GAETANO MANZO “Capobrigante”

manzoGAETANO MANZO “Capobrigante”

Gaetano Manzo, pastore di Montella, chiamato alla leva del l862, non si era presentato, e ne fu ordinato l’arresto. Quando si presentò, iniziò il servizio militare a Salerno, ma si assentò dal servizio e divenne latitante. I suoi primi furti cominciarono nell’aprile 1863, poi si aggregò alla banda Ciardullo che operava nella zona di Eboli e Campagna. Insieme con Andrea Ferrigno sequestrò un possidente di Ogliastro; poi aggredì un reparto della Guardia Nazionale, e partecipò al sequestro del sacerdote Giuseppe Oliviero e del medico Luigi Calabritto; al primo tagliò l’orecchio destro, al secondo sfregiò il volto. Si sentirà parlare del suo brigantaggio per dieci anni ancora, fino al 1873. Don Francesco Oliviero rimane qualche tempo prigioniero di Manzo e nei suoi “ricordi briganteschi” ha lasciato efficaci profili di alcuni. Ciardullo, dice l’Olivieri, era “omiciattolo dagli occhi felini, barbettina biondiccia, dita inanellate e luccicanti“; Antonio di Nardo era “un diavolone color carbone“; Gaetano Manzo era “giovane dalle mosse sgherre, occhio cervino, biondo nei capelli, naso un pò schiacciato, piuttosto alto nella persona, signorilmente vestito, il men perverso, e disumano fra quegli orsi e iene assetate di sangue e di rapine“. Ma “il pastore di Montella”, si dimostrò qual era, orso e iena, nello stesso anno 1863 in cui don Oliviero scriveva, uccidendo quattro uomini della scorta del delegato di Acerno, lungo la strada da Acerno a Campagna. Gaetano Manzi fu protagonista del brigantaggio irpino tra il 1862 e il 1870. Le sue imprese, i suoi delitti, i suoi ricatti correvano di bocca in bocca e tenevano in apprensione sindaci, carabinieri, guardie, prefetti .

