in considerazione e trascura i sacrifici di tanti patrioti meridionali, tra i primi ad avere consapevolezza della necessità e di un ‘Italia unita con una costituzione” . C’è un orgoglio del Sud di rivendicare costituzione e libertà tanti anni prima degli eventi del 1860, che Saverio Musolino esplicita in questi termini:
“ Il contributo meridionale non fu subalterno ai disegni che maturarono in altre parti d’Italia: il Mezzogiorno volle l’Unità e fu determinante nel realizzarla e nel modo in cui essa si realizzò. I propositi degli organizzatori sono fondati. Il Sud non fu subalterno né sotto il profilo organizzativo né sotto quello dell’azione: basti pensare che la Giovane Italia diffusa nel Mezzogiorno non fu quella del Mazzini, come ancora si sente ripetere, ma quella ideata dal calabrese Benedetto Musolino, cui aderì prontamente il Settembrini e che contribuì a diffondere, già nei primi anni ‘30, l’ideale di un’Italia una, libera e costituzionale.”
Il primo movimento costituzionale del 1820 era stato promosso dal sacerdote Luigi Minichini di Nola, coadiuvato da un gruppo di ufficiali, guidati da Michele Morelli e Giuseppe Salvati, il cui programma si compendiava nella richiesta di “Costituzione e Libertà”.
Quindi nel 1820 al Sud vi era un fermento unitario che rivendicava la costituzione e che portò alla sollevazione della città di Palermo contro il Regime borbonico. Specificamente, al sacerdote Luigi Minichini si unì un gruppuscolo di carbonari di Nola con un centinaio di militari al comando del tenente Michele Morelli. L’iniziativa ebbe l’adesione inoltre di diversi alti ufficiali, che in passato avevano militato sotto il re Gioacchino Murat, tra cui il generale Guglielmo Pepe.
I moti costituzionali napoletani ebbero un suo primo successo, dato che vi partecipava il ceto piccolo e medio borghese, artigiani e basso clero, e soprattutto quadri intermedi dell’esercito. Il sovrano si vide costretto ad emanare un editto in cui si prometteva la promulgazione della costituzione. Con tale formale premessa le forze liberali potevano ritenersi soddisfatte. Aver raggiunto il risultato di un regime con alcune pur minime garanzie costituzionali poteva considerarsi accettabile.
Le speranze di Luigi Minichini e degli altri patrioti che chiedevano “ costituzione e libertà” naufragarono nella repressione borbonica e della Santa Allenza, e portarono al sacrificio estremo di Michele Morelli e Giuseppe Silvati. Tuttavia, le sollevazioni delle terre napoletane ebbero una funzione di esempio per i patrioti della parte settentrionale della penisola.
Dieci anni dopo, mentre Giuseppe Mazzini lanciava la sua “Giovane Italia” , negli stessi anni al Sud si organizzò a partire dal 1830 un movimento denominato la “ setta dei Figliuoli della Giovane Italia”, fondata da un calabrese il cui nome era Benedetto Musolino, che promuoveva gli ideali libertari e repubblicani nel Regno delle Due Sicilie . Quindi fu Benedetto Musolino a raccogliere l’eredità dei patrioti napoletani del 1820 , sempre attivi a rivendicare, costituzione , libertà con l’obiettivo di fornire il contributo alla realizzazione del sogno unitario.
Molto illuminante è la storia di Giovanni Vincenti , che aveva aderito alla “Giovane Italia Meridionale” di Benedetto Musolino. Vincenti era un attore drammatico e patriota veronese che morì allo Spielberg dopo dieci anni di carcere all’età di 30 anni, il quale aveva preferito aderire alla Giovane Italia Meridionale, dato che , per cospirare per l’unità della Patria , si deve andare al Sud (siamo negli anni tra il 1835 e il 1839 ), dove c’è tutto un fermento sconosciuto nel Lombardo – Veneto .
