IL PROTEZIONISMO BORBONICO
Sarebbe difficile fare il totale di tutte le espressioni denigratorie messe in circolazione in Italia e fuori, e a tutti i livelli della pubblica informazione, per svilire il ricordo dei Borbone di Napoli. “Il protezionismo borbonico” è una di queste, e viene solitamente impiegata per sottintendere che il repentino crollo del sistema industriale napoletano e, in genere, della manifattura meridionale, dopo l’unificazione statale piemontese, va addebitato alla precedente politica. Ora, non ci sono dubbi che le Due Sicilie adottassero una politica protezionistica, ma questa verità va a passeggio con un cumulo di bugie, falsificazioni e buffonate. E come se la denigrazione non bastasse, dobbiamo anche patire la spocchia con cui i toscopadani trattano i meridionali, il Meridione e la sua storia.
A proposito degli sbandierati “mali del passato governo”, più che di perfidia, si tratta di uno dei tanti alibi costruiti dalla retorica unitaria per nascondere le responsabilità dello stato nazionale nel disastro verificatosi al Sud dopo l’unificazione politica, come diretta e indiscutibile conseguenza della spoliazione e del malgoverno. Intanto non si vede perché il protezionismo, adottato allora da tutti gli stati europei, compresa la sedicente liberal Gran Bretagna, e adottato oggi da quasi tutti gli stati del mondo, dagli Stati Uniti d’America all’Unione Europea, dall’Australia al Canada, dalla Cina all’India, sarebbe teoricamente e praticamente una cosa vile rispetto al liberismo commerciale. In secondo luogo, il tanto declamato liberismo cavourriano fu, in effetti, un vincolo a cui il Regno di Sardegna volle assoggettarsi per ottenete l’amicizia della Gran Bretagna, paese esportatore di manufatti, e per potersi allegramente indebitare con i banchieri di Parigi e di Londra, i quali erano anche i venditori delle rotaie, dei vagoni, delle macchine ferroviarie e di quant’altro veniva acquistato dal Piemonte a spese dei futuri italiani, come era nei calcoli sia dei Rothschild sia dei patrioti liberali. In secondo luogo il liberismo introdotto da Cavour nel Regno sardo fu propriamente un bluff. Le industrie sabaude, a partire dall’Ansando, vennero sovvenzionate sottobanco dal sistema bancario.
Il liberale e liberista Francesco Ferrara, il maggiore economista italiano del tempo, definì detta pratica come “protezionismo dall’interno”. Alla faccia delle conclamate libertà cavourriane, la denunzia valse all’economista siciliano la defenestrazione dalla cattedra che teneva a Torino. In terzo luogo, al tempo dell’unità, il liberismo vigeva soltanto nello Stato sardo e in Toscana. Se la politica liberista, una volta estesa a tutta Italia, produsse danni soltanto nel Sud, fu perché le Due Sicilie erano l’unico paese che possedeva un apparato di industrie che vanno considerate grandi per quei tempi e per un paese economicamente marginale. La distruzione dell’industria duosiciliana fu un evento previsto e deliberato a Torino tra il settembre e il dicembre del 1860, a pochi giorni di distanza dall’occupazione garibaldina di Napoli e qualche mese prima della riunione del parlamento e della formale proclamazione dell’unità (febbraio 1861). Se si fosse voluto tenerla in piedi c’erano almeno due possibili opzioni. Prima: non estendere il sistema doganale piemontese al Sud. Seconda: accordare all’industria meridionale lo stesso “protezionismo dall’interno” in auge nel triangolo Torino-Genova-Firenze.
Lentamente i castelli di patriottiche bugie cadono e fanno spazio alla verità. E la verità dice che a conti fatti il liberismo di Cavour e dei suoi epigoni fu un autentico fallimento, in quanto distrusse l’economia meridionale e non rappresentò un quadro operativo proficuo per l’industrializzazione del Nord. Al contrario il protezionismo borbonico non era il necessario correlato del cosiddetto “dispotismo borbonico”, ma una scelta oculata in materia di politica economica e sociale. Tra il 1830 e il 1855, Ferdinando II fu considerato da tutti gli italiani del tempo non solo il re dello stato più grande, popoloso e, perché no, più prospero della Penisola, ma anche lo statista più intelligente, più coraggioso, più illuminato che ci fosse nel Paese. Nessun confronto con l’arcigno, ondivago, crudele, inaffidabile Carlo Alberto. Un pari e patta con Leopoldo di Toscana, ben visto per la sua mitezza e il suo buon rapporto con la società civile. Verso Ferdinando, la fiducia era tale che i massoni, riuniti a Modena a congresso, gli chiesero di mettersi alla testa del moto nazionale. La sua politica era così ben giudicata che nel parlamento subalpino una parte dei deputati, allarmati per gli enormi debiti che Cavour andava contraendo in Francia e in Inghilterra, lo portarono ad esempio di buon governo e di accorta guida politica.
