Il processo che portò all’unità d’Italia

Il processo che portò all’unità d’Italia, oramai è ben noto, grazie ai tantissimi ricercatori storici “senza patente” (eh, sì, qualcuno li vorrebbe patentati, ma non si sa come fare!), che con pazienza, metodo, perseveranza, utilizzo di risorse personali (mica pagano le università?!), spulciano gli archivi dell’intero stivale, e qualcuno anche all’estero, per tirare fuori notizie utili a comprendere meglio quel processo e ciò che ne è conseguito. Un arco temporale che è lungo ben oltre i 157 anni della cosiddetta unità. È noto, quindi, che non fu un processo naturale, è noto che non fu guerra di liberazione (ancora non si sa da chi dovevano liberarci); è noto che fu una forzatura ottenuta con una aggressione in piena regola ad uno Stato sovrano, visto che non ci fu nemmeno una formale dichiarazione di guerra. È noto che la gente non ci voleva stare, si ribellò, e quella ribellione fu chiamata brigantaggio. Un fenomeno multicolore, difficile da ingabbiare in una definizione univoca, viste le varie sfaccettature che esso prese e che non stiamo qui a dettagliare (esistono fior di saggi, scritti da eccellenti studiosi del fenomeno, se si ha voglia di approfondire la questione). Una ribellione che iniziò subito prima dell’unità e termino dopo ben oltre dieci anni di vera e propria guerra, che vide più di centoventimila uomini impegnati nella caccia ai “briganti”, migliaia di vittime innocenti, centinaia di città completamente distrutte dalle fiamme (emblematico è il caso di Pontelandolfo e Casalduni, oggi in provincia di Benevento). Si sa, tutto questo oramai si sa. Certo, la ricerca continua, spulciando i più piccoli dettagli, ma oramai tutti sanno, grosso modo, come andarono davvero le cose. Il mito dei demiurghi padri della patria, è basso nel cielo che si tinge di rosso e presto tramonterà definitivamente, come è giusto che sia.
Tutto sarebbe da relegare negli annali della storia, come una delle tante brutte pagine che l’uomo ha scritto sulla pelle dei suoi simili, se non fosse per un dettaglio tutt’altro che insignificante: la parola “colonia”! Eh già, perché il processo unitario, a ben vedere, non si limitò alla conquista manu militari, ma impose alle terre meridionali e a chi vi abitava, lo status di colonia; di fatto, ovviamente, mentre la retorica risorgimentale bombardava le menti col mito di una “Nazione unita”, di “un solo popolo in un solo Stato”, del “siamo tutti fratelli, tutti uguali”; anche se c’è chi è più uguale di altri. Nasce la Questione Meridionale, con l’inculcamento del senso di minorità: “siete italiani se vi comportate come vogliamo noi, altrimenti siete solo terroni”; dei meridionali senza nulla, “perché il triangolo industriale sta al nord” (dopo aver chiuso, distrutto, o fatto fallire, le numerose industrie del sud); del “siete ignoranti, sporchi e cattivi e dovete farvene una ragione”…e ci convinsero, e ci hanno convinto per anni, e continuano a volerci convincere, nonostante il conoscere la verità ci stia facendo alzare la testa. C’è chi ancora ci casca, c’è chi non vuole più starci, c’è chi lotta per il riscatto, c’è chi se né frega e c’è chi, invece, ha capito che una delle strade migliori da percorrere, è quella della “decolonizzazione”, ma che deve partire dalla mente.
Sì, non è storia vecchia, non è roba polverosa da vecchie carte, è storia che ci appartiene non solo come memoria, ma soprattutto come drammatica attualità.
E pensare che c’è chi ancora si definisce fieramente terrone!

Bbona iurnata, guagliù!
(Traduzione per gli esterofili: Have a nice day, people).
Domenico Offi