La nostra storia
di Dino Messina
Conquista o liberazione del Sud? La guerra civile per il Mezzogiorno come problema storiografico
9 GIUGNO 2019 di Eugenio Di Rienzo
In coincidenza con il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia si è assistito a un fiorire di studi sulla conquista e/o liberazione del Sud che trova oggi il traguardo e il punto di svolta nei confronti della precedente storiografia nel volume di Carmine Pinto, “La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870” (Laterza Editore), Si tratta di un’opera di largo prospettiva, solida, informatissima, frutto di un lungo e faticoso lavoro di scavo archivistico, messo al servizio di una tesi forte, convincente, in grado di ridurre al silenzio tanto la vulgata neoborbonica quanto quella neosabauda che, formatesi immediatamente dopo la fatidica data del 17 marzo 1861, ancora oggi costituiscono la communis opinio su questo drammatico tornante della storia del nostro Paese.
Già nel settembre del 1862, infatti, il letterato francese Maxime Du Camp, pubblicava sulla «Revue des Deux Mondes», un lungo saggio intitolato Naples et la société napolitaine sous le roi Victor-Emmanuel, dove si forniva un ritratto ottimista e rassicurante della situazione politica che regnava a Napoli, nonostante la permanenza di mali antichi non ancora sanati come quello rappresentato dalla miseria delle masse, dalla proliferazione della criminalità comune e dalla pervasiva e opprimente presenza della camorra. Eppure, nonostante tutto ciò, sosteneva Du Camp nella loro stragrande maggioranza, i Napoletani, come progressivamente stavano facendo gli altri abitanti del Mezzogiorno, dopo aver visto cessare i contrasti tra i sostenitori di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II e tra questi e i poco numerosi nostalgici fautori di un ritorno di Francesco II, non nutrivano nessuna ostilità verso il nuovo regime. I cittadini dell’antica colonia greca si erano rassegnati, invece, persino a tollerare di buon animo «la riduzione della loro capitale, che era la terza città d’Europa in ordine d’importanza, a semplice capoluogo di prefettura», in cambio delle promesse del governo italiano di operare miglioramenti decisivi nel campo dell’istruzione, della sanità, della lotta contro il pauperismo, del potenziamento delle attività produttive, dei miglioramenti urbanistici.
A detta di Du Camp, quindi, grazie al sacrificio di un gretto orgoglio municipale, l’ordine regnava finalmente a Napoli e nelle province del Sud. Era certamente un’affermazione troppo ottimistica che sarebbe stata contraddetta, dopo pochi mesi, dal drammatico reportage stilato dal molisano Francesco Durelli. Nel Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell’anno 1862, dato alle stampe nel gennaio 1863, si sosteneva che l’intero Meridione, dai confini del Lazio, agli Abruzzi, alla Campania, alla Puglia, alla Basilicata, alla Calabria, era sconvolto dalla feroce e indiscriminata «reazione» contro il movimento anti-unitario, scatenata dal governo di Torino, «oramai divenuta guerra civile, per le sue proporzioni e per il suo innegabile carattere politico, perché è sempre di carattere politico quello che muove molti uomini a combattere disperatamente un principio governativo ritenuto illegittimo e sopraffattore».
Il conflitto intestino era stato artatamente ribattezzato dal Parlamento subalpino con l’epiteto di «grande brigantaggio». E tacendo sul fatto che l’insorgenza era stata provocata «dall’inestinguibile sentimento per l’autonomia delle popolazioni sollevatesi per riacquistare la loro indipendenza», a quel sollevamento si era risposto con «le esorbitanze nei provvedimenti repressivi, lo Stato d’assedio, le prepotenze governative, le atrocità contro i civili, la persecuzione dei semplici sospetti». Queste misure avevano trasformato i domini di Francesco II in «una terra desolata, preda all’anarchia», dove «l’abbandono delle colture e dei pascoli, il blocco delle industrie, il ristagno delle operazioni commerciali hanno accresciuto la miseria dovunque, togliendo i mezzi di guadagno a una moltitudine infinita di persone».