Gaetano Manzo era nato nel 1837, da poverissimi genitori ad Acerno, paese della catena dei Monti Picentini. Una sua biografia, scritta da un anonimo nel 1873, quando cioè ancora in attività, ce ne fornisce dettagliate notizie. Da ragazzo, imparò dal padre a costruire arnesi di legno; poi andò a fare il “casaro” in una masseria; frequentava la chiesa, forse faceva il chirichetto. Un sentimento religioso nasceva in lui, e vi rimase sempre, in strana convivenza con l’illegalità e la crudeltà con cui commetterà i suoi delitti. Nelle lunghe serate di Acerno si parlava della banda Ferrigno, del ritorno di Pico che però aveva litigato con Ferrigno, del duello in cui si ferirono reciprocamente, della rivalità tra Pico e Carbone, dell’ultima lite tra i due in cui Pico ci rimise la vita. Alle conversazioni era assiduo un vecchio, cieco di un occhio, che raccontava la sua vita e i fatti del’ 20 e del 48 e del vero re (naturalmente il Borbone), e favoleggiava di Russi pronti ad invadere la Puglia, di Austriaci che attraverso i domini del Papa occupavano gli Abruzzi, delle navi inglesi piene di cannoni ancorate tra Napoli e Gaeta, della precarietà dell’occupazione piemontese, del guerrigliero-brigante Tardinoche aveva sollevato Basilicata e Cilento e si muoveva verso Napoli. La spedizione di Garibaldi era come non fosse avvenuta, tra i montanari, pastori, e caprai di Acerno, lontani dal mondo, isolati tra i boschi. In questa situazione d’ignoranza, un mattino del 1862 gli Acernesi videro affisso al portone del municipio un gran cartello: era il bando di leva. Garibaldi aveva vinto, i Borbone da Gaeta erano andati a Roma, era venuto Vittorio Emanuele, ed ora Vittorio Emanuele voleva i soldati. Il bando era un richiamo alla realtà; si dileguavano le fantasie di Russi, Austriaci, Inglesi, di sospirati ritorni. Il servizio militare di leva era duro, lontano da casa, prolungato per anni e anni, con un ritorno pieno di problemi, sotto la sferza e il rigore dei caporalacci piemontesi che non sapevano parlare il napoletano. A questa leva doveva rispondere Gaetano Manzi; rispose, fu dichiarato abile, non voleva saperne né di Francesco né di Vittorio, ma poi aderì alle sollecitazioni di uno sconosciuto e si fece disertore. Aveva già sperimentato il malandrinaggio, lo trovava vantaggioso, e continuò per quella strada. Un giorno, su una spianata dell’Accellica, s’imbatté in un gruppo di briganti, che allora erano i padroni dei monti, delle selve, e dei paesi, i briganti di Ciardullo. Manzi aveva avuto un diverbio con il farmacista di Acerno, Francesco Criscuolo; scese in Acerno, incontrò il farmacista, sparò contro di lui cinque colpi di fucile. Passano una decina di giorni, Manzi aveva colpito, ma non aveva ricavato niente. Manzi è su la strada di Salerno, con cinque briganti. Passa una carrozza, c’erano i fratelli Calabritto, furono fatti scendere e portati in una grotta. Uno di essi, pagata una somma che aveva addosso, fu rimandato; l’altro fu trattenuto, e Manzi gli tagliò un orecchio mandando ai familiari l’orecchio reciso e la richiesta di 500 ducati. Il riscatto fu pagato, il sequestro rendeva. Manzi ripeté l’imprese dopo pochi giorni, e sequestrò due canonici di Eboli, Biagio Perito e Giacinto Gallotti. Questi sentivano i discorsi dei briganti, decisi ad uccidere un contadino, Gaetano Zembrile, che ritenevano avesse fatto la spia. Infatti lo uccisero. Manzi scrisse al Delegato di Acerno, minacciando la stessa fine ad altre spie, e poi (racconta l’anonimo) si mise a recitare il rosario. Manzi poi, incontrato il figlio dell’ucciso, gli dette una piastra perché si comprasse un cappello. Era pieno di contraddizioni e superstizioni. A maggio 1864, era entrato con violenza in una casa di Montecorvino e portato via quattro persone. La richiesta di 4675 ducati è accolta, ed i quattro tornano liberi. Nella piana sottostante, a scopo dimostrativo uccide 140 capre di un certo Moscato e chiede 2000 ducati. Altri sequestri seguono, uno dopo l’altro, tra Eboli e Contursi. Nell’assalto alla casa di Adamo Postiglione, i briganti sparano all’impazzata, uccidono il figlio ed una ragazza che si era affacciata ad una finestra, chiedono 2500 ducati, li hanno, ma non sono soddisfatti; ne chiedono altri 400 previo taglio dell’orecchio. Postiglione va a cercare la somma, e Manzi gli grida: “se non mandi il danaro, t’inchioderò la testa sul portone”: La carriera di Manzi fece un bel salto nel maggio 1865 quando, insieme con