I popoli hanno un’anima E guai quando la perdono
Come spiegava Gustave Le Bon esiste un sentire comune, legato alla storia, che dà forza al gruppo. Se lo si perde si regredisce a una massa indistinta
– Marcello Veneziani – Lun, 27/10/2014 –
Ma i popoli hanno un’anima? Esiste cioè al fondo di un popolo, di una nazione o di una comunità, un carattere peculiare, un’energia, un legame speciale che lo rende unico, inconfondibile e coeso? È temerario porsi una domanda del genere nell’epoca globale in cui l’unico tratto condiviso è la contemporaneità.
Oggi è possibile parlare di un’anima dei luoghi, delle case, perfino delle cose, ma è arduo evocare lo spirito dei popoli. Eppure una millenaria tradizione culturale e civile, politica e religiosa, che ha sorretto civiltà, comunità e dato vita a nazioni e nazionalismi, ha creduto all’esistenza di un’anima dei popoli. L’ultimo studioso che vi si dedicò fu Gustave Le Bon, medico e antropologo francese, fisico, archeologo e soprattutto fondatore della psicologia delle masse, vissuto a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Meno noto è che Le Bon fu lo scopritore di una radiazione chiamata luce nera e fu l’inventore del cefalometro, uno strumento che serviva a misurare il cranio e a dedurre differenze tra gli uomini. Era il tempo in cui il positivismo usava la scienza per le classificazioni antropologiche e credeva di poter misurare, pesare le facoltà mentali e spirituali; fisiologia e psicologia si intrecciavano. Le Bon influenzò Hitler e Mussolini, ma anche Theodore Roosevelt, Lenin e Stalin. Di Le Bon sono famosi i saggi dedicati alla psicologia delle folle, in particolare latine, che subiscono il contagio degli umori collettivi, sono d’indole femminile e cercano un conquistatore, un Cesare, che le seduca e le governi. «Non so quante volte ho riletto La psicologia delle folle», scrisse Mussolini, definendola «un’opera capitale». L’opera in cui Le Bon teorizza l’esistenza di un’anima dei popoli è L’evoluzione dei popoli che uscì nel 1894, l’anno precedente alla sua opera capitale, e fu poi tradotta in Italia nel 1927, l’anno dopo i lusinghieri giudizi espressi da Mussolini. Per Le Bon «ogni popolo possiede una costituzione mentale altrettanto fissa quanto i suoi caratteri anatomici». Fissità che poi egli stesso smonta quando invece si sofferma sulle modificazioni e gli influssi che agiscono nel tempo. I popoli hanno antenati comuni, sono fatti «della stessa argilla, recano la stessa impronta»; anzi, «un popolo è guidato più dai suoi morti che dai suoi vivi». L’anima del popolo è formata da una rete di tradizioni, idee, sentimenti, modi di pensare comuni. Per Le Bon ci sono due sovrani più dispotici di un tiranno: sono la tradizione e l’opinione. Le manifestazioni esteriori dell’anima dei popoli sono la lingua, le istituzioni, le credenze, le arti e la letteratura. La storia dei popoli è la conseguenza del loro carattere. Le idee rappresentano le molle invisibili che guidano il mondo. Il discorso assume poi una piega biologico-positivista inquietante quando passa a classificare le razze; ma non dobbiamo giudicare la sua teoria col tragico senno di poi; non va dimenticato che alla fine dell’ottocento era comune nella cultura scientifica, oltre che ideologica e pure nel sentire comune, parlare di razze. Il passaggio dall’anima dei popoli alle razze segna la traduzione biologica e naturalistica di una visione culturale e spirituale. Dalla diversità delle razze si passa così alla distinzione tra razze superiori e razze inferiori e si gettano le basi per il dominio sulle razze inferiori o l’eliminazione delle razze ritenute degeneri.
Secondo Le Bon la vitalità di un popolo è in contrasto con la sua evoluzione. Quando l’intelligenza si fa più raffinata decadono il carattere e l’energia di un popolo. «Solo i fanatici, d’intelligenza ristretta, ma di carattere energico e di forti passioni, possono fondare religioni, imperi e sollevare il mondo». Resta fondamentale l’eredità, ma con i progressi della civiltà sia gli individui che le razze tendono a differenziarsi progressivamente. La specializzazione nel lavoro su cui si fonda la modernità, anziché accrescere l’intelligenza la riduce, fino ad atrofizzarla. Nel cuore dello sviluppo industriale Le Bon scorgeva dunque una forma di involuzione. Le Bon descrive con vent’anni d’anticipo su Spengler il tramonto della civiltà occidentale. L’individualismo, a suo dire, è un fattore di decadenza, «l’individuo finisce di non avere altra preoccupazione che se stesso». Le coscienze capitolano, la moralità generale s’abbassa e si spegne, l’uomo perde ogni dominio su se stesso, è in balia delle cose. La perdita del carattere è contrassegnata da una crescita di egoismo, così come il declino dello spirito pubblico produce l’egemonia del privato. Ma questa diagnosi di Le Bon va di pari passo col rifiuto radicale del socialismo e del pregiudizio egualitario. «Il socialismo sarà un regime troppo duro per poter durare», sarà una delle ultime tappe della decadenza che manderà in rovina i Paesi che lo abbracceranno.
La conclusione è che la vita di un popolo e di una civiltà sono il riflesso della sua anima, i segni visibili di una cosa invisibile. La coscienza di avere un’anima collettiva segna il fiorire di una civiltà e la dissociazione indica invece la sua decadenza: «Appena scompare l’anima nazionale i popoli si disgregano».
Oggi può valere ancora la lettura di Le Bon? A prima vista il cosmopolitismo e l’individualismo, la tecnica e il mercato, hanno reso del tutto antiquata, obsoleta, la sua teoria. Però quando osserviamo le inquietudini e le insofferenze dei nostri anni, l’esigenza di ritrovare radici comuni e consonanze di fondo, il sorgere di movimenti popolari che si richiamano alle identità dei popoli e dunque alla loro anima, quando vediamo persino i leader meno legati al passato appellarsi, per dare consenso e coesione, al Partito della Nazione o alla tutela degli italiani rispetto ai flussi migratori clandestini, allora s’insinua il sospetto che occorre rifare i conti con l’anima dei popoli. C’è un nesso tra il perdersi d’animo della società depressa e la perdita dell’anima di un popolo. Esiste davvero la personalità delle nazioni, c’è un’impronta comune, un carattere e uno spirito pubblico che fa sentire una società come una comunità di destino. L’anima dei popoli è forse un’espressione troppo aulica, enfatica, per giunta sporcata dalla sua caricatura biologica, la razza. Ma se le civiltà hanno un’energia spirituale e una volontà di vivere e durare, una molla che le muove e le unisce, quel fuoco interiore è «l’anima dei popoli». Una fiaccola per attraversare la notte del nichilismo senza ricadere nell’oscurità del razzismo. Senz’anima un popolo regredisce a massa, così come senz’anima la persona è solo un individuo e una famiglia è solo un agglomerato. L’anima di un popolo è la sua vitalità.