Molto indicativo a questo riguardo, all’interno del grande dibattito sviluppatosi nel Parlamento britannico sulla «questione napoletana», era stato il discorso di John Pope Hennessy del 4 marzo 1861. Nel suo intervento il deputato faceva osservare che, dopo l’avvento del primo ministero Palmerston, il ministro degli Esteri, George William Villiers, aveva «senza il minimo pretesto, attaccato ripetutamente il governo pontificio e l’amministrazione del re di Napoli, già prima del congresso di Parigi del 1856, in modo da invitare i loro sudditi alla rivolta», aggiungendo che il solo fine di quest’offensiva diplomatica era stato quello di preparare la strada alla conquista piemontese della Penisola.
L’ultimo atto di questa strategia di aperto favoreggiamento alle mire espansionistiche dei Savoia era avvenuto nel 1860, quando la flotta britannica, dopo aver favorito l’approdo dei Mille in Sicilia, aveva tacitamente protetto i convogli che dalla Liguria trasportavano i rinforzi dei «bucanieri stranieri» (molti italiani ma anche più di 2000 tra inglesi e ungheresi, insieme a centinaia di svizzeri, francesi, belgi, polacchi, russi), destinati a ingrossare le bande degli insorti. Non sempre e mai in maniera massiccia, i corpi franchi garibaldini avevano potuto contare, infatti, sull’afflusso di combattenti regnicoli anche nel momento del loro massimo incremento numerico. Come scriveva, infatti, il generale Enrico Cialdini, nelle comunicazioni inviate a Torino subito dopo l’ingresso delle sue truppe in Molise, «mentre il re di Napoli aveva formato un corpo di volontari tra la sua gente, reclutando migliaia di volontari, solo alcune centinaia di napoletani si erano uniti all’armata guidata dal generale Garibaldi».
Proprio il lealismo dimostrato dai reparti borbonici e dalla popolazione civile, in gran parte restati fedeli alla vecchia dinastia, continuava Hennessy, aveva scatenato, la furiosa repressione del corpo di spedizione piemontese che si era macchiato di crimini contro l’umanità ben più efferati di quelli che l’opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede. Solo grazie al pugno di ferro dei generali del Re di Sardegna l’Italia aveva messo insieme i suoi pezzi, mentre l’Europa aveva assistito esterrefatta allo scandalo dell’annessione giustificata dalla beffa del Plebiscito, alla cui correttezza il ministero Palmerston aveva fatto finta di credere con grande ipocrisia, «sebbene la maggioranza dei fedeli sudditi di Francesco II non avesse preso parte al voto o fosse stata costretta a vederlo falsificato da brogli, intimidazioni e violenze che avevano snaturato il verdetto delle urne».
Da tutto questo era nato il cosiddetto fenomeno del «brigantaggio politico», che non poteva definirsi, come proprio quest’ambigua espressione (poi ripresa passivamente dalla storiografia risorgimentista) dimostrava, un episodio di criminalità comune né un evento scaturito dal conflitto di classe, ma che invece rappresentava una vasta e capillare insurrezione contro un cambio di regime che fu percepito dai più come il prodotto di un’invasione straniera. Quel fenomeno di resistenza fu, infatti, un movimento di massa, dove militavano, insieme a nuclei di veri e propri fuorilegge e a formazioni di «foreign fighters» reclutati tra le fila dell’«internazionale legittimista», masse contadine, quadri intellettuali, borghesia urbana, reparti del disciolto esercito borbonico, volontari provenienti dal partito liberale antiunitario napoletano e persino numerosi garibaldini delusi.
Si trattò, dunque, di un movimento che può essere analizzato correttamente solo a patto di evidenziarne le caratteristiche di mobilitazione politica e di non celarne la fisionomia di «guerra civile italiana». Di un movimento, infine, che deve essere letto anche ma non esclusivamente, come avrebbe suggerito Gino Doria nel 1931, come fase culminante del conflitto, insorto nel 1799 e riacutizzatosi nel 1848 all’interno della borghesia meridionale, tra «galantuomini legittimisti» e «galantuomini liberali», per l’acquisizione di margini di potere economico e politico, dove l’opportunismo, il calcolo degli interessi, le antiche rivalità di municipio, di clan e di fazione prevalsero, molto spesso, sulle motivazioni ideali.