altri trenta, fermò una carrozza sulla via di Pesto, ne fece discendere due turisti inglesi, Moens e Morray, e li portò via. Il riscatto fu di 30.000 ducati d’oro, pagati dal Console inglese. In settembre impone ad un pastore, Trimarco, di uccidere quattro pecore e poi lo massacra perché riteneva Trimarco artefice della cattura, avvenuta pochi giorni prima, del brigante Meola, componente della banda. Nell’ottobre 1865, Manzi, ormai capo indiscusso della banda, ordina il sequestro degli industriali svizzeri Federico Wenner e Isacco Friedli, all’uscita dallo stabilimento tessile di Fratte presso Salerno. Il sequestro durò quattro mesi, alla fine furono pagati 180.000 ducati. Niente impressionava Gaetano Manzi. Regno d’Italia, repressione di Cialdini, legge Pica, Garibaldi, Convenzione di settembre 1864, avvisaglie della guerra austro-prussiana. Minacciava per ottenere il riscatto di Wenner nell’ottobre 1865 e continuava a rapinare, fino a quando una “voce venuta dal cielo” (così disse) lo convinse a porre termine alla vita sciagurata. Il Veneto era lontano, non interessava Manzi, e questi si consegnò al Prefetto di Salerno. Due anni durò l’istruttoria; i fatti di Manzi e compagni sono raccolti in dodici volumi del processo. La Corte d’Assise di Salerno il 23 marzo 1868 condanna alla pena di morte alcuni degli imputati, non Manzi che ha i lavori forzati a vita. Lo difese un illustre professore ed avvocato, Enrico Pessina. Rinchiuso nel penitenziario di Pescara, fu assillato dall’idea di una fuga. Astuto com’era, scrisse una lettera alla famiglia, accennando al suo proposito. Era una trappola, in cui la polizia cadde. Fu disposto il trasferimento nel penitenziario di Chieti, da cui poté evadere in una notte di tempesta, il 14 novembre 1871. C’era stata intanto la breccia di Porta Pia, la caduta del potere temporale del Papa, ma Manzi aveva riacquistato la libertà, anche la libertà di ricattare. Era sulla montagna di Giffoni, e discuteva con i suoi colleghi sul come rapire il ricco proprietario Giuseppe Mancusi. Il discorso fu sentito per caso da un dipendente del Mancusi, che avverti il padrone. Ciononostante, il colpo riuscì. Un’orda di briganti, vocianti ed armati, penetrarono in casa di Mancusi e lo portarono via, con altri due familiari. Li comanda uno “con la barba rossiccia e le membra tarchiate”, era Gaetano Manzi. Dopo quattro mesi, Mancusi è liberato, previa consegna di 50.000 ducati, molti oggetti d’oro, ed alcuni fucili. Manzi lo accompagnò fino alle prime case del paese, dandogli 400 lire per le spese. Lo svizzero Isacco Friedli, che per quattro mesi rimase nelle mani di Manzi, così lo descrisse in una lettera ai familiari dopo la liberazione: “Ritto, fiero, con la mano destra alzata, vestito di panni pittoreschi, appariva come una figura teatrale. La sua testa ha un profilo quasi greco, il naso forte, ben modellato e leggermente aquilino; la fronte è piuttosto piccola, le forti sopracciglia curve, i begli occhi scuri il cui sguardo sembra trapassarti; una splendida folta barba bionda orna la bocca e il mento forte; i capelli biondi, lucidi, e fini, raggiungono quasi le spalle. Il suo comportamento e l’incedere sono fieri, a volte c’è in esso un che di felino”. Manzi sequestrò anche il barone Grelle, deputato al parlamento. Nel territorito di Frigento scattò la trappola, il 20 agosto 1873, al passo di Mirabella. Fu impiegato un grande spiegamento di forze, con drappelli di carabinieri e di soldati di fanteria. La “casina” in cui si trovava la banda fu circondata, ma Gaetano Manzi si era allontanato da tempo. Otto ore più tardi la comitiva pranzava in una casa colonica sita in località Doganelle di Flumeri, di proprietà del barone Grella, che era stato sequestrato. Ci fu la “soffiata” di un delatore, e la sorpresa. Un carabiniere sparò contro la vedetta della banda; questa rimase uccisa, ma cadde pure il carabiniere che aveva sparato. La porta della casa fu sfondata, all’interno si svolse una scena terribile; i carabinieri furono accolti da scariche di revolver e risposero con le baionette; rimasero uccisi cinque briganti; tre, più morti che vivi, furono presi, tra cui Gaetano Manzi. Nelle sue tasche c’erano 820 lire d’oro. L’atto di morte del carabiniere Carlo Caccia è conservato negli atti del comune di Flumeri, dove esiste anche il processo verbale circa la morte di Gaetano Manzi ed altri tre, “uccisi nel conflitto avvenuto con la forza pubblica”…………

fonte

brigantaggio.net