“Da Quarto al Volturno”

Giuseppe Cesare Abba (1838-1910), nel suo “Da Quarto al Volturno”, con l’enfasi di chi ha partecipato all’impresa, descrive con dovizia di particolari la spedizione dei Mille.

Garibaldi partì da Quarto, quartiere marinaro di Genova (fino al 1861 si chiamava Quarto al Mare poi, per ovvie ragioni, è diventato Quarto dei Mille), nella notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860. La battaglia sul Volturno, quella che sancì le sorti di un conflitto ormai già segnato, è datata 1/2 ottobre 1860. In appena 147 giorni il generale di rosso vestito aveva conquistato il Regno delle Due Sicilie e sconfitto il poderoso esercito borbonico. Al di là dell’ardimento del Peppino nazionale, dell’afflato unitario che rapì molti, della congiura massonica tramata in Francia e, soprattutto, in Inghilterra, è evidente il repentino sfaldamento dell’apparato duosiciliano. Corruzione e viltà albergavano sovrane nelle alte sfere dell’esercito napoletano. Un esercito di popolo per questo deriso e vilipeso ma che seppe dare prova di valore sia sulle rive del Volturno e sia durante il lungo e sanguinoso assedio di Gaeta: anche quando i capi, indigeni o stranieri, preferirono voltare le spalle al nemico oppure accordarsi sotto banco.

PELUSO

c abbaI tradimenti, in quei cinque mesi, furono così tanti e ripetuti che è arduo riassumerli in poche righe. Le prime avvisaglie di cotanta fellonia si ebbero già in Sicilia, subito dopo lo sbarco di Garibaldi. Il luogotenente Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, non seppe contrastare l’avanzata delle camicie rosse pur trovandosi in netta superiorità numerica. Di 69 anni suonati, pavido e incapace, fu rimosso dall’incarico e morì qualche anno dopo in esilio a Parigi. Il re Francesco II non volle mai incontrarlo e rifiutò di prenderlo con sé nella difesa di Gaeta. Di non diversa tempra il suo successore, Ferdinando Lanza, un giovanotto di 75 anni, che si rinchiuse con le sue truppe a Palermo, lasciando la Sicilia in mano ai garibaldini. Sottoposto a procedimento disciplinare venne poi assolto ma considerato un inetto. Il generale Giuseppe Letizia, invece, firmò la capitolazione di Palermo quando la partita era ancora tutta da giocare: qualche tempo dopo passò nell’esercito sabaudo. Più incapace che vile si dimostrò il generale Tommaso Clary, comandante territoriale in Sicilia, che decise disastrosamente di contrastare i garibaldini frazionando i suoi uomini in tanti piccoli reparti. Cercò poi di riabilitarsi nell’organizzazione dell’insorgenza brigantesca nel sud d’Italia. Ma il simbolo più puro di tale “eroica” genìa fu sicuramente il generale Francesco Landi che nella battaglia di Calatafimi, ad un passo dalla vittoria, fece ritirare i suoi uomini. Lo storico De Sivo sostiene che al generale avessero promesso una ricompensa di 14 mila ducati per la sua ritirata, somma depositata presso il Banco di Napoli.

