IL SANGUE DEI TERRONI
“Megghiu puorcu ca surdatu”, meglio porco che soldato con i Savoia, giuravano in Sicilia, dove, con l’arrivo dei piemontesi, giunse anche l’obbligo della leva, che portava via le braccia più giovani e forti dai campi (quindi miseria), per anni. Per i siciliani fu una specie di stupro, perché uno dei vantaggi della limitata autonomia che avevano con i Borbone e persero del tutto con i Savoia, era l’esenzione dal servizio militare. Su 72.000 chiamati a fare il soldato, dalle nuove autorità sabaude, 50.000 si dettero alla macchia e andarono a rinfoltire le formazioni brigantesche e guerrigliere. “So’ viste ‘na cose appese, sacce s’jeve ciucce o piamuntese”, dicevano in Capitanata, Puglia: ho visto una cosa appesa, non so se era un asino o un piemontese.
Il Regno delle Due Sicilie era stato invaso e annesso per far “L’Italia” con il sangue e i soldi dei meridionali (e questo, Lorenzo Del Boca lo ha raccontato in suoi precedenti libri, quali Maledetti Savoia e Indietro Savoia). Nacque, così, un astioso Paese unificato sulla carta e diviso di fatto. La reazione armata della gente del Sud alla conquista (ancora oggi ci si rimprovera tale termine, usato dai deputati del Nord, nel Parlamento unitario, a proposito delle province meridionali, e inutilmente contestato dall’onorevole siciliano Giuseppe Bruno) fu dequalificata, nella narrazione nazionale e accademica, e ridotta a Brigantaggio, per farme questione di ordine pubblico e spogliarla del suo contenuto politico e “nazionale”. Fu una guerra strisciante di rara ferocia; durò, a scemare, una decina di anni e impegnò, fra esercito sabaudo e guardie nazionali, sino a più di 200.000 uomini armati. Per come ce l’hanno raccontata, si ebbe il brigantaggio solo nella parte continentale del distrutto Reame di Napoli; la Sicilia, vista come culla e porta del Risorgimento, ne fu esente. Ma le bande c’erano, e tantissime, con decine o centinaia, e fino a un migliaio scarso di armati.
Nel 1866, Palermo insorse e i rivoltosi sconfissero più volte, militarmente, le truppe sabaude. L’isola fu riconquistata dal generale Cadorna, alla testa di 40.000 soldati e dopo che la flotta aveva bombardato Palermo. Per avere un’idea dell’entità degli scontri: i militari caduti contro gli insorti siciliani in quella rivolta, furono 332; quelli morti nella battaglia di Custoza, contro l’Austria, nel 1848, 212, ma l’esercito era quasi doppio di quello sceso a Palermo; e circa 600 i caduti, ma su un esercito complessivo di 260.000, sempre nel 1866, ancora a Custoza (altra sconfitta: i generali del Savoia erano bravissimi a sterminare italiani, anche bombardando dei semplici scioperanti in piazza Duomo, a Milano, ma in battaglia, contro un nemico vero, le prendevano sempre). Le atrocità di quei mesi innescarono un ancora più aspro confronto parlamentare, da parte di alcuni deputati del Sud.
Negli anni, si arriverà a quella che venne chiamata l’Opposizione meridionale; Francesco Crispi sarà capo del governo.
Francesco Saverio Nitti spiegava che la guerra contro la ribellione meridionale non la vinsero le armi, ma l’emigrazione e che se si fossero sovrapposte le mappe del brigantaggio e quelle della più massiccia emigrazione, si sarebbe visto che coincidevano. Perché l’aggredito ha due possibilità: le armi e la fuga, se fallisce la prima, non resta che la seconda (mai nella storia millenaria del Sud c’era stata emigrazione: cominciò vent’anni dopo l’Unità, per la miseria che generò). Ma ancora a fine Ottocento, i terroni tornarono a insorgere, con i Fasci siciliani. E fu un’altra strage. Il Sud non era ancora domo, la rabbia, il risentimento, per come era stato trattato e ancora era trattato (e, armi a parte, non è cambiato niente, manco oggi), continuavano a essere un pericolo per la debole costruzione unitaria.
La grande guerra fu l’ultima occasione per spegnere i furori latenti dei meridionali, facendoli ammazzare dagli austriaci; con il doppio risultato di levame di mezzo un bel po’, e di annaffiare, con tutto quel sangue, il loro scialbo sentimento nazionale, con la coesione costruita nelle trincee, l’orgoglio per gli atti di eroismo, le vittorie.
E, anche su questa fierezza militare, non trascurerei un ricordo di guerra di lndro Montanelli. Il grande Indro parlava di un soldato siciliano espertissimo nello schivare il fronte, e che gli era stato assegnato non so più se come autista o attendente.