Scrive ancora Saverio Musolino :” La coscienza del contributo dato dal Meridione alla formazione dello Stato Unitario farà bene anche al Nord, contribuendo a vincere antichi pregiudizi e retaggi”
Pur essendo stato Terra di Lavoro il territorio dei feroci briganti al servizio della reazione borbonica, legittimistica, da Gaetano Mammone, Fra’ Diavolo fino a Francesco Guerra, Domenico Fuoco, è altrettanto vero che il Risorgimento Italiano anche in Terra di Lavoro è pregno di avvenimenti e personaggi di rilievo che ci comunicano l’esistenza di un filo logico che unisce il 1799 al 1860, passando per i moti del 1820-1821 e le rivoluzioni del 1848.
L’albo Campano di Angelo Broccoli evidenzia il contributo rilevante dei martiri di Terra di Lavoro alla Repubblica Napoletana del 1799.
Su 123 giustiziati dai Borbone 13 provenivano da Terra di Lavoro. Inoltre Il Pantheon dei martiri campani dello stesso Broccoli nell’elenco riporta Mons .Michele Natale di Casapulla, Vincenzo Russo di Palma Campania, Pasquale Battistessa e Nicola Ricciardi di Caserta, Francesco Bagno di Cesa, Domenico Cirillo di Grumo, i capuani Leopoldo De Renzis e Eleuterio Ruggero, Clinio Roselli di Esperia, Domenico Perla, residente a Lusciano ed Ercole D’Agnese di Piedimonte, quest’ultimo presidente della commissione esecutiva della Repubblica Napoletana.
Inoltre è noto il legame di Francesco Pagano con Terra di Lavoro a cui in carcere dedicò uno studio con le Dissertazioni sull’Antica Calvi.
Lo stesso Carlo Lauberg, alla guida della Repubblica Napoletana fino al 25 febbraio 1799, era originario di Teano.
Ai martiri bisogna aggiungere i tanti esuli a Marsiglia, Parigi e Lione, tra cui ricordiamo Giovanni Bausan di Gaeta, amico dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, Alessandro D’Azia di Capua, Pietro Battiloro di Arpino, Gian Vincenzo Battiloro fratello di Pietro, Decio Colletti di Formicola, Domenico Fiore di Aversa, grande amico dello scrittore francese Stendhal, Mattia Zarillo di Capodrise, che fu in un primo momento inserito nel governo provvisorio di Carlo Lauberg.
Dopo la sconfitta della Repubblica Napoletana, i patrioti di Terra di Lavoro si riorganizzarono tramite la Carboneria in raccordo con i patrioti delle vicine province di Salerno e Avellino, ove la Carboneria aveva buone basi, prima dei moti del 1820- 21, precisamente dal 1817.
Ad essa aderirono professionisti, ecclesiasti, studenti, artigiani, militari.
In relazione al numero degli ecclesiastici, secondo la ricerca dello storico Rosolino Chillemi di Capua, “Clero e Carboneria a Capua e Caserta nelle carte del Principe di Pianosa”, nella sola diocesi di Capua il numero degli ecclesiasti aderenti alla Carboneria annoverava ben 220 persone. Quindi, prima dei moti insurrezionali del 1820-21, la Carboneria di Terra di Lavoro era ben attiva per tutta la provincia, in particolare nelle città di Capua, Aversa, Santa Maria e Nola.
Ricordiamo che il nome “Carboneria” derivava dal fatto che i settari dell’organizzazione avevano tratto il loro simbolismo ed i loro rituali dal mestiere dei carbonai, ovvero coloro che preparavano il carbone e lo vendevano al minuto. L’organizzazione, di tipo gerarchico, era molto rigida: i nuclei locali, detti “baracche”, erano inseriti in agglomerati più grandi, detti “vendite”.
Un documento della Biblioteca del Museo Campano ci fornisce il numero di settantaquattro vendite nella provincia di Terra di Lavoro,.
Ciascuna vendita è generalmente formata da non meno di dieci – quindici carbonari, a volte venti- trenta.
Si può, quindi, comprendere come fossero vivi gli ideali risorgimentali con tanti patrioti pronti a partecipare ai grandi avvenimenti che porteranno alla richiesta della costituzione nel 1848.
