FASANO, Gabriele
Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 45 (1995)
di Maria Giuseppina Marotta
FASANO, Gabriele. – Figlio, probabilmente, di Alessandro e di Livia de Murena, nacque a Solofra (od. prov. di Avellino) nel 1645. Nulla si sa del suo corso di studi. Si sa, invece, per certo che svolse la redditizia attività di mercante di seta, che acquistava presso gli allora rinomati opifici di Cava dei Tirreni e della costiera amalfitana per rivenderla nelle varie regioni italiane. I viaggi connessi alla sua attività gli consentirono contatti con diversi ambienti culturali, primo fra tutti quello toscano.
Nei circoli culturali fu senz’altro introdotto dal celebre avvocato napoletano Francesco D’Andrea, cui lo legò lunga amicizia, consolidata dai frequenti viaggi compiuti assieme. Quasi sicuramente il F. lo accompagnò a Firenze nel dicembre 1671-gennaio 1672. Fu, verosimilmente, allora che il F., leggendo una delle prime redazioni del Bacco in Toscana di F. Redi (conosciuto tramite L. Magalotti, che era spesso a Napoli, ospite del fratello Alessandro), finse di offendersi dell’esclusione dei vini napoletani e lanciò la sfida: “Voglio fa’ veni’ Bacco a Posileco e le voglio fa’ vede’ che differenza nc’è tra li vini nuostri e li pisciazzielle de Toscana”. L’episodio, ricordato dal Redi nelle note alla terza edizione del Bacco (1691), non ebbe seguito, tuttavia, nell’annunciata composizione di un Bacco a Posileco da parte del Fasano.
Nelle successive sempre più ampie redazioni del Bacco Redi inserì dapprima la citazione del D’Andrea e poi anche quella del F., che allo scopo si era raccomandato al Magalotti (si veda la lettera del Redi al Magalotti del 15 febbr. 1685), e che è ricordato in un brano lungo ben ventisei versi (114-139) come il temerario sfidante di Bacco.
Nella citata edizione del Bacco in Toscana il F. è menzionato anche come il “celebre e leggiadro poeta che ha tradotto con galanteria spiritosissima la Gerusalemme del Tasso”. Nel 1689, infatti, dopo avervi lavorato alcuni anni, confortato dalla competenza di correttore letterario del Magalotti, oltre che dall’apprezzamento del Redi stesso (che aveva lodato “per vivezza, naturalezza di lingua e proprietà” il manoscritto del XVI canto, inviatogli nel gennaio 1686: si veda la lettera del Redi al Magalotti del 25 genn. 1686), il F. diede alle stampe Lo Tasso napoletano: zoè la Gierosalemme libberata de lo sio’ Torquato Tasso votata a llengua nosta da Grabiele Fasano de sta cetate, e dda lo stisso appresentata a la Ilostrissema nobeltà nnapoletana.
La traduzione fasaniana (la prima in dialetto napoletano ad avere un’edizione di lusso, impressa da Giacomo Raillard in folio, con venti preziose incisioni, grazie al finànziamento di aristocratici napoletani) s’inserisce nel vasto filone secentesco, cui particolarmente contribuirono autori napoletani, di quella che B. Croce chiamava “letteratura dialettale riflessa o d’arte”, una letteratura che non rappresenta la consacrazione letteraria di una spontanea tradizione popolare bensì un atteggiamento colto e curioso, che muove dalla tradizione toscana non per polemico antagonismo ma per una complessa esigenza di dilatazione delle possibilità espressive della lingua scritta: ansia dell’inedito e dello stupefacente (che diverrà audacia lessicale e metaforica più che novità di soggetti); orgogliosa fiducia nelle capacità artistiche del proprio dialetto; bisogno di corrispondere agli interessi di un pubblico di lettori più vasto e meno raffinato.
Tutto ciò si ritrova nel F., che, in particolare, pur aderendo al genere della parodia del romanzo eroico-cavalleresco, di remota ascendenza pulciana, ma riscoperto dal gusto barocco, non si pone nei confronti del modello negli stretti termini della rifacitura parodistica, ma è manifestamente interessato (come dimostra la stampa con testo originale a fronte) alla riscrittura linguistica. La stessa scelta della Gerusalemme, al di là della nascita sorrentina del Tasso e del fatto che l’imitazione di quel poema era una moda diffusa (si ricordi almeno la traduzione in bolognese di F. Negri), non nasce da un interesse specifico per l’argomento da parte del F. (che pure esorta genericamente Carlo II di Spagna a prendere le armi contro i Turchi), ma dall’intenzione di cimentarsi con un testo noto, per dedicare tutto il proprio impegno, e richiamare l’attenzione del lettore, alla sperimentazione linguistica.
Nella dedica ai nobili napoletani e nell’avviso al lettore il F. si dimostra del tutto consapevole dell’individualità inimitabile della singola lingua e del conseguente problema della traduzione, precisando che “ssi quarche bota songo juto fora via, è stato pe ppeglià no poco de decrio, ed è stato, perché quarche cchelleta nò me la poteva votà co ggrazia a Ilengua mia”.
