Enzo di Brango, “L’arca della salvezza”

“L’ARCA DELLA SALVEZZA” IL ROMANZO STORICO DI ENZO DI BRANGO

Di Giuseppe Antonio Martino

libroDopo il saggio socio-politico L’Italia si cerca e non si trova (Qualecutura, 2012) e la curatela de I moribondi di Palazzo Carignano (Capone, Lecce 2013), Enzo di Brango, con il romanzo storico L’arca della salvezza, dà un nuovo ed autorevole contributo al processo di revisione storica dei fatti che hanno portato all’unificazione politica della penisola italiana.

Il regno delle Due Sicilie non era costituito soltanto dalla città di Napoli, una capitale che primeggiava tra le città d’Europa, o da isole felici come la colonia di San Leucio, le ferriere di Mongiana o gli stabilimenti di Pietrarsa che pure, in un’epoca di grandi rivoluzioni, erano espressione di lungimiranza davanti alle conquiste scientifiche e sembravano essere di buon auspicio in un reame che la storiografia ufficiale, da oltre un secolo e mezzo, ci descrive retrogrado ed incapace di guardare oltre i suoi confini, protetto “tra l’acqua santa e l’acqua salata”.

Accanto ai primati tanto decantati, nel regno borbonico esisteva un’aristocrazia agraria, gretta ed incapace di guardare oltre la punta del proprio naso, della quale Di Brango, avvalendosi delle più recenti ed autorevoli ricerche storiche e di attenti studi personali, ricostruisce verosimilmente la vita scialba e corrotta tra gli anni trenta e gli anni sessanta del XIX secolo.

Una colpa può forse essere imputata ai Borbone delle due Sicilie: contrari alle scommesse politiche e contenti di un sistema sociale in cui la borghesia degli affari non era la classe egemone, come afferma Nicola Zitara, erano incapaci di liberarsi dalle idee teologiche e retoriche per avanzare grandi progetti di espansione politica e territoriale e vivevano schiacciati tra la colta aristocrazia gattopardesca siciliana e quella gretta e ignorante, retrograda e medioevale, di gran parte della parte continentale del regno, tanto da rivelarsi alieni ad ogni proposta dell’hegelismo napoletano (Francesco De Sanctis, gli Spaventa, Salvatore Tommasi e altri), che in quell’epoca di grandi sconvolgimenti sociali e politici, si rifaceva di più al realismo filosofico e scientifico di Bacone, Locke, Hume e degli enciclopedisti.

Le vicende narrate ne L’arca della salvezza assumono la connotazione di un vero e proprio romanzo il cui testo, diviso in tre porzioni principali, corrispondenti a tre finestre temporali (1936, 1848, 1860), è strutturato secondo i principi dello schema quinario.

Enzo Di Brango, con l’attenzione dello storico e l’acume del sociologo, esamina le vicende che ruotano intorno alla famiglia di Giuseppe Chiarelli della Spezia, ignorante barone per grazia terrena (grazie cioè ai possedimenti a suo tempo usurpate da lui stesso e dai suoi antenati), coniugato, per sfortuna di lei, con la contessa Olinda Coronato Ferrandino, datale in sposa per salvare l’antico casato a cui apparteneva dalla bancarotta e ora costretta a sbucciare patate, per reprimere i suoi istinti sessuali, cercando di salvare dall’animalità paterna il bambino nato dal suo sfortunato matrimonio, Alessandro, di cui, divenuto uomo onesto e coraggioso, seguiremo le sorti fino ai giorni che hanno determinato il definito crollo del regno borbonico.

Nell’economia del racconto un personaggio di primo piano che ci aiuta ad inquadrare in maniera storicamente corretta il mondo dell’aristocrazia agraria che dominava nell’alto Sannio, è certamente la colta, elegante e spudorata, ma sterile, Mikaela Von Dienst Hickersberger (la sburga, come la chiamavano per le sue origini viennesi), andata in sposa al gretto e bigotto conte Celestini, amica e confidente di Olinda, da lei diversa per indole, per carattere e formazione, ma capace di sconvolgere l’instabile equilibrio della sua triste esistenza, fino ad indurla ad un rapporto sodomitico e alla soglia di un amore saffico, non maturato per il sopraggiungere della morte per colera.

