LE CONDIZIONI DEL MEZZOGIORNO A FINE OTTOCENTO VISTE DAL MERIDIONALISTA LUCANO ETTORE CICCOTTI
di Michele Eugenio Di Carlo*
Sulle condizioni del Mezzogiorno di fine Ottocento Ettore Ciccotti, meridionalista potentino, scrive e pubblica nel 1898 “Mezzogiorno e Settentrione d’Italia” , ripreso nel 1904 nel testo “Sulla questione meridionale. Scritti e discorsi” , pubblicato a Milano.
Ormai libero mentalmente dai miti risorgimentali che avevano contrassegnato e condizionato la sua adolescenza, Ciccotti affronta criticamente il meridionalismo liberale moderato che si era affidato al falso “mito del buongoverno” e alle buone intenzioni del ceto dominante agrario, mai pervenute nella realtà. I conflitti sociali erano tali da individuare per le maltrattate classi popolari una soluzione solo nella contrapposizione frontale tra il capitalismo e il meridionalismo socialista.
Lo storico lucano esamina le problematiche di un Mezzogiorno che presenta un’agricoltura poco intensiva, un commercio e uno sviluppo industriale poco rilevanti, una società ancora classista, basata sul parassitismo di grandi proprietari terrieri assenteisti che inevitabilmente degenera, quasi a completarsi, nella presenza di organizzazioni camorristiche e mafiose, nella corruttela e nel malcostume. Un secolo di proposte e di parole non avevano risolto la divisione dei demani e dei latifondi, al fine di costituire una piccola proprietà contadina che desse spiragli di sussistenza e miglioramento delle condizioni di vita alle masse contadine, costrette «a cercare scampo e sussistenza, con l’emigrazione, oltre l’Oceano» .
I villaggi, tristemente appesi a una “cresta”, tra un latifondo e l’altro, erano «estranei tra loro», tanto che, distanti pochi chilometri, già mutava sensibilmente il dialetto. Con abitanti che, nelle aree costiere erano «resi torpidi dalla malaria» e «gelosi delle loro donne di una gelosia di mori», mentre nelle aree interne «arditi e pronti dall’aria alpestre» erano disponibili a mercanteggiare persino «il jus primae noctis per fare il corredo alle figliuole». Villaggi formati di tuguri, quasi tane, raccolti intorno «alle case dei grossi possidenti del paese», abitati da una «gran massa plebea schiava del bisogno, schiava dell’ignoranza», che non aveva voce, mentre i pochi popolani che avevano il diritto al voto, lo svendevano al servizio della «classe da cui, direttamente o indirettamente» dipendevano .
Ciccotti vede il Mezzogiorno come una terra in cui le «grandi manifestazioni intellettuali» sono personali, «prive di continuità, in contrasto col presente e con l’ambiente, e divinatrici dell’avvenire»; non a caso, qualche anno dopo, Antonio Gramsci avrebbe ritenuto Giustino Fortunato e Benedetto Croce grandi intellettuali sempre troppo attenti a che l’«impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria» .
Il processo unitario nel Mezzogiorno era stato lento, poco efficace. Quasi a giustificarsi del suo giovanile patriottismo unitario Ciccotti scriveva: «Non sono io il primo a dire che l’unità d’Italia non si volse a benefizio della parte meridionale», mentre Milano aveva raddoppiato il numero degli abitanti, sottraendo pregiato capitale umano da ogni regione . Invece, il sud d’Italia, – come già avevano ampiamente anticipato economisti del calibro di Antonio De Viti De Marco e intellettuali del livello di Gaetano Salvemini, e come di lì a due anni avrebbe scritto Francesco Saverio Nitti in “Nord e Sud” -, aveva subito sotto i governi liberali sabaudi «imposte crescenti, la vendita dei beni ecclesiastici, l’ampliarsi del debito pubblico», oltre a un «un vero drenaggio di capitale» . E i capitali residui, sospeso ogni sviluppo industriale, non trovavano altra destinazione utile che finanziare il debito pubblico, essendo diventato l’impiego in agricoltura «in ogni modo meno remunerativo e soprattutto più incerto». Peraltro, la speculazione bancaria largheggiando nel credito aveva lasciato nel Mezzogiorno la «proprietà fondiaria gravata di un esorbitante debito ipotecario paralizzata nel presente, compromessa per un lungo avvenire» . Si era creata una massa disperata di debitori che, «sospesi tra la vita e la morte», inquinavano persino la vita politica, visto che erano costretti a votare «come il direttore della banca voleva, o come il governo voleva che questi volesse» e come non si era mai visto sotto i Borbone .