Grande sollecitudine dell’autore è cercare una corretta grafia ed agevolare la pronuncia e la comprensione ai lettori forestieri. Discutibile, e di fatto criticata da lettori illustri come F. Galiani e come il Croce, la grossolana ortografia, risolta in ingiustificato abuso di elisioni, accenti circonflessi, raddoppiamenti fonosintattici. Talvolta incomprensibile anche il criterio con cui sono redatte le “schiarefecaziune” a pié di pagina, che, ad esempio, spiegano l’espressione “di carrera” (in fretta) ma non il termine “secozzune” (sberle). A tuttavia notevole lo sforzo di rivolgersi a lettori non napoletani, approntando, con quelle note, un tentativo di vocabolario, che sarà in-iitato poco più tardi dall’amico N. Stigliola nella traduzione dell’Eneide (1699).
Per quanto attiene al livello artistico, l’arbitraria e prevalente identificazione di dialettale con comico, e di comico con coprolalico e, talvolta osceno, spoglia assai di frequente il poema della sua tragica spiritualità, mortifica la nobile impresa ad avventura di guappi, depaupera i personaggi a creature che hanno quasi soltanto bisogni fisiologici e si esprimono, anche la timida Erminia, con linguaggio da caserma. Il superficiale barocchismo del F., come già quello di G. B. Basile incapace di toni drammatici e d’introspezione psicologica (tranne l’intenso lamento di Armida abbandonata), si riscatta, però, in una grande sensibilità verso la natura, come nella descrizione del giardino di Armida (XVI, 8-16) o nei due notturni (II, 96; XIV, 1), in cui il poeta gareggia egregiamente con Tasso, aiutato dalle ricche tonalità del dialetto partenopeo.
Il pregio originale dell’opera è l’essere una sorta di enciclopedia della napoletanità festosa e popolaresca; le siinilitudini del testo e gli aneddoti delle note portano sulla pagina luoghi, personaggi, ricette gastronomiche, proverbi, giochi di strada: “spaccatrommola” (gioco con la trottola), il brigante Marco Sciarra, la mozzarella, il torrone, la “rotella” (girandola pirotecnica), la “zorfatara”, la scapece, il giullare Pasquerello Spaccamonte, porta Capuana, via della Carità, il Mandrone, Trinità di Cava. Non mancano le citazioni d’obbligo dei nobili protettori, dal D’Andrea a Carlo Andrea Caracciolo, da Emanuele Carafa a Geronimo della Corte a Giuseppe Donzelli; e il Redi diviene il sapiente per antonomasia: di un personaggio, infatti, il F. dice: “Chillo è no Rede nquanto a lo sapere” (XIV, 31).
Il F. fu anche autore di un sonetto in napoletano in lode di Giovanni Battista Palo, pubblicato nell’opera di questo Descrizione della Terra di Palo (Napoli 1681).
Negli ultimi anni, prima della morte sopraggiunta a Vietri sul Mare, il F. visse a Napoli nel vico Severini, di fronte alla casa di Francesco e Carlo Garofalo, celebri collezionisti di antichità. Era ancora vivo nel 1692, secondo quel che ricorda il canonico Carlo Celano, revisore del Tasso napoletano, e già morto nel 1699, quando Domenico Antonio Parrino pubblicava l’Eneide del citato Stigliola, scrivendo nella prefazione che l’autore ne aveva mostrato alcune ottave al “Fasano di immortale memoria”.
Una nuova edizione del Tasso napoletano, con dedica ad Aurora Sanseverino, duchessa di Laurenzano, fu curata nel 1706 da M. L. Muzio, in 12º, senza testo a fronte e con semplificazione dell’ortografia. Una ristampa dell’edizione del 1689 uscì nel 1720 presso F. Ricciardi, con dedica ad Ignazio Barretta, duca di Casalicchio. Nel 1786 G. M. Porcelli pubblicò una nuova edizione nei volumi XIII e XIV della sua collezione di autori napoletani. Infine, la Società filomatica napoletana ne curò nel 1835 un’edizione in due volumetti.
J. E. Taylor, che tradusse in inglese con l’aiuto di G. Rossetti trenta fiabe del Cunto de li cunti del Basile, si valse delle note lessicografiche del Tasso del Fasano.
Fonti e Bibl.: F. Redi, Bacco in Toscana, Firenze 1691, pp. 6 s., 20 s.; Id., Lettere, Firenze 1795, pp. 311 s., 316 s.; C. Celano, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli 1692, IV, p. 61; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna 1739, p. 213; A. Fabroni, Vitae Italorum…, Pisis 1779, p. 248; F. Galiani, Del dialetto napoletano [1779], a cura di F. Nicolini, Napoli 1923, pp. 36-43, 180, 254-260, 262 s.; P. Martorana, Notizie biogr. e bibl. degli scrittori del dialetto napolitano, Napoli 1874, pp. 189 s., 412, 434; G. Imbert, Il Bacco in Toscana di F. Redi e la poesia ditirambica, Città di Castello 1890, pp. 33 s., 87, 113; B. Croce, Saggi sulla lett. ital. del Seicento, Bari 1911, p. 89; Id., Nuovi saggi sulla lett. ital. del Seicento, Bari 1931, pp. 251-253.