Il referendum, le accuse di irregolarità e il peccato originale del Plebiscito del 1860
Martedì 29 Novembre 2016
di Gigi Di Fiore
Manca poco, ormai, alla data del referendum che divide il Paese. In campagna elettorale, sono fioccate le accuse di irregolarità sul quesito, sulle lettere inviato dal premier Renzi agli italiani all’estero, sulla gestione degli incontri di propaganda al voto. Deja vu. L’Italia non smentisce mai se stessa. Ad ogni appuntamento con le urne, i sospetti non mancano mai.
Tutto però ha un’origine. Ed è un’origine piena di sostanza nei brogli, nelle irregolarità, nelle falsificazioni. Quella sostanza compie 156 anni e si chiama Plebiscito per l’unità del Mezzogiorno al resto d’Italia. Era il 21 ottobre del 1860, si doveva sancire nella forma e nella legittimità giuridica l’aggressione armata delle camicie rosse garibaldine prima e dell’esercito irregolare piemontese poi alle Due Sicilie.
Una farsa, che diede poi il nome alla piazza più grande di Napoli, che all’epoca si chiamava Largo di Palazzo. Fu nell’attuale piazza del Plebiscito, a ridosso della chiesa di San Francesco, che si piazzarono le urne principali in legno che, sul lato anteriore, portavano ben chiaro e in evidenza un sì e un no. Roba da inorridire, oggi. L’elettore, guardato a vista da garibaldini e camorristi armati, doveva inserire la sua scheda in un’urna che rendeva riconoscibile la sua volontà.
In molte zone dell’Italia meridionale, risultò un numero di votanti maggiore degli abitanti. Votarono i garibaldini delle legioni straniere, come inglesi e ungheresi. Non esisteva un elenco degli elettori, bastava presentarsi e inserire la scheda nell’urna. Tanti si presentavano più di una volta, senza che nessuno fiatasse. L’alibi era che si trattava di un Plebiscito aperto a tutti, senza restrizioni. Letterati come analfabeti. Poveri come ricchi. Peccato che poi, nel gennaio successivo, quando si doveva fare sul serio per eleggere i deputati al primo Parlamento italiano, si applicò la legge piemontese, che dava diritto al voto a poco più di 400.000 persone in un Paese di 21 milioni di abitanti.
Era la celebrata monarchia costituzionale dell’epoca. Sei giorni prima del Plebiscito, Garibaldi aveva già firmato il decreto numero 275 che dichiarava le Due Sicilie “parte integrante dell’Italia”. L’ambasciatore inglese Henry Elliot disse che “appena 19 tra 100 votanti sono rappresentati dalle votazioni in Sicilia e Napoli, ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate”. E il ministro degli Esteri britannico, lord John Russel, fu ancora più severo: “Questi voti sono una mera formalità dopo una ben riuscita invasione. Non implicano l’esercizio indipendente della volontà della nazione”.
Dominò la paura in chi si presentò al voto. Molti furono costretti ad andarci per fare numero. Le bastonate dei camorristi convincevano gli illusi sulla libertà del voto. Alla fine, nelle province napoletane i numeri ufficiali diedero 1.302.064 sì, con soli 10.302 no. Cose turche, potrebbe dirsi oggi. In Sicilia, dove anche la maffia con i gabbellieri dei baroni latifondisti fece la sua parte, andò ancora peggio: 432.053 sì e solo 709 no. Così, giuridicamente l’Italia fu dichiarata unita per volontà popolare, dando patente di legalità ad un’invasione armata di uno Stato straniero in buoni rapporti diplomatici con quello invaso e senza alcuna dichiarazione di guerra.
Alla fine, su quel “peccato originale” appaiono, meglio di altre, illuminanti le parole e la descrizione di Tomasi di Lampedusa nel suo splendido romanzo, quando racconta il Plebiscito a Donnafugata. I no erano risultati zero, eppure Ciccio Tumeo, fattore del Gattopardo, contrario all’annessione, mostra la sua rabbia proprio a don Fabrizio: “No, cento volte no. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l’inutilità, l’unità, l’opportunità. Avrete ragione voi ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro”. Così l’Italia unita ebbe la sua consacrazione giuridica.