IL SUD DOPO IL 1860: LA CAMORRA E L’AVANZATA DI GARIBALDI (parte seconda)
Come abbiamo visto nel post 10, Liborio Romano afferma che intendeva offrire ai camorristi “un mezzo per riabilitarsi”, ma le sue azioni non erano certo dettate da spirito umanitario. È quando scrive le ‘Memorie’ che cerca di rendere più nobili le sue motivazioni. In questo modo spera di fare fronte alle pesantissime critiche ricevute e allo stesso tempo spera di difendersi dalle accuse di tradimento, che gli erano piovute addosso da parte di tutti i Napoletani. La sua difesa, però, sconfina letteralmente nel ridicolo e per molti versi fu peggiore delle accuse stesse. Riabilitare i camorristi non era un suo compito, perché lui, in qualità di ministro di Francesco II, avrebbe dovuto fare ben altro e cioè provare a fermare Garibaldi. Invece andò incontro al generale, lo accolse a braccia aperte e addirittura si preoccupò di proteggerlo da eventuali attentati.
Liborio Romano dice ancora di aver agito di impulso, istintivamente, perché aveva a cuore di salvare l’ordine e quello gli sembrò il mezzo per non far sprofondare la città nella violenza, ma i fatti lo smentiscono. L’alleanza tra i liberali e la malavita napoletana esisteva da tempo e il suo atto non fu che la logica conclusione di questa intesa. Al proposito il letterato italo-svizzero Marc Monnier, che viveva a Napoli ed era un convinto antiborbonico, ne ‘La camorra: notizie storiche raccolte e documentate’ (Barbera, 1863) dice che i liberali alla ricerca di appoggi già nel 1849 presero contatti con i camorristi, ai quali attraverso Gennaro Sambiase, duca di San Donato, offrirono danaro in cambio della loro collaborazione. La saldatura tra le due realtà, però, avvenne nelle carceri dopo le retate volute da Ferdinando II contro la delinquenza organizzata e compiute, sempre nel 1849, dal prefetto della polizia di Napoli, Gaetano Peccheneda. A questo proposito l’autore svizzero dice: “Ve ne furono altri (camorristi) inviati alle galere e fu una immensa sventura. Si atteggiarono a martiri e poterono fieramente gridare lasciando le galere: Abbiamo veduto Settembrini, Spaventa, Poerio che sono nostri fratelli; noi abbiamo divisi le loro pene, abbiamo diritto di dividere con essi la gloria e i benefizi! Per tal guisa la camorra divenne politica.”
Lo storico Alberto Consiglio nel saggio ‘La Camorra a Napoli’ (del Duca, 1959) scrive: “I camorristi fecero in pratica per la causa liberale, cioè per quella dell’unità dell’Italia almeno quanto, se non proprio di più, di quel che fecero i liberali stessi.” A proposito del danaro con il quale veniva comprato il loro appoggio, considerato che si trattava di somme ingenti, l’intellettuale napoletano adombra l’ipotesi che provenisse da finanziamenti internazionali da parte della potente coalizione antiborbonica e infatti afferma: “La entità dei fondi che ai camorristi pervenivano, lascia sospettare che il danaro venisse da fuori regno.” L’operazione del ministro dell’interno, quindi, non era il frutto di una sua iniziativa estemporanea, ma era stata condivisa dai vertici delle forze rivoluzionarie e questo è dimostrato dal fatto che l’amministrazione garibaldina confermò gli uomini della malavita nei posti occupati. Quanto, poi, il loro contributo fosse apprezzato dai nuovi governanti, lo dimostrano i premi assegnati all’organizzazione criminale, alla quale vennero riconosciuti 75.000 ducati, formalmente da distribuire tra i più bisognosi, mentre alle sue donne più in vista, Marianna De Crescenzo (sorella di Salvatore De Crescenzo, detta la Sangiovannara), Antonietta Pace, Carmela Puritano, Costanza Leipnecher e Pasquarella Proto, il prodittatore Giorgio Pallavicino con decreto il 26 ottobre 1860 attribuì una pensione di 12 ducati mensili a testa.
Enrico Fagnano
UNDICESIMO POST tratto dal mio libro LA STORIA DELL’lTALIA UNITA Ciò che è accaduto realmente nel Sud dopo il 1860 (pubblicato e distribuito da Amazon). I precedenti post sono sul sito ‘Alta Terra di Lavoro’ e sulla pagina facebook ‘La storia dell’Italia unita’.