Che l’idea della Nazione napoletana, l’attaccamento a essa, la sincera voluttà di difenderla «contro un urto esterno, sia pure dall’urto di una forza italiana» (Benedetto Croce), con un’azione armata non siano state soltanto il frutto della propaganda degli ultimi, irriducibili borbonici, ma che tutto ciò avesse costituito, invece, la scaturigine di un sentimento presente anche negli ambienti più consapevoli dell’amministrazione, dell’esercito, della società civile meridionale è tesi convalidata da molte risultanze fattuali. L’esistenza di quel radicato sentimento di appartenenza, fu riconosciuta da Manfredo Fanti, ministro della Guerra e della Marina nel terzo gabinetto Cavour, quando, nell’aprile 1861, illustrava le «potenti ragioni» della «vera massa degli ufficiali borbonici, quelli cioè che resistettero fino in ultimo». Essi, infatti, erano membri di un esercito che «eccettuate le poche truppe straniere, si componeva di elementi nazionali», i quali, dopo essersi opposti valorosamente alle armate garibaldine sul Volturno, giustificarono la loro condotta, adducendo il necessario tributo al giuramento di fedeltà che li legava indissolubilmente non soltanto al loro legittimo sovrano ma anche e soprattutto al «governo nazionale napoletano riconosciuto in tutta Europa».
Certo è giusto sostenere, come suggerisce Carmine Pinto, che la valorizzazione dell’idea di Nazione napoletana, dopo il 1860, fu soprattutto una risposta allo «squagliamento» del Regno dettata dalla necessità di fornire un sostegno ideologico alla lunga insorgenza anti-unitaria che si protrasse fino al 1870. Altrettanto giusto, però, è mettere in luce che tale valorizzazione raggiunse momenti di autentica consapevolezza politica nelle opere di Ludovico Bianchini, del duca di Lauria, Pietro Calà Ulloa, di Tommaso Cava, Michele de Sangro, e in quelle di Enrico Cenni, Federico Persico, Giacomo Savarese, Ferdinando Malvica, Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino, duca di Maddaloni, i quali, pur aderendo al regime unitario, o piuttosto subendolo, ne criticarono l’inadeguatezza, le ingiustizie, le sopraffazioni, le crudeltà gratuite nel reggimento delle province meridionali.
Paradigmatico fu proprio il caso del duca di Maddaloni, un uomo del 1848, che dopo il lungo esilio protrattosi dal 1849 al 1857, ritornato a Napoli, accolse entusiasticamente la rivoluzione nazionale del 1860, aderendo con convinzione al nuovo regime. Eletto deputato del Regno d’Italia tra le fila della Destra, il nobile napoletano presentava, però, il 20 novembre del 1861, alla Camera una mozione d’inchiesta che costituiva un feroce atto di accusa contro il governo di Cavour e di Ricasoli. Al rifiuto degli uffici di Presidenza di pubblicare il testo dell’intervento negli atti parlamentari, Francesco Proto si dimise dalla carica, proseguì la sua opera di denuncia con un’intensa attività pubblicistica, e divenne, infine, uno dei più attivi elementi di raccordo dei vari comitati borbonici operanti in Italia e in Europa.
Le ragioni della repentina trasformazione da fervente patriota unitario ad attivo agente della causa borbonica si leggono bene nel testo dell’interpellanza, stampata a Nizza e a Firenze nel 1861, e poi tradotta in francese, dove il duca si esprimeva con fermezza sulla tragica situazione del Mezzogiorno sottoposto al duro giogo del governo sabaudo. Le critiche contro il malgoverno piemontese nel Sud erano state anticipate da Proto nell’opuscolo dell’aprile 1861, Delle cose di Napoli, dove si leggeva:
Non vi ha solo borbonici a Napoli, vi ha piuttosto autonomisti e questi bisognava convertire. E se ciò fosse stato, li avreste visti in un subito aggrapparsi tutti al governo piemontese e in questo modo si sarebbe installato il vascello dell’italiana unità che non può salvarsi dal naufragio se non afferrandosi alle rive del meridione. Così non è stato, purtroppo. Gravi errori, pessime opere vennero, infatti, commessi fra noi da politici improvvisati, collusi con il sistema di terrore della Camorra; ma ancorché il governo per il quale quelle province sono afflitte, migliore divenisse che quello sognato da Platone, esso non saprà mai contentare quei popoli quando, lontano da essi, esso parrà sempre giogo straniero. E in questo modo il nome del passato regime tornerà di continuo a essere motivo di rimpianto per i Napoletani non altrimenti che il nome e le virtù del morto marito sono di arma alla vedova per travagliare il secondo consorte. Vi son dunque ancora degli scettici e pur anco dei borbonici a Napoli, ma questi bisogna convertire non col fuoco del Santo Uffizio ma con quello della fraterna carità. I popoli si vincono meglio con le carezze che con le percosse, e la polvere e il piombo piemontesi hanno il colore stesso e l’odore della polvere e del piombo borbonici, né con meno triste animo si entra in una prigione perché un vessillo tricolore vi sventoli in sommo al posto dello stendardo bianco della vecchia dinastia.
