I turchi ad Otranto

I TURCHI AD OTRANTO
di Angelo d’Ambra

Il sistema difensivo di Otranto, così come ci appare oggi, con la mole possente del castello, la cinta bastionata delimitante il borgo antico e l’ampio fossato con antemurale che ne protegge il versante meridionale, è il risultato dei lavori rinascimentali. Doveva essere molto diverso nel 1480, quando i turchi saccheggiarono la città…

I turchi ad Otranto

Il sistema difensivo di Otranto, così come ci appare oggi, con la mole possente del castello, la cinta bastionata delimitante il borgo antico e l’ampio fossato con antemurale che ne protegge il versante meridionale, è il risultato dei lavori rinascimentali. Doveva essere molto diverso nel 1480, quando i turchi saccheggiarono la città.

Il castello e le fortificazioni ad esso connesse, difendevano Otranto dal mare da epoche lontane. Si è trovata una bolla di Alessandro IV del 5 settembre 1256 che raccomandava agli otrantini di curare le difese cittadine come ai tempi di Guglielmo I e Federico II, ciò a riprova di quanti attacchi la città avesse già conosciuto dal mare, tuttavia le sue difese cadevano spesso in uno stato di trascuratezza. Proprio nel 1480, mentre Ferdinando d’Aragona, unito in lega con Roma contro Firenze e Venezia, gli otrantini poco poteron fare quando Maometto II portò le sue armate sulla costa pugliese.

Il castello e la cinta muraria, infatti, “erano entrambi di fattura medievale di scarsissimo valore difensivo nei confronti di una anche modesta artiglieria d’assedio: quantoa quella difensiva, se pure vi era, doveva risultare del tutto insignificante” (F. Russo, La difesa costiera nel Regno di Napoli dal XVI al XIX sec). Fu solo il loro eroismo a rimandare l’orrore di quindici giorni.

Il turco allestì una podrosa flotta di 90 galee, 15 maone e 40 golette con 18.000 uomini posti sotto i comandi di Agomat Keduti Pasha, affiancato dall’agà dei gianizzeri, dal balì di Negroponte e dal berjebei della Tracia. Erano salpati da Valona e l’aragonese, appena lo seppe, fece condurre mille soldati e quattrocento fanti ad Otranto, affidandoli al comando di Francesco Zurlo e Giovanni Antonio Falconi.

Alle prime ore del 28 luglio le navi ottomane apparvero avanti al porto e, trovato un punto della costa indifeso e adatto allo sbarco, fecero scendere uomini, cavalli, cannoni e munizioni. La città fu cinta d’assedio e subito fu intimata la resa. Un’assemblea popolare riunita nella cattedrale, con a capo di deputati Angelantonio Sanpietro, Gabriele Gaetano, Domenico Coluccia, Alessandro Carbotto, Lanzillotto Fagà e altri notabili, deliberò di non cedere. Un novantenne del posto, Ladislao De Marco, prese le chiavi della città, si recò sulla riva del mare seguito da un gran numero di concittadini e le mostrò provocatoriamente al nemico, per poi gettarle tra le onde.

Agomat davanti a tale risposta ordinò di aprire il fuoco della artiglierie. Otranto rispose con quello dei suoi piccoli falconetti. La popolazione della cittadina, che probabilmente ascendeva a seimila abitanti, si batté con disperazione. Mentre tutti gli uomini erano sulle mura nel tentativo di respingere i turchi, vecchi, donne, bambini e malati, protetti dall’arcivescovo Stefano Pendinelli, si riunirono nella cattedrale. Due due giorni dall’inizio del bombardamento turco, trecento otrantini erano già morti e fra questi Angelo Maiorano, comandante di cinquanta celate di fanti, il greco Michele Leondari, Marcantonio De Marco, Pietro di Sanpietro e Giovan Tommaso Gaetano. Questa è una conferma indiretta del coraggio degli abitanti di Otranto perchè, per quello che era lo stato delle sue difese, la città aveva già resistito a lungo.

C’era stato un momento in cui Otranto meritò l’appellativo di città centenaria perchè le sue mura erano congiunte da cento torri. Lo scrive il Galateo, ma quanto ciò sia vero non si può dire.

Dopo quindici giorni di assedio, gli ottomani concentrarono il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura ed aprirono una breccia. Era l’11 agosto. I turchi irruppero nelle strade della città, fecero una carneficina dei suoi difensori e si precipitarono alla cattedrale dove si stava celebrando la messa. Abbatertono la porta e circondano l’arcivescovo Stefano, che li affrontò con il crocifisso in mano. Il religioso esortò gli assalitori alla conversione, ma gli fu tagliata la testa con un colpo di scimitarra levato da un musulmano di nome Melel. Narra Giovanni Michele Laggetti nella sua Istoria della guerra di Otranto che i turchi non ebbero pietà per nessuno, anche i bambini furono trafitti mortalmente. I canonici che tentarono di proteggerlo furono tutti trucidati e, con essi, anche alcuni frati basiliani che nel massacro stavano somministrando i sacramenti.

