Croce e l’ottimismo della ragione
4 Novembre 2023
Nel 1938, in piena tempesta nazi-fascista, il filosofo era proiettato verso la ricostruzione
Benedetto Croce pubblicò il suo libro La storia come pensiero e come azione nel 1938, quando il fascismo era al potere in Italia ormai da sedici anni, e il nazismo a sua volta aveva dato vita al Terzo Reich in Germania cinque anni prima. La ristampa che l’editore Laterza ha fatto recentemente di questo importante libro ci permette di ricostruire i pensieri del grande filosofo liberale in quegli anni difficili, quando la libertà sembrava scomparsa per sempre dalla vita politica di gran parte d’Europa.
L’animo di Croce non era però di abbattimento e di disperato pessimismo, poiché egli restava fermo nella sua convinzione che l’attività umana non può essere se non progresso, e che di decadenza si può parlare solo relativamente, cioè solo come un momento che prepara nuovo progresso. Può sembrare superfluo, diceva Croce, ma non è, insistere su questo punto: che «la storia si scrive del positivo e non del negativo, di quel che l’uomo fa e non di quel che patisce». L’uomo «combatte credenze e tendenze avverse, le vince, le sottomette»; «e lo storico non perde mai di vista l’opera che si vien formando tra questi ostacoli»; e «anche quando quell’opera ha compiuto il suo ciclo vitale e decade e muore, egli appunta l’occhio non sulla decadenza e sulla morte, ma sulla nuova opera che in quella decadenza si prepara e già vi germoglia e crescerà in avvenire e darà frutti». Se si guarda solo alla decadenza, non si comprende nulla della storia. La decadenza di Roma si è cinta «di mistero, nonostante che così a lungo e così variamente se ne fossero ricercate le cause; e mistero rimane e rimarrà fin tanto che non si discacci quel fantasma della decadenza», e non «si sostituisca al soggetto storiografico dell’Impero decadente, l’altro soggetto, la società e civiltà cristiana che nasceva e cresceva». «Anche si parla della necessità di far larga parte all’irrazionale nella storia», ma, diceva Croce, l’irrazionale non è un elemento della storia e della realtà, bensì è solo «l’ombra che il razionale stesso proietta, la faccia negativa della sua realtà, intelligibile e rappresentabile solo in quanto si rappresenta e s’intende questa».
La storia appariva dunque a Croce come una successione di epoche, nella quale ciascuna periva per non essere riuscita a dare risposte soddisfacenti ai problemi che essa stessa aveva creato, alla crescita che essa stessa aveva prodotto. Ma ogni epoca trasmetteva a quella successiva, insieme ai problemi insoluti, le proprie conquiste e le proprie realizzazioni, e l’epoca che ereditava quelle conquiste e quelle realizzazioni, mentre dava soluzione ai problemi insoluti, ne creava di nuovi, corrispondenti a nuove conquiste e a nuove realizzazioni, che sarebbero poi passate in eredità all’epoca successiva. La storia era dunque un morire-rinascere, un divenire in cui nulla andava perduto, e la civiltà concresceva su se stessa, accumulando le proprie creazioni e foggiando forme sempre nuove per creazioni sempre superiori.
Così, all’esempio spesso addotto della fine della grande civiltà greco-romana, cui seguì la barbarie del Medioevo, bisognava ribattere, diceva Croce, che «la civiltà antica; in quel che ebbe di veramente reale, non morì, ma si trasmise come pensiero, istituzioni, e persino come attitudini acquisite», sicché, a veder bene, quello che morì di quella civiltà fu solo quanto ebbe di irreale, cioè le sue contraddizioni, per esempio la sua incapacità di trovare forme politiche ed economiche rispondenti alle mutate condizioni della società. Allo stesso modo il Medioevo, che in parte fu sicuramente progresso, perché risolse problemi che la civiltà antica ava lasciato insoluti, ne pose altri che non risolse, e che furono risolti nei secoli successivi. E se la posizione di questi nuovi problemi, in quanto distruggeva l’antico senza sostituirvi apparentemente nulla, «parve regresso, fu in realtà inizio di nuovo progresso».
Il quadro tracciato da Croce nel suo libro La storia come pensiero e come azione incominciò a incrinarsi vistosamente in alcuni scritti crociani del 1946, all’indomani della spaventosa tragedia della Seconda guerra mondiale e di fronte al profilarsi minaccioso del totalitarismo sovietico. Infatti, in un saggio intitolato La fine della civiltà, Croce iniziava con queste parole: «Nel corso e al termine sella seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea». E che cosa era questa fine della civiltà che molti temevano come possibile o addirittura prossima? Era, rispondeva Croce, «non l’elevamento ma la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie, che ha luogo quando gli spiriti inferiori e barbarici, che, pur tenuti a freno, sono in ogni società civile, riprendono vigore e, in ultimo, preponderanza e signori».
Nel 1946 Croce scrisse un altro saggio: L’Anticristo che è in noi. Che cosa intendeva il filosofo napoletano con questa espressione? Intendeva «l’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione». L’Anticristo preparava una età di «impoverimento», di «imbarbarimento», di «inselvatichimento», di «ora aperto ora represso e fremente bellum omnium contra omnes». Si tratta, come si vede, di espressioni assai crude, un tempo inconcepibili sotto la penna di Croce.
Sul fatto che la minaccia dell’Anticristo contro il Cristo si fosse levata, Croce non aveva dubbi. Ne erano chiari segni il «totalitarismo», il «partito unico», l’«obbedienza al partito», che, pur caduti il fascismo e il nazionalsocialismo, continuavano a operare in vaste regioni d’Europa e del mondo. Egli affermava: «le conseguenze pratiche di questo processo si osservano nei casi dei nostri giorni: nella durezza che si versa in crudeltà o addirittura in morbosa ferocia contro quelli che sono stati avversari od ostacoli; nella generale indifferenza con la quale si assiste allo schiacciamento di nazioni e di stati e al divellimento d’intere popolazioni dalle loro sedi tradizionali e secolari». Si era entrati nuovamente, insomma, in una età «di varia decadenza e corruttela e imbarbarimento», dopo quella già vissuta durante la Seconda guerra mondiale; in una età che non poteva essere definita di progresso e di civiltà. La vita dello Spirito sembrava come sospesa, anzi spezzata, sull’orlo di un baratro pronto a inghiottire di nuovo il mondo civile.
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