Quando, però, si recò a riscuotere il frutto del tradimento, trovò soltanto 14 ducati. Ci rimase così male che morì di crepacuore. La fece grossa anche il generale Gennaro Gonzales capace, prima a Messina e poi in Calabria, di perdere un’intera brigata. Così pure il generale Federico Bonanno che in Sicilia restò inoperoso a guardare mentre in Puglia perse il contatto con la sua truppa. Risalendo lo Stivale, il generale Fileno Briganti abbandonò Reggio Calabria senza sparare un colpo di fucile. Avuto un abboccamento con Garibaldi stava andando ad incontrarlo. Nei pressi di Mileto alcuni suoi soldati lo riconobbero e lo uccisero al grido di “fuori il traditore”. La stessa cosa stava per accadere al generale Giuseppe Cardarelli che aveva consegnato Cosenza ai nemici senza combattere. Salvò la pelle andandosi a rifugiare tra i garibaldini. Ancora più clamoroso ciò che combinò il generale Giuseppe Ghio che al comando di 10 mila uomini si arrese a Soveria Mannelli. Ancora una volta la truppa si ribellò e stava per passare a vie di fatto. Riuscì a fuggire per il rotto della cuffia e si presentò a Napoli davanti a Garibaldi indossando la divisa dell’esercito piemontese. Qualcuno, però, fece notare che il Ghio era stato tra gli ufficiali che aveva catturato Pisacane e i suoi compagni. Venne perciò emarginato e collocato a riposo a soli 42 anni. Qualche tempo dopo fu trovato morto: si disse che, roso dai rimorsi, si era tolto la vita. Anche il generale Giovan Battista Vial, comandante territoriale in Calabria, non fece una gran bella figura. Scappò davanti al nemico riuscendo soltanto a salvare la cassa dei suoi reggimenti.

 
I giudici napoletani lo giudicarono incapace e traditore mentre i piemontesi lo misero a riposo. Non da meno fu il maresciallo Filippo Flores, comandante delle truppe borboniche in Puglia, che si arrese ai garibaldini di Turr pur trovandosi in evidente superiorità. Subito si recò ad omaggiare Garibaldi a Napoli. La sua fama di vile, però, lo aveva preceduto e il giochetto di riciclarsi nell’esercito piemontese non riuscì. E come non ricordare il generale Alessandro Nunziante, uno dei militari più stimati del regno napoletano, potente consigliere di Ferdinando II e poi aiutante di re Francesco? Da provetto marinaio, fiutato il vento, non ci pensò due volte a passare dall’altra parte offrendo i suoi servigi a Cavour. E accanto a lui il ministro della guerra Salvatore Pianell: non appena il re partì alla volta di Gaeta se ne andò a Torino e indossò la divisa piemontese. Se nell’esercito il tradimento dilagò, nella marina il fenomeno assunse proporzioni colossali.
Delle 36 navi della gloriosa marineria napoletana ben 30 passarono al nemico. Campione di doppiogiochismo fu Amilcare Anguissola che consegnò la pirofregata “Veloce” ai piemontesi. Tale nave fu utilizzata dall’ammiraglio Persano per bombardare dal mare le truppe borboniche in Sicilia.

Seguirono il suo esempio i capitani di fregata Giovanni Vacca e Napoleone Scrugli. Quest’ultimo molto si adoperò nel passaggio delle navi napoletane alla flotta sabauda. In cambio Garibaldi lo nominò ministro della marina nel primo governo dittatoriale di Napoli. Inutile precisare che tutti questi “intrepidi” ufficiali passarono armi e bagagli nella marina savoiarda. Caustico, a tal riguardo, il giudizio di Cavour: “Non hanno saputo né servire il loro Re, né dichiararsi per la loro patria, hanno sino all’ultimo cercato di tenersi la via aperta per approfittare degli eventi qualunque essi fossero”. Né con la nuova casacca seppero dare prova di grande coraggio. Si pensi a Giovanni Vacca, di cui già abbiamo parlato, considerato assieme a Persano uno dei maggiori responsabili della disastrosa sconfitta navale di Lissa (20 luglio 1866). Non è cambiando il terreno di gioco, evidentemente, che si acquistano valore ed ardimento. Voglio concludere questa veloce disamina prendendo in prestito le parole di Gigi Di Fiore, autore di un bel libro sui “fatti e misfatti del Risorgimento”. Egli così scrive riferendosi agli ufficiali napoletani: “Incapaci, forse pavidi, altri probabilmente corrotti. Di certo molti furono solo cinici calcolatori. Scelsero per opportunismo, quando le cose stavano cambiando. Per preservare anche con i Savoia i privilegi acquisiti con il re Borbone. Qualcuno si suicidò; altri, passati con l’esercito piemontese poi italiano, furono umiliati, guardati con diffidenza e messi subito in pensione”.

Su di loro pesava come un macigno l’onta indelebile del tradimento.

Pasquale Peluso