Il cranio di Villella nelle “mani” della Corte d’Appello
di Romano Pitaro*
Sabato, 10 Settembre 2016 16:10 Pubblicato in Cultura e spettacoli
E ci risiamo! Peppino Villella è pronto a scendere a Catanzaro per incassare (lui ci spera!) dalla Corte d’appello la sentenza che consenta al suo cranio di riposare sotto un metro di terra. E lo si sente bofonchiare: «Undi puazzu cchiù! Pi quattru patati c’arrubbai e nu cazzo i mulino ca vrusciai, m’incarceraru, mi taghiarunu a testa e mi deziru nu seculu e mienzu e carciri nta stu cimiteru da scienza ca un sacciu mancu chi è…». Tuttavia, il 20 settembre, pur non volendo mancare all’udienza che (in un sol colpo) potrebbe chiudere la sua odissea, annichilire le motivazioni “scientifiche” del Museo e dell’Università di Torino che non mollano l’osso e incenerire le scempiaggini di Lombroso, il poveruomo ha deciso di portarsi solo un ricambio. Il resto, il berretto stinto, due camicie di lana e una giacchetta di fustagno negli gli anni “stritta ca pari nu cuaziettu”, lo ritirerà a vicenda finita. Quando lo manderanno libero di rotolarsi nella terra con la benedizione di un prete e (a questo ci tiene) il pubblico riconoscimento, da parte dei suoi paesani, d’essere stato il simbolo di un pregiudizio antimeridionale. Se invece la sorte non gli arriderà e i giudici scegliessero di lasciarlo, morte natural durante, nell’orrida teca del museo di Torino, dove sono imprigionati altri novecento crani d’umanità derelitta, pazienza. E lui, la pazienza sa bene cos’è. Lui e i suoi compagni di sventura, che in questi giorni fanno gli scongiuri affinché l’udienza faccia giustizia, perché, come dire?, se Villella avrà diritto ad una dignitosa sepoltura, lo stesso diritto potranno vantarlo le prostitute e i briganti (veri o inventati) e le altre centinanaia di crani sequestrati nel Museo di Torino in omaggio a una tesi che a sentirla mette i brividi.
Il punto di diritto: martedì 20 settembre, la Corte d’Appello di Catanzaro deciderà il da farsi del teschio della discordia conteso dall’Università di Torino e il Museo “Cesare Lombroso” e dal Comitato “No Lombroso” e il Comune di Motta Santa Lucia. Per non scontentare nessuno, non sorprenderebbe un epilogo salomonico: metà cranio al Museo e metà al cimitero. L’unico a dolersene potrebbe essere Villella, ma il poveraccio ai calci nel sedere c’è abituato. Pensate: Lombroso asserì d’aver rintracciato la prova della “sua” teoria del delinquente “per nascita” proprio nel cranio del delinquente (e delinquente perché brigante) calabrese. Ma lui, Villella, come attestano i documenti storici – fate attenzione! – non era neppure un brigante.
Giuseppe Villella era un morto di fame arrestato per due furtarelli. Una manipolazione di dati e informazioni: ecco com’è andata. Un imbroglio, come dire?, scientifico. Impotente la cultura d’ogni risma nell’assegnare, in questa vicenda, a Lombroso il torto che gli spetta e a Villella un po’ di pietas, tocca ai giudici ristabilire l’ordine delle cose naturali. Secondo cui un corpo, o quel che di esso rimane, va seppellito. O il rettore dell’Università di Torino e le Istituzioni che finanziano il “Museo degli orrori” con danaro pubblico sono d’altra opinione? Dovranno, i giudici, in sede di Corte di Appello a Catanzaro, decidere se Giuseppe Villella merita d’essere ancora rinchiuso o se potrà finalmente andare libero: 146 anni di carcere, per qualche furtarello e l’incendio di un mulino, in fondo possono bastare. Peppino, un calabrese che non è mai stato un “brigante”, è stato rinchiuso, da vivo, il 1864 nel carcere di Vigevano, e poi per sempre. Gli è stato affibiato l’ergastolo ostativo (quello della fine pena mai) per la vita e per la morte. Il medico veronese scoperchiava i crani di briganti, prostitute e omosessuali, per cercare la “fossetta occipitale mediana” a supporto della sua stravaganza (così definita dalla comunità scientifica mondiale) sul delinquente atavico. Infine, il 4 gennaio del 1871, Cesare Lombroso asserì d’averla trovata nella testa di Villella. Evviva! Perciò, Villella deve rimanere nel Museo Lombroso di Torino e non può essere seppellito nel suo paese d’origine, Motta Santa Lucia. Teorizzano i “colti” carcerieri che quel cranio non va tumulato perché ha un enorme valore culturale e perché ai visitatori, attraverso quelle ossa, si possono spiegare le tesi lombrosiane e tutti gli sfracelli dell’antropologia criminale positivista. Come dire che anche il cranio di Enzo Tortora andrebbe esposto in un Museo della “malagiustizia” a dimostrazione degli orrori cui conduce l’aberrazione del diritto. Un’assurdità! Si riconoscono gli errori dello Stato appena nato nei confronti dei meridionali trasformati in italiani con le baionette, ma non si fa alcun passo indietro sul “caso” Villella, simbolo di un’ingiustizia clamorosa. Al punto che, per riscattare il cranio di un uomo senz’arte né parte, colpevole d’essere nato in un’epoca in cui l’esordiente Italia gettava in carcere (o fucilava) briganti e morti di fame del Sud (legge Pica), si è dovuto ricorrere al Tribunale. Che il 5 ottobre del 2012 ha dato ragione a Villella. Emettendo una sentenza (Tribunale di Lamezia Terme) che, ritenendo fondate le ragioni degli avvocati della difesa, ha ingiunto al Museo “Cesare Lombroso” e all’Università di Torino (condannati anche alle spese di trasporto e tumulazione) di restituire il cranio di Villella al suo paese perché fosse seppellito. Da un’istituzione universitaria ci si sarebbe atteso un atto di contrizione. Invece no. Resistono nel tenersi Villella. E per farlo non disdegnano di cadere nel ridicolo, sostenendo che gli amici di Peppino sono avversari della scienza. L’ordinanza del Tribunale di Lamezia è stata sospesa su richiesta dell’Università di Torino dalla Corte di Appello di Catanzaro che ha fissato la discussione una prima volta il 2 dicembre 2014 e, successivamente, ad aprile 2016, quando si è proceduto ad acquisire le “carte” mancanti, quindi al 20 settembre. Cosa ci si aspetta, ora, dai giudici della Corte di Appello di Catanzaro? Che assicurino, dopo tanto tempo, a quel «tristissimo uomo – così lo descrive Lombroso – d’anni 69, contadino, ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, che cammina a sghembo e aveva torcicollo non so bene se a destra o a sinistra», morto di tisi, scorbuto e tifo nel carcere di Vigevano e che risponde al nome di Peppino Villella, un metro di terra. La “sapienza” indurita di Torino potrà, visto che a Villella ci tiene tanto, accontentarsi di un calco in gesso del prezioso cranio e seguitare a enfatizzare, se c’è ancora chi gli dà retta, le megagalattiche sciocchezze lombrosiane. E il suo imbroglio “scientifico”.
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