LA LEGGE “SPECIALE” CHE COSTRINSE I MERIDIONALI A DIVENTARE ITALIANI
Dal libro di Pino Aprile, Carnefici, emblematica e significativa, una frase semplice e rovente al tempo stesso, che inevitabilmente spinge a riflettere: “E se le guerre si fanno per procurarsi quello che manca, ci sarà qualche ragione, ripeto, per cui i terroni non hanno mai invaso nessuno e sono stati invasi da tutti?……
Siamo i più meticci d’Europa;
Siamo stati a tavola e a letto con chiunque; Siamo parenti di tutti.
Alcuni li abbiamo accolti, altri abbiamo dovuti accoglierli. Ma nessuno ci entrò in casa come i piemontesi e l’Italia che ne seguì, perché nessuno, fino ad allora, era riuscito a farci desiderare di andarsene, noi che eravamo lì da sempre.”
Ma come fu possibile tutto questo? che fine fecero i partigiani lealisti al re Borbone, quelli che furono quasi per spregio chiamati Briganti? Ebbene, quell’esercito di resistenza fu spazzato via dalle nefandezze e dalle iniquità di una legge promulgata dal neonato Regno d’Italia e promossa dal deputato abbruzzese Giuseppe Pica (uno di quei meridionali liberisti, già ex deputato dell’Aquila sotto il governo di Ferdinando II), una legge disumana e in contrasto con ogni forma di etica civile, emanata in deroga agli articoli 24 e 71 dello statuto albertino, che garantivano il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale. Il provvedimento fu imposto il 15 agosto del 1863 per disgregare non solo il brigantaggio post unitario, ma anche l’apparato sociale del Mezzogiorno, già vessato dallo stato d’assedio delle regioni meridionali proclamato un anno prima dal parlamento italiano.
Nelle regioni meridionali, a partire dal 1863, ogni diritto costituzionale contemplato dallo statuto albertino fu quindi definitivamente abolito, un provvedimento disumano che diede vita a una vera e propria mattanza senza quartiere che autorizzava, legge alla mano, il comune bersagliere ad ergersi a piacimento come giudice militare, e immune dispensatore di morte. La legge prevedeva infatti la repressione del brigantaggio attraverso le umorali intransigenze dei tribunali militari, conferendo di fatto potere illimitato ai piemontesi che operavano in quei territori e che si ritrovarono autorizzati ad applicare arbitrariamente misure come la fucilazione, i lavori forzati, le incarcerazioni coatte, le punizioni collettive per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro interi villaggi.
Il parlamento italiano autorizzò dunque i militari impegnati nella campagna di “liberazione” a stuprare, deportare, incarcerare (si parla di alcune centinaia di migliaia di incarcerazioni solo nel primo anno di “liberazione”) e fucilare i suoi concittadini con il fine di convincerli a diventare finalmente un unico popolo. Renitenti questi meridionali! “Non volete neanche essere liberati?” Ma liberati da chi? mi verrebbe da rispondere.
Immaginate per un solo istante il contesto sociale nel quale si viveva questa spaventosa repressione: chiunque fosse soltanto sospettato (o indicato da un rivale in affari, o da un rivale in amore, e così via…) di brigantaggio veniva fucilato sul posto, con lui la sua famiglia, che lo aveva colpevolmente protetto con il silenzio (e poco importa se fosse solo un sospetto, il tuo giudice e il tuo carnefice erano la stessa persona). Il massimo della clemenza a cui poteva aspirare il sospettato brigante era la deportazione in un carcere sovraffollato di qualche landa desolata, un viaggio di sola andata verso l’anonimato e verso una vita di privazioni. Immaginate le sortite di questi plotoni di esecuzione nei paesucoli delle campagne meridionali: il contadino si ritrovava cadavere senza neanche conoscerne il motivo, testimone dello stupro delle donne di casa, e arso vivo soltanto perché un suo compaesano o un suo lontano parente era sospettato di brigantaggio.
Oltretutto, bisogna considerare che nel periodo di massimo attrito tra il popolo e gli invasori (1861-1865), il parlamento del neonato regno decretò la censura militare, un provvedimento che aveva lo scopo di proteggere e di nascondere agli occhi del mondo ogni tipo di nefandezza coloniale che veniva perpetrata nel ex Regno delle Due Sicilie. In sostanza, nessun giornalista italiano o straniero poteva circolare in quei territori assediati, e le uniche notizie che trapelavano dovevano prima essere filtrate dalle autorità militari. Ma come, direte voi, i liberatori non furono accolti da un tappeto di petali di rose? No, non esattamente.
Sono queste le basi sulle quali si erge l’Italia. Chiunque voglia opporre rimostranze e argomentazioni contrarie verrà seppellito da una montagna di libri, di archivi, di documenti, che ancora sanguinano, e ancora urlano di dolore; nessuna propaganda unitarista e nessun libro scolastico può arginare la verità: quando una cosa nessuno te la vuole dire, come ricorda Pino Aprile, allora la terra si crepa, si apre. E Parla!
Pasquale Peluso