Per dare un senso alla politica economica ferdinandea è utile contestualizzare le finalità rispettive del liberismo e del protezionismo con la situazione internazionale del periodo. Ciò relativamente agli assetti agricoli e agli assetti industriali. Al tempo, l’agricoltura italiana, o un’importante sua parte, godeva di una domanda favorevole da parte delle grandi potenze navali. Infatti la Padana esportava seta greggia in regime di quasi monopolio; altrettanto accadeva nel Regno duosiciliano per l’olio. Certamente il surplus non era identico, in quanto il valore dell’esportazione meridionale d’olio era solo un quarto del valore che le regioni padane incassavano dall’esportazione serica. Tuttavia il Regno aveva nell’olio una solida merce di scambio, della quale Ferdinando II si avvalse per avviare una politica navale, sia di lungo corso sia di cabotaggio; cosa che appena in un quindicennio emanciperà il paese duosiciliano dalla dipendenza verso la marineria livornese e genoana. L’esportazione di olio, come quella di grano, era ostacolata da un dazio governativo all’uscita, che si aggirava intorno al dieci per cento del valore.
Le restrizioni servivano a mantenere una situazione di bassi prezzi e di basso costo della vita. Ovviamente ciò danneggiava i produttori e favoriva la povera gente, i nullatenenti di cui il paese duosiciliano era pieno; una finalità completamente opposta a quella del dazio inglese sull’introduzione di grano, volto a favorire i proprietari, ma dannoso ai proletari e agli stessi capitalisti, tenuti a pagare salari più alti. Questa politica dei prezzi bassi, favorevole alle masse popolari, non solo a quelle che vivevano di un salario ma anche ai coloni e i mezzadri, che sborsavano un canone di affitto, viene in risalto se messa a confronto con la politica liberista adottata in Italia tra il 1860 e il 1887 dagli epigoni di Cavour.
Sotto l’egida del protezionismo doganale Ferdinando avvia le prime ferrovie in Italia, avvia il primo stabilimento meccanico, costruisce le prima nevi in ferro, le prime navi a propulsione meccanica, esporta vaporiere in Piemonte e altrove, fa in modo che la siderurgia, la meccanica, l’industria laniera e cotoniera abbiano un sviluppo senza paragoni in Italia, porta la flotta mercantile a livelli mondiali, favorisce l’arte, la musica, il pensiero umanistico, la medicina, le scienze naturali; tutte cose in cui Napoli e Palermo primeggiano. Le tre università meridionali hanno due volte gli iscritti dell’Italia restante (diecimila contro poco più di quattromila). Il dirigismo industriale è un costo per le Due Sicilie. Lo sa Ferdinando, come tutti. Ma non esisteva un percorso diverso. A questo riguardo è sempre il caso di ricordare che intorno al 1850 in Gran Bretagna vengono prodotti quattro milioni di tonnellate di ferro, mentre in tutt’Italia la produzione siderurgica non tocca le 300 mila tonnellate. Ora, dicendo ferro, si impiega un termine generico, una parola che non spiega molto, anche se poi basta un attimo di riflessione per definirne i sottintesi; che sono le armi, le macchine, le navi, i treni, le rotaie e, per quanto riguarda l’Italia del tempo, soprattutto l’utensileria per i lavori agricoli, per le forge e per la famiglia. L’Inghilterra non fa sconti a nessuno. E’ l’officina del mondo ed è pronta a colonizzare commercialmente qualunque paese, in primo luogo Napoli e la Sicilia, al centro del Mediterraneo. La cosa è ben chiara al governo napoletano, ma non sfugge agli altri governi. In Germania, l’economista Federich List, con articoli e saggi, già a partire dal 1820 mette in guardia non solo i suoi connazionali, ma tutti i cultori della materia e i politici circa la minaccia incombente, contro la quale, egli afferma, c’è una solo difesa, la protezione alle frontiere. Ora, è difficile capire perché le idee di List non suonino come offensive per chiunque si occupi di storia economica, mentre le aureolate teste dei nostrani storici considerano il protezionismo borbonico una delle cause della cosiddetta questione meridionale. Ludovico Bianchini, autore di una vasta storia dell’economia meridionale e il maggiore e il più lodato degli economisti duosiciliani del tempo di Ferdinando II, descrive, fra l’altro, le virtù e i difetti del regno. E’ favorevole a una moderazione dei dazi protettivi, e ricorda i danni che un eccesso di protezione arreca all’agricoltura; vede anche gli inconvenienti di un sistema creditizio accentrato su Napoli, e tuttavia la sua sobria prosa s’illumina di legittimo orgoglio di fronte ai grandi progressi nel campo industriale, cantieristico e marinaresco che si svolgono sotto i suoi occhi. L’industrializzazione dell’hinterland napoletano comportò l’assorbimento di manodopera e un alleggerimento della sovrappopolazione nelle campagne.