Un rapporto strano tra due nobildonne tanto diverse che, nell’economia del romanzo, dati il periodo storico ed i luoghi in cui esso è ambientato, potrebbe sembrare una forzatura fuori luogo ma che, a ben guardare è utile per comprendere come l’arrivo di una straniera, in quel periodo di grandi sconvolgimenti ideali, potesse introdurre anche nel Sud dell’Italia, come stava avvenendo nel nord ad opera di Madame de Staël, non solo idee nuove e rivoluzionarie, ma anche pratiche e scandalose abitudini sessuali aborrite nel cattolicissimo regno borbonico.

La morte di Olinda permette al gretto barone Chiarelli, che si riteneva padrone di tutto e di tutti, di aggiungere alla lista delle sue amanti una nuova concubina, Marietta, l’adolescente compagna di giochi di suo figlio, sotto gli occhi impotenti del padre di lei, suo dipendente, al quale aveva già tolto la dignità sottraendogli la moglie.

A Sandrino non è riuscito ad imporre la sua volontà: il ragazzo ha scelto di frequentare la scuola militare; di lui non ha potuto fare un prepotente gretto amministratore dei suoi duecento ettari di montagna e il custode di quella cassapanca che egli chiamava “l’arca della salvezza”, in cui custodiva centinaia di giornali di contrapposte idee politiche, dei quali non aveva mai letto un rigo, ma che intendeva utilizzare, mettendo in bella mostra sul tavolo del suo salone quelli osannante la parte dei vincitori, rivoluzionari o reazionari che fossero, nel caso in cui la situazione politica dovesse degenerare.

Certo, il barone Chiarelli non dovette capire molto della realtà politica dei tempi che stava vivendo neppure quando, nel 1848, a Napoli con l’ignara Marietta al seguito, conobbe lo scaltro segretario del duca Carafa, Vincenzo Imbriano, al quale si affrettò a chiedere giornali per la sua preziosa “arca”, né quando, per le vie di Napoli, dopo aver distrattamente ascoltato un discorso di Ferdinando Petruccelli che affermava che l’Italia stava diventando uno stato, al figlio, che inutilmente cercava di spiegargli che stava scoppiando una rivoluzione, si è grettamente limitato a dire «Però se questi vincono ricordati che ci sta l’arca su nel mio studio …».

Imbriano, da buon funzionario borbonico, non era certo il tipo che potesse rifiutare l’invito del barone e giunse a casa Chiarelli con il più gradito omaggio: un pacco di vecchi giornali per l’arca del barone. Tra le montagne del Sannio conobbe anche l’austriaca Mikaela che, prima che egli tornasse a Napoli, non poteva non concedersi focosamente a lui mentre il conte suo marito snocciolava rosari e organizzava beatificazioni che potessero trasformare in reliquie sacre le mele di un albero piantato vicino alla sua casa.

Quando il Regno delle due Sicilie stava per essere occupato dai piemontesi, il barone Chiarelli, divenuto “italiano”, disponeva sul tavolo della sua casa i giornali inneggianti all’unità e giurava fedeltà al nuovo re: cambiava il monarca, ma per lui tutto restava come prima, con la giovane Marietta sempre pronta ad esaudire ogni suo capriccio, nonostante la sua età. Alessandro aveva scelto, invece, di stare dalla parte del suo re e anche quando, dopo aver visto morire tutti i suoi commilitoni ed i suoi superiori tradire il giuramento di fedeltà ai Borbone, rifiutò di restare nella casa dove era nato, ma scelse di raggiungere avventurosamente Gaeta, per continuare ad assolvere al suo dovere di ufficiale, con i due compagni che gli erano rimasti fedeli.

A Gaeta non trovò solo la guerra ma anche l’amore e la promozione a capitano.

