DANTE ai Potenti: Abbiate coraggio

DANTE AI POTENTI: ABBIATE CORAGGIO

“Oggi in Italia non può parlar di Dante che un ministro, un professore, o un imbecille. Ed io, grazie a Dio, non appartengo a nessuna di queste tre importanti categorie”. Così parlò Gabriele D’Annunzio, così ricordiamo Dante nell’anniversario della sua morte, il 14 settembre del 1321.
Dante, il più italiano dei poeti, il più poeta degli italiani, eppure così universale. Qual è la lezione umana, civile, morale che Dante lascia in particolare ai potenti, ai dotti e ai sacerdoti? Dante insegna ai potenti e ai regnanti, con l’esempio oltre che con le parole, la fierezza, la coerenza, il senso dell’onore, categorie calpestate nel nostro tempo ma a essere onesti anche nel suo, considerando la veemenza con cui li attaccò, pagando un prezzo altissimo. Dante insegna l’importanza di essere all’altezza di una tradizione, di un ministero e dell’auctoritas che si copre; non c’è per lui potere senza carisma, né dominazione benefica senza legittimazione sacra. Imperativi incomprensibili nel nostro tempo.
Ai dotti, o chierici, che nel nostro tempo chiamiamo intellettuali, Dante insegna che il coraggio delle proprie idee vale almeno quanto le stesse idee. Quel che si è disposti a rischiare per le proprie idee mostra la grandezza di chi le professa come la sostanza delle stesse idee. Fu dantesco Ezra Pound quando coniò quel motto che è il blasone della migliore militanza ideale: “chi non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui”. A volte, aggiungo, entrambe le cose. Dante insegna che l’impegno civile ha senso e grandezza se è posto al servizio di una visione del mondo, di un orizzonte trascendente e spirituale oltre l’umano, lo storico, il personale e il sociale.
Infine agli uomini della Chiesa Dante ricorda che religioso non coincide con clericale, la fede non è sottomissione a un potere, sia esso sacerdotale, cardinalizio o papale; e la legittimazione spirituale della potestas politica, nella forma più alta dell’Impero, non deriva dalla Chiesa ma direttamente da Dio. Prima di Machiavelli Dante rivendica l’autonomia spirituale della politica; non da Dio o dalla morale, ma dal potere clericale.
La lezione di Dante ai potenti, ai dotti e ai sacerdoti si estende per gradi a tutta la società e a tutti i tempi. Una lezione di dignità tramite la bellezza dei versi, la profezia delle visioni, l’ordine simbolico nelle sue figurazioni.
A Dante dedicai un saggio e un’antologia un paio d’anni fa, ora ci sono tornato scrivendo la biografia di Vico. Quando parla di corsi e ricorsi, Vico stabilisce un’analogia tra Omero e Dante, che chiama “l’Omero toscano”. Per Vico il “maravigliosissimo” Dante era l’Omero della barbarie rinnovata nel Medioevo; come Omero aveva tratto la sua lingua dai popoli sparsi della Grecia, così Dante aveva raccolto una lingua dalla volgare favella di tutti i popoli d’Italia.
In una lettera a Gherardo degli Angioli sull’indole della vera poesia, Vico elogia Dante con parole inconsuete nel suo tempo. Dante era allora visto con diffidenza, sia dai moderni che dai cattolici più devoti: agli occhi dei primi era troppo legato al medioevo, austero, arcaico e anacronistico; e dai secondi ritenuto un mezzo eretico e pagano, sostenitore dell’impero rispetto al papato, del potere civile rispetto al potere religioso. Vico nota che Dante era considerato nel primo settecento un uomo incolto e ruvido agli occhi dei giovani del tempo, che si dilettano, dice Giambattista, di fiori e amenità, banalità e musiche effeminate. Dante è austero e malinconico, e mette a frutto il suo “collerico ingegno” per scrivere il suo capolavoro nel suo poetico favellare. Scrivendo di Dante, Vico parla pure di sé, s’identifica in lui, nel suo carattere spigoloso e irascibile e nei suoi travagli; anche se Dante serbò una sdegnosa fierezza estranea a Vico, compiacente verso i potenti del suo tempo e remissivo verso i nobili e i facoltosi. Altra temperie, altro temperamento. Tornando poi su Dante, Vico elogerà la Commedia per tre ragioni: come storia dei tempi barbari in Italia, per lo stile dei suoi “bellissimi parlari” e come esempio di sublime poesia.
Vico trasferì la Commedia dantesca dai cieli nella storia, nella chiave di una teologia civile; passando dal canto alla riflessione. Restò tuttavia in Vico la centralità originaria della poesia e della fantasia. Il capolavoro di Dante come quello di Vico, esprime un giudizio universale sull’umanità di tutti i tempi, al lume divino: la Divina Commedia è il grandioso epilogo in cielo (e all’inferno) della vita terrena; la Scienza nuova è la storia ideale ed eterna condotta dagli uomini ma guidata dal cielo. Dante fu la guida di Vico.

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