Infatti fu l’orgoglio del Sud, di un Mezzogiorno d’Italia ad essere in prima linea nel travagliato percorso della conquista dell’Unità d’Italia. Nel 1848, l’anno delle rivoluzioni, nel Mezzogiorno d’Italia la rivolta partì dalla Sicilia. La rivoluzione siciliana del 1848 contro il regime borbonico iniziò il 12 gennaio 1848. Il moto siciliano fu, quindi, il primo a scoppiare in un anno colmo di rivoluzioni e rivolte popolari, avviando quell’ondata di moti rivoluzionari che sconvolse l’Europa e che viene definita “primavera dei popoli.” Prima e successivamente a tale data, i contadini, intuendo i tempi nuovi, si misero in moto per le occupazioni delle terre.
Nei rapporti della polizia gli autori delle occupazioni sono definiti “ comunisti” in quanto il loro obiettivo era quello di dividersi le terre demaniali usurpate da nobili, ecclesiastici e grande borghesia. Ovviamente i contadini non conoscevano il manifesto di Marx e Engels, pubblicato nel febbraio del 1848, ma erano chiamati “ comunisti”. Guidati dai democratici radicali e anche liberali in alcuni casi, i braccianti intendevano solo appropriarsi delle terre demaniali usurpate e delle mense vescovili. E’ importante rimarcare che in tale contesto storico i contadini erano guidati dai democratici e repubblicani, dai liberali appartenenti alla piccola e media borghesia anche contro gli stessi possidenti liberali.
Nel distretto di Bovino, in Capitanata, infatti, furono i liberali ad organizzare i contadini nell’occupazione delle terre a Orsara e a Greci anche contro elementi liberali conservatori. A San Giorgio la Molara, provincia di Benevento, a Monteverde e Sant’Angelo dei Lombardi in provincia di Avellino furono lo stesso Sindaco e i domenicani ad essere i promotori dell’occupazione delle terre del principe Ruffo.
Inoltre in provincia di Salerno tanti furono i comuni in cui vi erano occupazioni di terre: Vallo della Lucania, Sala di Gioi, Castel Velino, Castelnuovo di Conza, Roccadaspide, Monteforte, Castellabate, Roccagloriosa e Sacco. I democratici radicali comprendevano che era il momento di dare una chiara impronta sociale alla rivoluzione in atto e non limitarsi solo alla rivendicazioni delle libertà costituzionali.
Anche in Puglia, guidati dai “capitani del popolo”, uomini ultraliberali, i contadini invasero i terreni a Bovino, Troia, Monte S. Angelo, Viesti, Orsara, Deliceto, Savignano, Barletta, Andria, Gravina, Altamura, Gioia del Colle, Noci, Cassano, Martina, Francavilla, Manduria, Palagiano.
In Basilicata i contadini furono guidati dai democratici repubblicani . Anche in tale regione furono tanti i comuni interessati all’occupazione delle terre: Pietrapertosa, Rionero in Vulture, Stigliano, Avigliano, San Mauro Forte, Melfi, Chiaromonte, Pomarico, Bernalda.
In Terra di Lavoro di Lavoro, in Principato Citeriore ed Ulteriore, i contadini si mobilitarono. A Cervinara si gridava: Viva la Repubblica, Viva il Comunismo! In provincia di Avellino i terreni occupati riguardavano i comuni di Lauro, Quindici, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Melino Irpino.
In Calabria vi fu il grande patriota democratico Benedetto Musolino, il quale sfidava gli stessi elementi liberali conservatori, riuscendo a instaurare un forte legame tra i democratici repubblicani e le masse contadine. Tanti i comuni interessati in Calabria, in particolare nelle odierne province di Catanzaro e di Cosenza. In particolare, in provincia di Catanzaro i comuni interessati furono quelli di Doveria Mannella, Decollatura, Carlopoli, S. Mango, Albi, Rocca Bernarda e altri, mentre in provincia di Cosenza i contadini occuparono le terre a Rossano, San Cosmo, Amendolara, Campana, San Fili, Grimaldi, Altilia, Aprigliano, Rogliano, Dipignano, Figline, Albidona e altri.