In una nota, scritta successivamente alla stesura del testo “Mezzogiorno e Settentrione d’Italia”, quando già era stata attuata, per ordine del presidente del Consiglio Antonio Starabba di Rudinì, la sanguinosa repressione militare dei moti nel maggio del 1898 a Milano, che l’autore aveva subito personalmente, Ciccotti sente nuovamente il bisogno di giustificare i robusti sentimenti patriottici e unitari che avevano caratterizzato l’ambiente in cui aveva vissuto la propria infanzia e adolescenza, scrivendo: «Io debbo chiedere ancora una volta perdono a’ Borboni se, parlando di tirannide, ho adoperato il loro nome come termine di paragone, a preferenza di ogni altro; ma mi ha tradito la lunga abitudine; e poi questo scritto, lo ripeto, è anteriore a certi altri avvenimenti recenti [gli eccidi e le condanne del 1898. Lo scritto è del marzo di questo anno] ». Condanne che lo avevano costretto all’esilio prima a Ginevra poi a Losanna.
Ciccotti prendeva atto, amaramente, che dal 1861 la classe politica del nuovo Regno d’Italia al potere aveva tentato con tutti i mezzi di impedire che le «classi popolari del Mezzogiorno s’avviassero a partecipare in qualche modo alla vita civile del loro paese»; ministri e parlamentari, badando a conservare il potere, avevano utilizzato deprecabili e untuose pratiche clientelari, innescando un processo di degenerazione morale del contesto sociale, politico, fino ad inquinare l’attività giudiziaria, tanto da far rimpiangere «la magistratura borbonica che, prona al principe in quanto concerneva la politica, si mostrava retta e imparziale – com’era interesse stesso del sovrano – nelle contese private». Un quadro civile così disgregato che pochi «furbi, potenti o violenti» riuscivano a organizzarsi e a prevalere in ambiti mafiosi, come in Sicilia, e camorristi, come in Campania.
La questione meridionale era stata affrontata da studiosi e intellettuali moderati e liberali (i “rassegnati”) con «abbondanza poco costosa di iperboli od epifonemi», che a «nulla approdavano né offendevano mai alcuno», mai andando «alla radice del male» .
L’attacco a Pasquale Villari, antesignano della questione meridionale con le sue “Lettere meridionali” del 1875 che Ciccotti definiva «sfoghi retorici», si faceva diretto e duro, anticipando persino lo strappo dai meridionalisti moderati di Gaetano Salvemini. Una critica che Ciccotti conduceva con argomentazioni validissime: l’intellettuale e storico napoletano «successivamente deputato, ministro e senatore» non aveva «saputo, né cercato di far nulla per eliminare o attenuare i mali deplorati» .
Lo storico lucano vedeva chiaramente nello sviluppo industriale del Nord, e nello stesso tempo nella sua carenza nel Mezzogiorno, l’origine delle devastanti condizioni economiche, oltre ai danni morali e culturali che le masse popolari subivano. Per Ciccotti, solo una nuova coscienza di classe delle masse popolari, congiunta a una lotta per il socialismo contro le forze capitalistiche del blocco agrario-industriale, poteva invertire la brutta rotta verso la quale era stato indirizzato il Mezzogiorno.
Rientrato in Italia dalla Svizzera grazie al mutato clima politico, causato dal passo avanti alle elezioni del 1900 dell’Estrema Sinistra, Ciccotti veniva eletto ad aprile in Parlamento, preferendo poi rappresentare Napoli nella sua prima rielezione. Nel 1901 ritornava in cattedra a Messina, avendo superato il concorso ordinario per l’insegnamento di Storia antica. In Parlamento si occuperà fattivamente della questione meridionale e delle particolari condizioni di arretratezza della Basilicata, fino a risultare tra i promotori della legge speciale del 1904 .
*promotore della rete meridionalista Carta di Venosa