E’ un fatto attestato dal primo censimento italiano: le ex Due Sicilie hanno il 18 per cento degli occupati nel settore manifatturiero, contro il 14 per cento dell’Italia restante, e un’occupazione femminile al doppio che nel resto d’Italia. Per Ferdinando II, l’industrializzazione fu anche un modo per tentare di sfuggire contemporaneamente all’incudine dei residui feudali, che rendevano poco produttiva l’agricoltura, e al martello del nuovo capitalismo agrario, che avrebbe ulteriormente marginalizzato i diseredati. Confrontiamo la condizione delle ex Due Sicilie con quella dell’intero stato italiano nel periodo liberista (1860-1877). All’attivo ci sono la costruzione delle ferrovie (non ancora completata a Sud di Napoli), l’armamento dell’esercito e della flotta (ma le due vergognose sconfitte di Custoza e di Lissa), lo sviluppo edilizio a Firenze, Bologna, Milano e Roma, qualche bonifica tra Romagna e Piemonte; il tutto accompagnato però da una speculazione così sfacciata da svergognare l’Italia agli occhi del mondo civile. Per il resto niente industrie, una cantieristica boccheggiante, una disoccupazione crescente, un’emigrazione epocale, al limite dello spopolamento del paese, la miseria e la fame che prima non c’erano. Questo corso politico, a dir poco balordo, comportò l’aumento del debito pubblico da 1,5 miliardi a 15 miliardi, un aumento della circolazione fiduciaria (meglio dire sfiduciata, infatti si arriverà al fallimento nel 1890) che passa da circa 300 milioni (di cui 250 a Napoli) a 10 miliardi (Banca Nazionale sabauda), un aumento della pressione fiscale dalla media preunitaria del tre per cento a una media superiore al 15 per cento. Al Sud, le remunerazioni crollarono, i patti agrari diventarono enormemente pesanti per i contadini, la fiscalità padana infierì sui nullatenenti.
Si pagano imposte statali e dazi comunali sul pane, sul sale, sul vino, sull’olio, sulla carne. Si paga per pascere una capra e per allevare un maialetto. Si paga per un asino e per un mulo, per guidare un carretto. Si paga per vivere in una capannuccia di frasche. Alla data del 1914, la grande emigrazione transoceanica avrà alleggerito il Sud della metà dei maschi in età di lavoro. Non va meglio ai proprietari. Sul finire del secolo circa il 70 per cento delle terre e delle case sono pignorate dal fisco. Appena trenta anni dopo la trionfale vittoria liberista, gli stessi epigoni del liberismo cavourriano sono costretti ad adottare una forte politica protezionistica, al fine di avviare (anche loro, finalmente) una politica industrialista; la stessa che permise l’affermazione dell’Ansaldo, della Breda, della Fiat, dell’Edison, della Montecatini; come dire l’intero sistema industriale padano, giustamente indicato da alcuni meridionalisti come “l’industria parassitaria”. Questa inversione di rotta non solo non servi al Sud, della cui industria era stata fatta tabula rasa nei mesi successivi alla conquista, ma mandò a gambe levate anche l’agricoltura in forte ripresa. Era infatti accaduto che nel trentennio, sotto l’egida della libertà di commercio, le esportazioni meridionali crebbero vertiginosamente. Il Sud realizzò una vera e propria rivoluzione agraria. Le esportazioni d’olio aumentarono sensibilmente, ma un nuovo e imprevisto apportò arrivò dal vino e dagli agrumi. Le entrate internazionali derivanti dall’esportazione di seta greggia e quelle derivanti dall’esportazione di prodotti meridionali pareggiarono. Se mettiamo anche lo zolfo in conto, le superarono nettamente. “Le esportazioni meridionali salvarono l’Italia”, si disse. Tuttavia il Sud non ricavò niente per sé. La verità va detta e ridetta! Il protezionismo industriale borbonico fu una politica di grande respiro e fortemente anticipatrice. Passeranno trenta anni prima che gli USA, la Germania, il Giappone si mettano su quella strada.
L’Italia dovrà aspettare del tutto il mussoliniano IRI. Il quale IRI, poi, potrà svolgere pienamente la sua funzione propulsiva soltanto dopo la guerra, allorché dette l’abbrivio al miracolo economico italiano. Il fatto che i governi italiani abbiano consapevolmente guidato il Sud verso l’improduzione e la disoccupazione strutturale costituisce sicuramente responsabilità storica e politica che appartiene ad essi. Ed è propriamente una grande buffonata il cercare di cambiare le carte in tavola, per menomare la memoria di un grande re e di un grande statista, di un italiano che il Sud, se avesse consapevolezza del suo passato, rimpiangerebbe con grande amarezza.
NICOLA ZITARA