Ricordiamo che negli anni precedenti il 1848 e successivi, vi era stato un confronto duro nell’ambito del movimento risorgimentale. Lo stesso Benedetto Musolino, protagonista delle lotte contadine in Calabria, accusò Mazzini di scarso impegno sulle questioni sociali. Bisogna pur dire che l’apostolo genovese era preoccupato di non inserire divisioni e conflitti tra le classi, che voleva tutte unite nel compito prioritario della lotta per l’unità e l’indipendenza italiana, ma, secondo l’opinione dei democratici repubblicani radicali, con questa strategia, egli sacrificava, o almeno relegava in secondo piano, le esigenze di emancipazione dei ceti popolari e l’obiettivo della giustizia sociale.
D’altronde la prima delle tante rivoluzioni europee del 1848 avvenne proprio in Sicilia il 12 gennaio 1848. Infatti La Rivoluzione Siciliana contro la tirannia borbonica fu la prima rivolta dei moti rivoluzionari in tutta Europa di tale anno e gli ideali del popolo siciliano erano gli stessi di tanti anni precedenti : affrancarsi dal Regno Borbonico, ottenere l’indipendenza nell’ambito di un’unificazione nazionale, già interiorizzata tanti anni prima dell’Unità.
Infatti la Sicilia ambiva all’autonomia ed era portatrice di un forte sentimento indipendentista prima del 1848 ; i siciliani odiavano quel Regno delle Due Sicilie , governato da tiranni quali i Borbone.
Dopo un terribile inverno segnato da povertà , il 12 gennaio il popolo palermitano eresse le barricate e si rivoltò , sventolando per le strade dell’isola il tricolore italiano e inneggiando all’Italia, alla costituzione. Dalla tetra fortezza di Castellammare le forze borboniche bombardarono la città con gli artiglieri che scagliarono piogge di proiettili contro la folla degli insorti. I tiranni borbonici decisero di ritirarsi solo dopo aver lasciato sul terreno in solo quel giorno trentasei vittime. Il loro sacrificio non fu vano, poiché nel giro di pochi giorni i contadini delle campagne si unirono ai rivoltosi , assaltando i municipi e dando alle fiamme i registri delle imposte e del catasto.
L’esercito borbonico, capitanato dal generale De Majo, cercò di opporre una qualche resistenza ma , dopo che Palermo fu luogo di aspri combattimenti , l’esercito borbonico si ritirò e si insediò un comitato generale che si assunse le funzioni di governo, chiedendo la convocazione di un Parlamento siciliano. Il 25 marzo dopo 30 anni venne proclamato nuovamente il Parlamento di Sicilia, presieduto da Vincenzo Fardella di Torrearsa, fra l’ottimismo e la gioia dei politici e del popolo, e la Sicilia riesce ad essere nuovamente retta da un governo costituzionale con la proclamazione del nuovo Regno di Sicilia.
Il capo del nuovo governo Ruggero Settimo, già ammiraglio della flotta borbonica, ma che da sempre nutriva schietti sentimenti liberali e si opponeva alla tirannia borbonica nei confronti del popolo isolano, fu accolto con entusiasmo e salutato come padre della patria siciliana. Tra i ministri, furono nominati Francesco Crispi, Francesco Paolo Perez, Mariano Stabile, Michele Amari e Salvatore Vigo
La bandiera del Regno della Sicilia fu il tricolore: verde, bianco e rosso.
Alle notizie della rivolta siciliana , la stessa Napoli si sollevò contro i tiranni borbonici , come anche i contadini del Cilento .