Agomat si insediò nel palazzo di Ladislao de Marco. Tre giorni dopo ordinò che tutti i prigionieri fossero condotti sul colle della Minerva, eccetto donne e bambini. Lì, in 800 furono decapitati. Il primo che affrontò il martirio fu un cavaliere di nome Antonio Pezzulla.

E’ molto interessante notare che nei mesi che seguirono, i turchi passarono immediatamente a consolidare le fortificazioni. Vi apportarono anche sostanziali innovazioni. Una lettera del 25 settembre 1480, scritta da Costanzo Sforza, si può infatti leggere: “Prima li Turchi hano talgiato dui miglia atorno, giardini de pomaranza, olivi, e spianato ogni cosa; hanno facto de quelle fasche uno reparo cum terra grosso assai cum uno gran fosso di fora la terra, tanto che hanno messo l’acqua dolce dentro lo reparo, nel quale ha facto bombarde et un passo longo una da l’altra, et hanno glie messo circha boche de bombarde et spingarde numero mille secento et più, quelle erano a la via di terra ferma due palmi supra la terra. De drento hanno fichati palli circha a dui millia grossi et hanno incatenati cum catene de ferro grosse assai, a ciocché, essendo sforzati li repari, li cavalli non possino intrare se non per una via, la quale hanno molto fortificata, et hanno tirate certe fuse in terra, la quale sono difese dal riparo da fora; hanno afondato certi legni, a ciò ché l’armata non li possa offendere; grandissima quantità di polvere, sartame, et monitione assaissime, et persone circa XV millia Turchi da facti, et di fora, a migla V hanno guastate tute l’aque, acioché el campo del Re venendo non vi possa stare comodamente”. Questo documento è particolarmente interessante sia perchè conferma lo stato pietoso delle fortificazioni cittadine, peggiorato sicuramente col bombardamento, sia perchè ci mostra come, almeno inizialmente, i turchi non avevano alcuna intenzione di lasciare Otranto. Tutti questi accorgimenti reserò oltretutto difficile l’intervento dei soccorritori.

Ferdinando improvvisò un esercito di soccorso, lo affidò a suo figlio Alfonso, duca di Calabria, che era in Toscana e quando, ad ottobre, riuscì a raggiungere Otranto con uno stuolo di condottieri e letterati, fra i quali Roberto Caracciolo, il Pontano, il Sannazzaro e Antonio De Ferraris da Galatone, non poté far nulla. Cinse d’assedio la città tenuta saldamente dal nemico, poi se ne andò a Napoli per raccogliere rinforzi. Tornò ad Otranto ma non riuscì mai a sbaloccare la situazione. Una flotta cristiana di ottanta glee, ventiquattro maone genovesi, ventidue navi spagole e diciannove caravelle portoghesi, si armò in suo aiuto. Solo allora Agomat Pasha, incaricò il Balì di Negroponte di contrarre la resa, e lasciò la città, salpando per Istanbul. Il protrarsi della riconquista aveva involontariamente giocato a vantaggio dei napoletani perchè il turco – pure destabilizzato dalla morte di Maometto II il 3 maggio di quell’anno – si era ritrovato con enormi difficoltà di approvigionamento, dovute al blocco navale.

All’esercito turco fu consentita l’uscita dalla città, ma alla rinuncia delle artiglierie. Si convenne pure che il contingente musulmano fosse trasportato a Valona su navi cristiane. Così avvenne e i turchi, in ordine di battaglia, uscirono da Otranto. Alfonso si vide consegnare le chiavi in un bacino d’argento. Il nemico fu imbarcato su quattro galeoni e trasportato in Albania. Era l’8 settembre 1841.

Alfonso entrò nelle mura cittadine e, come primo provvedimento, dispose l’immediato avviò dei restauri a mura e castelli. Il principe fece erigere nuove torri e su una disse, detta Alfonsina, venne posta l’iscrizione: “Ferdinandus Rex Divi Alfonsi Filius / Divi Ferdinandi Nepos Aragonius / Portas Muros Ac Turres / Post Receptum a Turcis Oppidum / Suo Reg. Stipenio / E fundamentis Faciendum Curavit”. Era però decisamente tardiva la scelta di migliorare le fortificazioni otrantine.

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: G. Gianfreda, Otranto. Castello e Fortificazioni

HistoriaRegni