Due secoli fa c’era il colera, oggi il coronavirus. Cosa è cambiato?
28 SETTEMBRE 2020
Drawing by A Muzii and a sketch by Ettore Ximenes, from L’Illustrazione Italiana, year 12, no 43, October…
Getty Immages
Cordone sanitario, quarantena, sanificazione delle strade e delle case in cui ci siano stati casi di contagiati, ospedali interi dedicati ai malati. Si è capito presto che l’igiene personale, i luoghi insalubri e l’affollamento favoriscono la diffusione del virus, quindi nelle trattorie ci si può sedere al massimo in quattro in un tavolo, e i tavoli devono essere distanziati, mentre in fila fuori dai forni – unici luoghi di spaccio restati aperti insieme alle farmacie – ci sono persone che mantengono una certa distanza l’una dall’altra, e che prima di entrare si nettano le mani con acqua e aceto.
Bisogna stare in casa il più possibile, viaggiare è consentito soltanto con permessi speciali e sempre è obbligatorio esibire, a richiesta, una “patente sanitaria” in cui è registrato tutto, il luogo di provenienza, i successivi movimenti, le eventuali malattie. Le scuole sono chiuse. Chi è malato viene isolato nella sua abitazione: può ricevere solo la visita del medico, del notaio per fare testamento e del prete per l’estrema unzione. Il cibo gli arriverà attraverso un cestello calato dalla finestra e, qualora povero, lo avrà gratis.
Negli ospedali i malati si lamentano di non poter vedere i parenti, ma la disposizione è rigida: i parenti non sono ammessi neppure ai funerali, che si svolgono di notte e quasi in segreto, lunga teorie di bare che sfilano lugubremente per le vie senza l’accompagnamento delle campane, costrette a tacere.
Tutto questo accadeva quasi duecento anni fa, anno 1836, quando l’epidemia di cholera morbus, volgarmente chiamato colera, si era ormai trasformata in una pandemia, la prima dell’800. Ripercorre tutte le fasi della diffusione del morbo nella nostra penisola, e soprattutto nell’Italia del sud, il documentatissimo libro di Gigi di Fiore Pandemia 1836 – La guerra dei Borbone contro il colera (ed. Utet).
Si resta impressionati (e sgomenti) di fronte alle tante assonanze tra quelle vicende e le attuali: le teorie più strampalate sulla provenienza del virus (per alcuni, dall’abuso di frutta e verdura…), sul suo uso “politico” (indipendentisti siciliani accusarono il governo borbonico di utilizzare veleni per diffondere dolosamente il colera nell’isola), sui rimedi per combatterlo (dal vino rosso ai bagni bollenti); anche le misure adottate sono nell’essenza simili a quelle di oggi, così come lo è la preoccupazione per i commerci bloccati (aggirati, allora, dai contrabbandieri, per colpa dei quali il colera arrivò via mare o su merci entrate illegalmente), per la crisi economica, per l’impossibilità di controllare le troppe persone prive di una casa.
Nel 1835 il colera non si era ancora spinto a sud. Città come Parma e Brescia chiusero gli ingressi, e questa è la descrizione del bresciano Benedetto Manzini: «Uno squallore che ti agghiaccia il sangue nelle vene, il veder deserte le contrade, e chiuse gran parte delle botteghe». Poi il morbo arrivò nelle regioni centrali, e a Napoli.
Il 25 settembre, all’ospedale della Pace, venne ricoverato un barbiere di Lecce che era arrivato in città per far visita al padre. Francesco Macchietella, questo il suo nome, aveva alloggiato in una locanda e si era subito sentito malissimo, con diarrea, vomito, febbre, delirio. Ricoverato, fu dimesso dopo due settimane, ma subito ci fu un nuovo caso: un cantiniere romano che aveva dormito nella stessa locanda e nella stessa stanza del Macchietella. Il poveretto non ebbe ugual fortuna e morì, non ancora ufficialmente di colera.
Il dott. De Renzi studiò i due casi insieme ai suoi colleghi, tra cui il dott. Mario Giardini, e quando gli capitò il terzo caso, quello di un militare in servizio alla dogana, che morì il 3 ottobre, non esitò a scrivere nel referto “cholera morbus”, un nome che nessuno voleva sentire, un nome che, i medici lo sapevano, avrebbe scatenato il panico. La notizia diventò ufficiale due settimane dopo, quando le autorità, su invito del re Ferdinando II, fecero affiggere in ogni angolo di Napoli un manifesto in cui si dichiarava lo stato di allarme e si elencavano le misure da adottare.
Ferdinando II cercò di tranquillizzare la popolazione facendosi vedere nelle strade, ma fino all’inizio del ’37 i morti aumentarono a velocità vertiginosa (quasi 6000 vittime nella sola Napoli). Ci fu quindi un rallentamento dei contagi, seguito da una ripresa ancora più virulenta in primavera. Solo nel 1838 il pericolo fu dichiarato “passato”.
Per due volte, a quel punto, Ferdinando II si recò in Sicilia, dove il virus aveva esacerbato il malcontento e dato vigore ai movimenti indipendentisti. Promise la costruzione di ospedali e università, di strade e orfanotrofi, di teatri e monti di pietà. Dieci mesi dopo il suo rientro, fu inaugurata la prima linea ferroviaria tra Napoli e Portici.
Ferdinando II morirà nel 1859, e la sua seconda moglie lo seguirà nel 1867, insieme al figlio più piccolo che l’aveva contagiata, Gennaro. Entrambi, madre e figlio, moriranno in esilio ad Albano Laziale, sui colli romani. Vittime di una nuova ondata di colera.
Susanna Schimperna
Scrittrice e giornalista
https://www.huffingtonpost.it/entry/due-secoli-fa-cera-il-colera-oggi-il-coronavirus-cosa-e-cambiato_it_5f71c87dc5b64deddef0d344