Allora in quel frangente Ferdinando II , consapevole ormai che le sue truppe non erano ben disposte a combattere , liberò dal carcere Carlo Poerio, il cui fratello Alessandro era morto nella difesa della repubblica di Venezia nel 1848, e ciò ebbe un significato notevole, dato che diede coraggio a tutti i liberali napoletani che organizzarono una manifestazione di venticinquemila persone sulla grande piazza di fronte al Palazzo Reale. Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione del Regno delle due Sicilie il 29 gennaio dello stesso anno, redatta dal liberale moderato Francesco Paolo Bozzelli e promulgata il successivo 11 febbraio. In relazione al 1848, non si può dimenticare l’apporto di Costabile Carducci. Negli ultimi giorni del giugno 1848, al Carducci fu affidata la missione di recarsi di nuovo nel Cilento, per provocare un’ insurrezione che questa volta avrebbe dovuto estendersi non solo in tutta la provincia di Salerno, ma anche nella provincia della Basilicata. In effetti- come scrive Giorgio Candeloro- come rivincita per la dura e sanguinosa repressione del 15 maggio 1848, alcuni patrioti “ democratici speravano di sollevare completamente le tre province calabresi e da queste procedere verso il Nord, facendo insorgere la Basilicata, il Salernitano e le Puglie e quindi a marciare su Napoli per imporre alla capitale del regno la rivoluzione.
Alla testa di una quindicina di uomini, il Carducci partì per il Cilento. Giunto a Sala, prese a nolo una barca, dirigendosi il 4 luglio a Sapri. Fu un’improvvisa tempesta di mare che lo costrinse a sbarcare ad Aquafredda, in provincia di Potenza, fra Maratea e Sapri.
Qui entra in gioco il destino, in quanto il prete reazionario Vincenzo Peluso, costretto dal gennaio del 1848 a fuggire da Sapri per la rivoluzione popolare del Cilento, seppe che Costabile Carducci guidava i pochi che erano sbarcati ad Acquafredda, proprio dove il prete si era rifugiato.
Nelle condizioni in cui si trovava Costabile Carducci fu un gioco per il prete Peluso radunare un forte nucleo di parenti, amici, contadini armati a cui si ripeteva la diceria, che avrebbe portato nel 1856 anche alla morte Carlo Pisacane, che erano giunti dei briganti.
I superstiti del naufragio furono assaliti sulla spiaggia di Acquafredda e durante l’intensa scarica di fucilate il patriota Carducci fu ferito al braccio destro, fatto prigioniero, legato e derubato delle fedi del credito, che aveva addosso, come anche di una cintura in cui vi erano cento piastre. Il prete ordinò che le fedi di credito e le piastre gli fossero portate a casa. Nello stesso tempo, disse a Costabile Carducci: “ Andrete a Lagonegro per essere consegnato alle autorità”. Il Carducci non arrivò mai a Lagonegro. Il 9 luglio 1848 una pastorella di nome Maria Paesano vide un cadavere in un burrone di una contrada di Acquafredda. Era quello di Costabile Carducci.
Nei mesi precedenti la spedizione di Carlo Pisacane, non si po’ non ricordare uno dei più conosciuti di tali momenti storici che avvenne nel novembre del 1856, quando Salvatore Spinuzza e Francesco Bentivegna provarono a spingere le masse contro l’oppressione borbonico-napoletana. Anche tale tentativo , pur velleitario ma ricco di generosità e idealità , si concluse drammaticamente con una sconfitta che costò ai due patrioti la condanna alla pena capitale dopo un sommario processo nel marzo dello 1857.
E’ nota la sconfitta umana e politica di Carlo Pisacane( Napoli, 22 agosto 1818- Sanza,2 luglio 1857), colui che rappresentò l’avanguardia del movimento repubblicano democratico e socialista tra gli apostoli del glorioso Risorgimento.
Di un grande dramma umano, prima che politico e patriottico, ci si occupa nel momento in cui si scrive di questo patriota, ucciso dalla stessa gente che desiderava emancipare, contadini analfabeti e superstiziosi aizzati dai Borbone e dal clero. Il sogno della rivoluzione sociale di Carlo Pisacane venne infranto dalla reazione barbara e sanguinosa di coloro a cui aveva prospettato la liberazione sociale.
Intendiamo in questa sede focalizzare l’attenzione sugli scritti politici di Carlo Pisacane, sul suo pensiero rivoluzionario decisamente persuaso della necessità di far sì che l’obiettivo dell’Unità nazionale dovesse procedere di pari passo con quello della questione sociale.