Finché, un giorno, una maleducatissima palla di rimbalzo comunque vagante, lo ferì. «A miaaal!» urlò l’imboscato di professione, vedendo spillare qualche goccia del suo sangue. Da quel momento, scatenò una sorta di guerra personale, mancando poco che la vincesse da solo e guadagnando encomi.
L’Italia non è un Paese equo, classifica i suoi cittadini, dando ad alcuni più diritti, infrastrutture, rispetto; ad altri meno. Si parlava, già un secolo fa, di “una sorta di antisemitismo” nei confronti dei meridionali. Non voglio entrare, qui, in questo argomento; lo cito solo per dire che, ogni volta che si fanno le graduatorie, fra gli esseri umani, si sta decidendo chi muore prima; e persino, chi muore al posto di un altro. E non è una speculazione intellettuale, uno schizzetto di sociologia contro le invitte bandiere della grande guerra. È un fatto (a parte che eravamo riusciti a perdere, in pratica, anche quella. Poi, il napoletano Armando Diaz prende la guida delle operazioni, al posto del sabaudo Luigi Cadorna, e dalla rotta di Caporetto arriviamo al trionfo di Vittorio Veneto. In realtà, l’Austria era già stata sconfitta sugli altri fronti, la guerra l’aveva ormai persa. Eravamo noi, come ottimamente spiega Del Boca, a far di tutto per evitare di vincerla).
Cosa l’Italia pensa degli italiani, per tormare alle classificazioni, lo dicono le statistiche dei morti in guerra. Un racconto terribile e affascinante del modo in cui erano trattati i nostri soldati, specie se meridionali, in un esercito specchio della società e ferocemente classista, è quello di Emilio Lussu, “Un anno suII’AItipiano”, da cui Francesco Rosi trarrà il memorabile film “Uomini Contro”.
La Sardegna fu acquisita dai Savoia nel 1720, con un trattato internazionale. E venne ridotta a colonia, spogliata di tutte le sue risorse, a vantaggio dei padroni di terraferma, tanto da essere chiamata “la fattoria del Piemonte”. Nel 1861, quando viene unificata l’Italia, l’isola, pur ricchissima di minerali e potenzialità economiche, non ha un metro di ferrovia, ha, in pratica, una sola strada, non un cantiere navale, pur essendo un’isola, ha la più bassa produzione agricola e la più alta percentuale di analfabeti. Ma i sardi sanno morire bene, perché hanno carattere. E si riconosce loro un onore unico: costituirsi in una struttura militare territoriale (ovvero composta da soldati che vengono tutti dalla stessa zona), la brigata Sassari, subito famosa per il suo valore. La vera ragione della sua efficienza militare era soprattutto nel fatto che si trovavano a combattere insieme parenti stretti, conoscenti dello stesso paese. Insomma: ognuno tutelava la vita di amici e familiari. Lussu fu un leggendario capitano della brigata.
Ma quando si sgombra il campo dei racconti di gloria, delle medaglie e degli eroi, e si va al dunque, al camposanto, la verità che viene fuori narra un’altra storia, o la fregatura di sempre: a morire più di tutti furono i sardi, poi i terroni dell’ex Regno delle Due Sicilie, poi i settentrionali (che avevano anche il maggior numero di esentati e, se tanto mi dà tanto, di imboscati. Del Boca fornisce dei dati. Da lui apprendo una cosa che non sapevo: la percentuale dei lucani morti in guerra supererebbe anche quella dei sardi). Come dire che il Sud, isole comprese, andava a prendere le pallottole, e gli altri, passando sui loro cadaveri, le medaglie.
E quando ci si ribellò, fu la decimazione. Il colonnello Attilio Thennes la ordinò contro la divisione Catanzaro; ma nessuna norma consentiva quella barbarie. Il comandante in capo, generale Cadona, emise la norma dopo che la decimazione era avvenuta e premiò Thennes con un encomio: il primo da lui dato. Finita la guerra, si cercò di sapere quanti italiani fossero stati ammazzati così, dai loro stessi commilitoni. Non fu possibile risalire agli elenchi. Una commissione parlamentare arrivò a stabilire che, calcolando anche, in modo approssimato, quelli fatti fucilare dagli ufficiali, per iniziativa personale, almeno un migliaio furono le vittime del mirato fuoco amico.
A chi stesse per dire: ma voi terroni vi lamentate sempre?
Risponderei: ci piacerebbe non ce ne deste le ragioni.
Leggete questo libro e ditemi se ho torto. Lorenzo Del Boca è un grande cronista che scrive di storia (l’Italia ha un debito con i Del Boca, fra Lorenzo e il suo parente Angelo, che ha svelato i crimini degli “italiani brava gente” in divisa, in Africa, e non solo); è di quella stirpe di giornalisti in estinzione (dico la stirpe, Lorenzo, non tu!) capaci di rendere affascinante e comprensibile qualsiasi argomento trattino. E lo fa con passione.
(prefazione di Pino Aprile al libro “Il sangue dei terroni” di Lorenzo del Boca)
Pasquale Peluso