“CARO DON GAETANO… SPIGOLANDO TRA LE CARTE DI GAETANO SALVEMINI”, IL NUOVO TESTO DI VALENTINO ROMANO*
di Michele Eugenio Di Carlo*
Il nuovo volume “Caro Don Gaetano… Spigolando tra le carte di Gaetano Salvemini” del saggista e divulgatore storico pugliese Valentino Romano, pubblicato a maggio dalla coratina SECOP edizioni di Peppino Piacente, nella collana “Storia e/è Memoria” diretta dal presidente del Centro Ricerche di Bitonto Marino Pagano, è un testo che non può mancare nella biblioteca degli studiosi della Storia del Regno d’Italia, perché, come scrive l’autore nell’introduzione, «Dietro ogni libro c’è una storia, normalmente ignorata; una storia che, se al contrario conosciuta, studiata, condivisa, e persino amata, è capace di restituirci “l’uomo” che ne è autore e di trasformare il suo libro, da strumento di lavoro o di diletto, comunque da oggetto inanimato, in entità viva e pulsante […] utile a rafforzare quell’indescrivibile simbiosi di emozioni che viene a crearsi tra autore e lettore […] ».
Aggiungerei, preoccupato della piega negativa che stanno prendendo gli studi storici, che non vi sarebbe miglior metodo per avvicinare gli studenti liceali e universitari alle vicende del nostro passato, così importanti per saper progettare, e persino solo delineare, un futuro migliore.
Ed ecco che Valentino Romano, da sapiente ricercatore qual è, riporta alla luce le lettere che in particolare Villari e Salvemini si scambiarono intensamente nell’arco di tempo che va dal 1898 al 1906, in riferimento alla travagliata pubblicazione di uno dei più importanti testi dello storico di Molfetta, La rivoluzione francese .
Tra il professore Pasquale Villari e il suo allievo Gaetano Salvemini, ˗ il molfettese si era laureato in Lettere a Firenze nel 1896 dove l’intellettuale napoletano insegnava storia ˗ , emerge chiaro un rapporto di affetto, di stima e di amicizia, ma anche l’enorme pazienza di Villari nel tentare vanamente di gestire il confronto travagliato tra il tirato editore Ulrico Hoepli e il passionale e impulsivo Salvemini, ai fini di inserire La rivoluzione francese nella Collana “Collezione storica” che dirigeva per le edizioni Hoepli.
Un rapporto, quello tra professore e allievo, che sembrerebbe rispecchiare i canoni consueti, se non si tenesse conto che Villari era diventato nel 1875, quando aveva scritto per il giornale di Torino l’«Opinione» le note «Lettere meridionali» , il capostipite del meridionalismo moderato liberale, ovvero di quel modo di trattare le problematiche del Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia mai in maniera frontale e alternativa ai governi responsabili delle politiche della seconda metà dell’Ottocento. Mentre Salvemini era l’intellettuale che aveva dato vita a una critica radicale al meridionalismo moderato, i cui esponenti facevano capo alla rivista fiorentina “Rassegna settimanale”, fondata nel 1878 dai giovani toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Rivista che aveva accolto tra le sue fila intellettuali di spessore quali Villari e Fortunato.
Se Villari, peraltro deputato alla Camera negli anni Settanta, senatore e poi ministro della Pubblica Istruzione nel biennio 1991-92, può essere ricondotto a un conservatorismo volto alle riforme in campo sociale, confinato nell’ambito istituzionale e ideologico del liberalismo sabaudo e, pertanto, carente di quel respiro politico ampio necessario a cambiare le sorti del Mezzogiorno, Salvemini, politico socialista, ritiene fallimentari i tentativi di quegli uomini che, come Villari, avevano ingenuamente confidato nel riformismo dello Stato e nelle aperture sociali della potente classe della borghesia agraria. Per Salvemini, noti i problemi del Mezzogiorno, gli studiosi non si erano posti il problema della loro risoluzione, visto che «questa domanda o non se la mettono mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! […] E lo Stato fa il sordo. E poi studiosi continuano nelle loro concioni e eloquentissime. Lo Stato italiano non farà mai nulla, come non ha fatto finora mai nulla».