Pisacane, da repubblicano e socialista, ha espresso il suo pensiero politico in quattro scritti, La Guerra Italiana, Poche Parole sulla relazione della campagna del 1849 in Sicilia, La Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, e soprattutto La Rivoluzione.
Dai titoli già si può intuire che Pisacane non fu un avventato idealista. Conosceva bene ciò che era successo nel 1848, l’anno delle rivoluzioni, nel Mezzogiorno d’Italia e la rivolta della Sicilia, ma soprattutto era stato affascinato dalle rivolte dei contadini per le occupazioni delle terre
Tuttavia Carlo Pisacane scelse il Cilento, un territorio ove aveva operato la “Fratellanza”, gruppo che aveva assunto un carattere egualitario e in cui le parole di giustizia sociale avevano portato alle occupazioni delle terre del 1848 da parte dei “ comunisti”.
E’ tale il contesto dei fatti storici a cui Carlo Pisacane fece riferimento nei suoi scritti, in cui ritroviamo già le idee portanti del suo pensiero, secondo il quale la rivoluzione morale in Italia era stata compiuta grazie alla perseveranza degli “ apostoli” e dei martiri contro i tiranni. Si mostrava pertanto necessaria compiere una rivoluzione sociale con il popolo e con le masse contadine.
Le stesse idee furono ribadite dal Pisacane nello scritto sulla campagna del 1849 in Sicilia, in cui l’autore riconosce al Mezzogiorno e alla Sicilia in particolare, il merito della lotta intrapresa contro i tiranni, ma veniva ribadito il collegamento con il popolo.
Posizioni analoghe le ritroviamo anche nel saggio sulla Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, un’opera più completa e diretta nel comunicare che il socialismo non costituiva una generica aspirazione, ma il contenuto che avrebbe dovuto assumere la rivoluzione.
Pisacane muoveva da un atteggiamento critico nei confronti di Mazzini, del quale non condivideva la visione puramente politica della rivoluzione, non in grado di mobilitare le classi popolari. A tal fine auspicava la costituzione di un partito socialista rivoluzionario che avrebbe dovuto realizzare, con l’appoggio delle masse, soprattutto contadine, una rivoluzione di tipo socialista, con lo scopo principale della ridistribuzione delle terre agli stessi contadini.
Nel saggio Pisacane metteva sotto accusa monarchici e repubblicani, moderati e democratici che avevano tenuto ai margini la lotta contadina.
La monarchia sabauda, secondo Pisacane, non avrebbe garantito tale rivoluzione al pari di quella borbonica che era stata capace solo di “ ingannare, corrompere, tradire e sgozzare.”
Pisacane proponeva la figura del cittadino-soldato, scrivendo che l’Unità italiana doveva procedere di pari passi con la rivoluzione sociale per realizzare una repubblica democratica di stampo socialista.
Per Pisacane tale governo repubblicano e democratico sarebbe dovuto essere capace di “ svolgere, elaborare, discutere, formulare un altro germe racchiuso nell’impenetrabile involucro dell’ignoranza e della miseria del popolo. Quindi compito del rivoluzionario era far si che contadini si emancipassero dall’ignoranza e dalla superstizione, in cui fino allora sono stati tenuti dai governi e dal clero. Un compito difficile, ma da portare avanti al fine di “ far germogliare nel popolo la rivoluzione delle idee che deve sempre precedere la rivoluzione materiale”
Il saggio “La Rivoluzione” è lo scritto più importante di Carlo Pisacane, che contiene coinvolgenti implicazioni di ordine storico, filosofico, religioso ed economico. L’opera si apre con una domanda retorica: “il progresso spande egualmente la prosperità su tutti?”
Ovviamente no, in quanto le società sono ugualmente caratterizzate da profonde ingiustizie che rendono impossibili una reale eguaglianza. Pertanto erano necessari “ mutamenti negli ordini sociali. In un mondo di cui non si conosce il creatore e non ha alcun senso ricercarlo, l’uomo è comunque, secondo la tesi già di Aristotele, un animale sociale che non ha amore per i propri simili. A livello storico e sociale ciò implica che i popoli oppressi devono comunque insorgere, guidati da riformatori nella loro perenne lotta contro i “conservatori, parte cancerosa della società”.