Un amore non aristocratico, come avrebbe voluto il barone Giuseppe, ma bello, spontaneo e romantico quello sbocciato tra Teresina Marutti, figlia di un bettoliere, e Alessandro Chiarelli tutt’e due orfani di madre. Un amore nuovo il loro, moderno, non fatto solo di baci e di carezze, tanto che la ragazza sentì la necessità di proporre al giovane verso il quale, per la prima volta, sentiva una forte irrazionale attrazione, la lettura di Diderot, di cui lui non aveva mai sentito parlare.

Quei libri, grazie ad una piccola bettoliera imborghesita che per le sue idee rivoluzionarie era stata cacciata dalla chiesa di Dio, hanno aperto gli occhi a quel giovane possidente aristocratico che era riuscito a divincolarsi dai legacci della sua casta ma, forse come quel re a cui era rimasto fedele, non aveva ancora respirato il vento di libertà che spirava in tutto il continente.

Alessandro, però, dovette presto lasciare anche Teresina: guadagnatosi casualmente la fiducia della regina Maria Sofia, fu trasferito a Roma con il compito di organizzare squadre di soldati da mandare in aiuto ai guerriglieri legittimisti che negli Abruzzi e in Terra di Lavoro combattevano ancora contro le forze occupanti. Le delusioni non erano per lui finite: a Roma incontrò Vincenzo Imbriano che, dopo aver festeggiato l’arrivo dei conquistatori, si era rifugiato presso uno zio prete e, da buon napoletano, senza perdersi d’animo, si era inventato il mestiere di scrivano per signore romane innamorate dei soldati francesi e continuava a consolare la contessa sburga Mikaela che, dopo averlo sollazzato nel Sannio e a Napoli, continuava a frequentarlo nella città del papa, trascinandosi sempre come un cagnolino al seguito, il devoto ed ignaro marito conte Celestini.

Alessandrino aveva capito benissimo che coloro che i piemontesi chiamavano briganti erano difensori della Patria, partigiani, potremmo dire con un linguaggio più moderno, e che da veri banditi, in quella infame guerra mai dichiarata, si stavano comportando coloro che sventolando la bandiera nuova della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza, stavano uccidendo donne vecchi e bambini in nome di un re che parlava una lingua per lui straniera e che dava loro libertà di saccheggio. Il colpo finale, però, i grandi ideali del giovane barone lo ricevettero alla scoperta del tradimento di tutti i suoi superiori, pronti a trattare con i piemontesi. Era rimasto solo a gridare “viva ô re” e non gli restava che un ultimo atto di onore: salvare una povera ragazza che, per sfuggire alle violenze e alla vessazioni, si era presentata a lui per arruolarsi, travestita da uomo, tra quei partigiani che i liberali chiamavano Briganti.

Si era finalmente reso conto che la Rivoluzione, almeno quella sociale, maturata per l’evoluzione dei tempi ed indipendente dal volere dei regnanti, era arrivata anche nel Sud dell’Italia, ma i Borbone, forse non avevano saputo coglierla in tempo: con le rivoluzioni sociali maturano irreversibilmente anche quelle politiche che chi governa deve, però, saper cogliere. Per il non più aristocratico giovane barone Chiarelli, rimasto fedele al suo re fino alla fine, non restava che accettare le nuove idee che l’amorevole fidanzata gli proponeva sulle pagine di Diderot, Cartesio e Newton e continuare a ridere del padre che aveva sempre sostenuto che i libri non servivano a niente. L’arrivo di Teresina e del bettoliere suo padre da Gaeta, in grado di accogliere anche la povera Pietrina di Placido, non più costretta ad arruolarsi tra i briganti sotto mentire spoglie, è stata la svolta definitiva: una nuova vita stava per cominciare per Alessandro senza che egli rinunciasse ai suoi ideali, ma soltanto accettando l’evoluzione dei tempi che a lui in quel momento, romanticamente, si presentava nelle sembianze della donna amata, Teresina, dopo un intenso bacio di amore.