C’era una volta il Lanificio borbonico che ritorna
Gigi Di Fiore
La nostra storia è fatta di tanti c’era una volta. Luoghi abbandonati, o devastati dall’incuria, spesso riescono a riportare alla memoria vicende e uomini del passato. Come il Lanificio in piazza De Nicola a Napoli, di fianco la chiesa di Santa Caterina a Formiello. L’unico residuo di grossa industria ancora visibile nel cuore cittadino.
Quello che c’era all’interno dell’ex chiostro della chiesa trasformato in fabbrica è immaginabile dai resti delle due alte ciminiere, dai lunghi corridoi dove venivano realizzate le varie fasi della produzione di lana e abiti. Ne uscivano in prevalenza divise dell’esercito del regno delle Due Sicilie. Un’attività che fu esempio di politica economica che qualcuno oggi riscopre, preoccupato dei danni e dei limiti del mercato globale: si trattava di un’industria protetta e agevolata dallo Stato con leggi, in grado di occupare 700 operai e produrre ottomila pezzi di panni.
Ne parlava già nel 1877 don Giuseppe Buttà nel suo “I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli”. Che, a proposito di re Francesco I che fu sul trono dal 1825 al 1830, scriveva: “La grande e utilissima opera che incoraggiò e protesse fu la fabbrica dei panni del Regno, impiantata dal cavaliere Raffaele Sava nell’abolito convento di Santa Caterina a Formello presso porta Capuana”.
Una famiglia di imprenditori che veniva da Amalfi erano i Sava, che fecero concorrenza alle industrie francesi utilizzando prestiti bancari e in parte manodopera di detenuti (anche oggi il lavoro di chi è in galera viene considerato strumento di reinserimento sociale). Al momento dell’unità d’Italia, il Lanificio occupava 600 operai, aveva due macchine a vapore per la produzione e fatturava qualcosa come un milione e 600mila lire.
Una realtà industriale nel centro di Napoli, che produceva le divise dell’esercito. Dopo il fondatore Raffaele, arrivarono i figli Salvatore e Francesco. Abitavano nell’area della fabbrica e gli appartamenti, in disfacimento, sono ancora visibili e acquistati dalla Regione che dovrà deciderne cosa farne. La fine dell’azienda, come tante attività industriali fiorite nell’ex regno borbonico attraverso una politica economica protezionista, arrivò con l’unità d’Italia.
E non perchè i Sava non avessero giurato per il regno d’Italia. Anzi. Ma perchè, dopo le commesse ricevute da due governi dittatoriali, dai governi successivi non arrivò il riconoscimento dei contratti firmati con lo Stato delle Due Sicilie. In più, non fu concesso di utilizzare ancora i detenuti tra gli operai. Fu la fine, con debiti bancari in crescita e la chiusura della produzione dal 1869. Dopo 44 anni di attività, il Lanificio chiuse nonostante le cause dei Sava allo Stato e al Demanio. E scrisse Buttà otto anni dopo: “Forniva castori di ottima qualità a tutto l’esercito napoletano con un’economia che oggi sembra favolosa. Ebbene, quella fabbrica, che potea dirsi orgoglio nazionale, subì le sorti di tutte le utili industrie del Regno. Essa cadde”.
Lasciamo stare il cappellano Buttà, che aveva militato nell’esercito borbonico. Resta, quel Lanificio con l’insegna d’epoca all’ingresso ancora visibile, un esempio di archeologia industriale. Dopo la chiusura, fu occupato da più attività artigianali che non ne ebbero rispetto. Il chiostro antico manca addirittura di una colonna, sventrata per far spazio alle auto. Una devastazione che una fondazione, “Made in cloister”, costituita da due imprenditori e un architetto, tutti napoletani, vuole riparare recuperando il Lanificio. Oggi l’apertura al pubblico delle prime parti restaurate, tra cui il chiostro, con una mostra dell’artista-musicista Laurie Anderson. Poi l’idea da portare avanti di una cittadella delle arti e dell’artigianato. La creatività ritorna in uno dei luoghi-esempio di produttività dello Stato delle Due Sicilie. Un pezzo di memoria cittadina che ritorna.