Pisacane era consapevole che pensatori come Tommaso Campanella, Mario Pagano, Gaetano Filangieri, Romagnosi ed altri avevano già, nei loro scritti, esplicitato o reso implicito il concetto della rivoluzione sociale. Per Pisacane l’opera di Giuseppe Mazzini era nobile, ma nei suoi scritti mancava il riferimento alla rivoluzione sociale, mentre era presente un conservatore sentimento religioso di “Dio e Popolo”
Quindi Carlo Pisacane si faceva artefice di un sogno per cui decise di donare la vita, un’utopia condivisa anche da una minoranza di patrioti i quali seppero suscitare un moto rivoluzionario.
All’amico Giuseppe Fanelli, patriota che partecipò alla spedizione dei Mille, meditando sulle possibilità di un moto rivoluzionario anche gestito da una minoranza scrisse : “Un colpo intrapreso da pochi basterebbe per fare esplodere la rivoluzione[ … ]Vogliamo mandare ad effetto una congiura ristretta, rapida, in virtù della quale i quattro o cinquecento colli che sono in isola si trovassero in Cilento[ …[ importa sommamente non far precedere tal colpo da nulla che possa dar sospetti al governo, e non vivere, non operare, non pensare che alla riuscita di tal fatto”.
Sappiamo come andò a finire il tentativo rivoluzionario di Carlo Pisacane.
Contadini rozzi e superstiziosi, tenuti nell’ignoranza dai Borbone e soggiogati da sempre dal clero, lo uccisero barbaramente nelle terre del Cilento, mettendo in crisi il movimento democratico e repubblicano che da quel momento non ebbe la forza di riprendersi per tanti anni.
Concludiamo con le sue nobili parole riportate su Il Cagliari la sera del 25 giugno 1857:
“Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de’ martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s’immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all’Italia, benché sino a oggi ancora schiava “.Si arriva, quindi, all’anno precedente l’unità e il 4 aprile 1860, a poche settimane dallo sbarco dei Mille, si verificò un ultimo disperato tentativo rivoluzionario siciliano, questa volta ad opera di un popolano, l’artigiano Francesco Riso, quella che gli storici chiamano “ rivolta della Gancia. “Anche quella rivolta si concluse con il sacrificio di ben tredici vittime il cui martirio acuì l’odio che i siciliani nutrivano verso i Borbone, considerati, anche dalle classi popolari, come stranieri e oppressori.
“ All’inizio del 1860- scrive Alfonso Scirocco- la Sicilia appariva sempre più inquieta , tanto da destare le preoccupazioni dei governi europei, che temevano un’insurrezione imminente”.
Tuttavia , nonostante le sollecitazioni continue di Rosolino Pilo, fervente mazziniano siciliano che perirà in uno scontro a fuoco in marcia verso Palermo nel 1860, Giuseppe Garibaldi non voleva arrischiare un ‘impresa senza possibilità di successo. Come evidenzia bene lo stesso Scirocco: “ in sintesi (Garibaldi) non era disponibile a un tentativo avventuroso , rivolto a suscitare un’insurrezione non ancora iniziata , come erano stati quelli dei Fratelli Bandiera e di Pisacane” . Tale questione non è di poco conto: la sconfitta dei Fratelli Bandiera e soprattutto quella più recente di Pisacane avevano incrinato le certezze dei mazziniani.
Pisacane aveva scritto nel saggio sulla Rivoluzione, di essere disponibile ad un «sacrificio senza speranza di premio»: «ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell’animo di questi cari e generosi amici… che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all’Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire». Le parole di Pisacane erano nobili, ma tante sconfitte avevano lasciato il segno, per cui i repubblicani dovettero alfine prendere atto delle ragioni dei liberali moderati in tale contesto storico in cui si avvicinava la spedizione dei Mille.
Angelo Martino
Bibliografia:
AAVV- DA SUD- Le radici meridionali dell’Unità nazionale- a cura di Luigi Mascilli Migliorini, Anna Villari- Silvana Editoriale- 2011