Non che Villari non avesse tentato di dissuadere l’allievo dall’impegno civile e politico a favore degli studi storici e della carriera accademica, ˗ Valentino Romano lo rileva chiaramente in una lettera datata 12 ottobre 1904 ˗, cogliendo l’occasione dell’ennesimo ritardo di Salvemini nella consegna delle bozze de La rivoluzione francese: «Il dolore che Ella ha arrecato a tutti noi, non potrei descriverglielo a parole. Più di tutto ne ho sofferto io, che prevedevo per lei un felice avvenire negli studi storici. Ma ora? Nessuno lo sa, nemmeno lei. Non dica che Ella è deciso a non abbandonare gli studi» . La risposta alla critica di Villari non tardava ad arrivare, priva della consueta irruenza, ma ˗ come rimarca Romano ˗ temperata dal «rispetto, l’affetto e la riconoscenza che nutriva nei confronti del Maestro» : «Le sono molto grato, caro Maestro, delle parole sebbene sieno di rimprovero, […] Sono convinto che è mio dovere dedicare una parte della mia attività a promuovere nelle vie che a me sembrano in coscienza migliori il progresso del mio paese, […] Quanto al timore che Ella ha di vedermi abbandonare la scienza per la politica, io ho la certezza che esso sarà sempre smentito dai fatti». Non chiudeva la lettera senza rinnovare i suoi sentimenti di stima con queste parole: «Ella troverà sempre il discepolo, memore dei grandi benefizi ricevuti, dolente che avere addolorato il maestro buono e benefico».
Ancora più straordinario si rivela il rapporto di amicizia tra Fortunato e Salvemini dalla corrispondenza che i due intrattengono tra il 1911 e il 1912, in relazione all’autobiografia del brigante rionerese Michele Di Gé . Naturalmente considerando che già nel 1898, a soli venticinque anni, Salvemini aveva pubblicato il saggio “La questione meridionale”, in cui aveva valutato il sottosviluppo del Mezzogiorno come conseguenza diretta delle politiche adottate dai governi nei primi quarant’anni del Regno d’Italia, che avevano deliberatamente scelto di conservare nel Mezzogiorno una struttura economica semifeudale al servizio del ceto agrario dominante, utilizzando la violenza per reprimere i frequenti moti popolari. Da qui la polemica salveminiana contro i governi liberali, la critica ai meridionalisti moderati, il proposito di Salvemini, ancora socialista, di costituire una forza politica e un blocco sociale a tutela del Mezzogiorno, consapevole che i suoi rappresentanti in Parlamento venivano accuratamente selezionati per tutelare gli interessi degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud.
Una visione opposta a quella di Giustino Fortunato e di Benedetto Croce, considerati da Antonio Gramsci i maggiori esponenti di un «blocco intellettuale» a protezione degli interessi del «blocco agrario», ritenendoli «i reazionari più operosi della penisola» che avevano consentito che «la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria» .
Tra l’altro, quando le lucide analisi di Francesco Saverio Nitti nel 1900 in Nord e Sud avevano indicato chiaramente la responsabilità delle politiche attuate dai governi succedutisi dall’unità in poi, Fortunato, pur apprezzando complessivamente il lavoro di Nitti, alla domanda se ritenesse l’opera del giovane Nitti interamente positiva aveva risposto: «No, perché egli volle provar troppo, credendo, se più avvedutamente, non meno erroneamente de’ non pochi, i quali sostennero la stessa tesi, che il Mezzogiorno si fosse ritrovato, al ’60, in condizioni relativamente migliori di quelle del resto d’Italia». Fortunato non accettava si confrontasse il passato con il fine di giudicare in termini negativi il presente, pur ammettendo che non tutto era andato per il verso giusto, aggiungeva fermamente: «nulla, per Iddio, vi abbiamo perduto! » In definitiva, per Fortunato, al contrario di Salvemini, il Mezzogiorno non era diventato «più povero di quello che fosse al ‘60» .
Un atteggiamento che non aveva lasciato indifferente Nitti che nel 1903 scriveva: «Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia». Il melfese riteneva, invece, che le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi e che occorreva, al contrario, temere «la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra».
E che l’amicizia tra Salvemini e Fortunato, nonostante la netta divergenza a livello politico e ideologico, fosse inossidabile, lo rivela ancora Valentino Romano. Nonostante Salvemini, il 2 luglio alla Camera dei deputati, prendendo la parola, avesse inteso rivelare le confidenze di Fortunato al fine di mettere in cattiva luce il presidente del Consiglio Antonio Giolitti e il ministro dell’Istruzione Benedetto Croce, gettando nella prostrazione più totale l’ormai settantaduenne Fortunato, il rapporto tra i due si sarebbe conservato come lo stesso rinfrancato intellettuale di Rionero scrive in una lettera all’allievo e conterraneo Raffaele Ciasca: «Caro Raffaele, nelle ore pomeridiane di ieri fu qui, d’improvviso, a farmi visita… indovina? Salvemini. E fu qui, un due ore, come nulla fosse stato! È vietato a’ vecchi serbare rancori» .
Articolo pubblicato sul Quotidiano l’Attacco il 29 luglio 2022, p. 26.
* promotore rete meridionalista Carta di Venosa