Importante è ricordare che il pamphlet di Proto si apriva con un’affettuosa dedica a Giuseppe Massari. E ciò avveniva con l’obiettivo di impetrare, per porre rimedio ai tanti mali da cui il Mezzogiorno era afflitto, l’intervento di chi era divenuto, dopo il 1849, il capofila dell’emigrazione meridionale in Piemonte. Massari, divenuto tra 1858 e 1859 uno dei più attivi collaboratori di Cavour sulla scena diplomatica internazionale, era stato poi inviato dallo statista piemontese a Napoli nell’ottobre 1860 per riferire sullo spirito pubblico di una città che gli era parsa subito di difficile integrazione nell’edificio unitario a causa dell’attaccamento del ceto dirigente all’antico regime e per la quale Massari auspicava, per accelerarne l’italianizzazione, una «grossa invasione di moralità piemontese» e l’introduzione immediata di un «governo forte e spietato, alla bisogna, nelle necessarie misure di repressione».
Il duca di Maddaloni aveva, dunque, sbagliato i suoi calcoli. Il 3 maggio 1863, infatti, Massari avrebbe presentato alla Camera la Relazione, da lui redatta come Segretario della Commissione d’inchiesta parlamentare sul brigantaggio, istituita il 16 dicembre 1862. Commissione presieduta da Giuseppe Sirtori, nella quale erano presenti altri esponenti di spicco del mondo garibaldino: Nino Bixio, Romeo Stefano Castagnola, Antonio Ciccone, Achille Argentino, Donato Moretti, Antonio Mosca, Aurelio Saffi. La Relazione sposava le stesse conclusioni, esposte da Massari nel suo intervento parlamentare del 2 dicembre 1861, dove il brigantaggio veniva considerato «un malanno essenzialmente e prettamente sociale», privo di «alcuna relazione con la politica», la cui causa andava individuata nel lungo malgoverno borbonico, nella cospirazione anti-italiana di Pio IX, di Francesco II e dei suoi accoliti e «nella miseria dei contadini senza terra, in condizioni di vita talmente degradate da rendere preferibile l’adesione alla guerra dei briganti».
Formulando quest’assioma indimostrato, Massari sollevava il governo di Torino da ogni responsabilità per la genesi dell’insorgenza anti-unitaria, escludendo a priori il movente politico causato dall’opposizione delle popolazioni meridionali a un’«unificazione» imposta loro forzosamente e non fatta accettare grazie a una strategia di acquisizione del consenso che avrebbe dovuto avere larghe ricadute sul piano politico, economico, istituzionale. Fu questo lo stratagemma usato per liquidare la «questione napoletana», senza risolverla, anche sul piano dell’analisi storica, per i 150 anni a venire. Di conseguenza, la mancata assunzione di questo tema a dignità di «problema storiografico» ne ha decretato, fino al volume di Carmine Pinto, la consegna all’oblio, il fraintendimento tendenzioso, la mistificazione e peggio la segregazione nel ghetto del rancore passionale e dell’astiosa recriminazione «suddista» che hanno trovato e trovano, oggi più di ieri, il loro terreno di coltura in un’Italia ancora drammaticamente «tagliata in due».
http://lanostrastoria.corriere.it/2019/06/09/conquista-o-liberazione-del-sud-la-guerra-civile-per-il-mezzogiorno-come-problema-storiografico/