BASILE Giambattista
Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 7 (1970) di Alberto Asor-Rosa
BASILE Giambattista. – Nacque a Giugliano in Campania nel 1566, come risulta dal Libro I dei battezzati della parrocchia di S. Nicola in cui è riportata la data del 15 febbraio di quell’anno, sebbene Benedetto Croce ne collochi i natali a Napoli nel 1575. I primi anni della sua vita sono oscuri. Raggiunta la giovinezza, lasciò il suo luogo natale probabilmente per motivi economici, peregrinando in Italia per un numero imprecisato di anni. A Venezia si arruolò soldato ai servigi della Serenissima e fu inviato insieme con il suo reggimento nell’isola di Candia, allora minacciata dai Turchi. Nella colonia veneta di questa città, ricca di famiglie illustri e facoltose, il B. trovò modo di far apprezzare per la prima volta le sue qualità letterarie e fu accolto nell’Accademia degli Stravaganti, fondata da Andrea Cornaro. Nell’estate del 1607 partecipò a una campagna navale della Repubblica di Venezia, servendo su una delle navi della flotta comandata da Giovanni Bembo. Quando la flotta si sciolse, il B., compiuti i suoi doveri nei confronti della Repubblica, decise di rientrare nella città natale (1608); da lì fu attirato a Napoli nell’orbita della sorella Adriana, divenuta nel frattempo famosissima cantatrice, e in quegli anni ospite onorata e ammirata presso la corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano. Dalla sorella e dal marito di lei, Muzio Baroni, gentiluomo calabrese, il B. ricevette una protezione estremamente cordiale e costante, che si perpetuerà sin dopo la morte, attraverso testimonianze di affetto e di riverenza.
Quando Adriana si trasferì a Mantova presso il duca Vincenzo Gonzaga, fece in modo che di lì a qualche anno il fratello la seguisse, rendendolo partecipe degli alti onori di cui era gratificata. Ma il soggiorno del B. a Mantova durò pochi mesi fra il 1612 e il 1613: il suo rapido ritorno a Napoli fu forse dovuto questa volta alle sue condizioni di salute.
Negli anni che vanno dal 1608 al 1613 il B. si era intanto creato per suo conto una piccola ma solida fama di poeta. La sua prima produzione in lingua è rappresentata dal poemetto Il pianto della Vergine (imitazione delle Lagrime di S. Pietro del Tansillo), apparso a Napoli nel 1608. Seguì un volumetto di Madriali et ode (Napoli 1609), quasi tutti di argomento celebrativo ed encomiastico. Poi, Le avventurose disavventure (Napoli 1611), favola marittima, in cui i vecchi schemi della favola pastorale e boschereccia vengono allargati a motivi e ambienti marinari, secondo un modello già entrato nella tradizione, particolarmente a Napoli. Del 1612 sono le Egloghe amorose e lugubri e la Venere addolorata, dramma per musica in cinque atti (ambedue stampate a Napoli). Nel 1613, a Mantova, il B. ripubblicò tutte Le opere poetiche, fin allora apparse, aggiungendo ai Madriali et ode una terza parte, dedicata al Gonzaga.
La poesia in lingua è trattata dal B. con un’integrale adesione ai modi della lirica letteraria. Se si escludono Le avventurose disavventure, che, pur nell’imitazione, riescono ad esprimere alcunché di fresco e di vivace, si potrebbe dire che il rispetto delle formule, delle regole e dei generi sfiora in questo primo B. il pedantesco e lo scolastico. Gli è che in lui, più ancora che la ripresa di atteggiamenti marinistici ovvero prettamente barocchi, si manifesta durante questa fase la stanca continuazione di motivi tardo-rinascimentali, con particolare riferimento all’ambiente napoletano e meridionale (già è stato fatto il nome del Tansillo). Il legame con taluni aspetti della lirica cinquecentesca è testimoniato altresì dalle cure che egli dedicò all’edizione di testi noti e meno noti di quel periodo: Rime di M. Pietro Bembo degli errori di tutte le altre impressioni purgate, aggiuntevi le osservazioni, le varietà dei testi e la tavola di tutte le desinenze delle rime, del cavalier G. B. B., Napoli 1616; Rime di M. Giovanni della Casa, riscontrate coi migliori originali e ricorrette, ibid. 1617; Osservationi intorno alle rime del Bembo e del Casa con la tavola delle desinenze delle rime e con la varietà dei testi nelle rime del Bembo, ibid. 1618. Al B. si deve inoltre la prima edizione delle Rime di Galeazzo di Tarsia, ibid. 1617.
Intorno al 1618 la produzione in lingua del B., fin qui molto copiosa, s’impoverisce. Le sue cure si volgono verso nuovi interessi. Il B. pubblica ancora (Napoli 1617) la terza parte De’ madriali et delle ode. Altre cose egli verrà presentando di tanto in tanto: ma si tratterà, generalmente, di componimenti d’occasione, oppure, più di rado, di opere d’ispirazione più chiaramente marinistica, che accompagnano parallelamente la creazione dialettale senza confondersi con essa.
A Napoli il B. riprese le sue funzioni di cortigiano e di amministratore, venendo incaricato ora dai viceré spagnoli ora dai signori del luogo di reggere questo o quel comune della provincia. Nel 1615 si trovava per svolgere un incarico del genere a Montemarano, in provincia di Avellino. Nel 1617 era in Zuncoli, al seguito del marchese di Trevico, Cecco di Loffredo. Nel 1618 entrò al servizio del principe Marino Caracciolo, che lo creò nel 1619, governatore di Avellino. Qui componeva, dedicandolo al suo signore, l’idillio L’Aretusa, imitazione dei consimili componimenti marinistici. L’anno successivo il B. scrisse e dedicò a Domizio Caracciolo, marchese di Bella, Il guerriero amante, che, in tratti più accesi e convulsi, sembra riprodurre la vicenda di una celeberrima storia d’amore. Nel 1621-22 fu governatore nelle terre di Lagolibero in Basilicata.
Con il ritorno della sorella Adriana a Napoli la situazione del B. migliorò ulteriormente. I Basile e i Baroni trovarono infatti generosa protezione presso Antonio Alvarez di Toledo, duca d’Alba, viceré di Napoli, dal quale il B. ricevette nel 1626 il governo della città di Aversa. A lui dedicò una raccolta di cinquanta delle sue Ode (Napoli 1627), in gran parte già apparse nelle stampe precedenti.
Negli ultimi anni di vita il B. fece parte della corte del duca d’Acerenza, Galeazzo Pinelli, che lo creò governatore di Giugliano. Si trovava in questa città, quando, nell’inverno 1631-32, Napoli e la provincia furono investite da un’epidemia dalla quale lui stesso fu contagiato. Morì il 23 febbr. 1632 e fu seppellito nella chiesa di S. Sofia di Giugliano. Aveva appartenuto, oltre che all’Accademia degli Stravaganti di Candia, a quelle napoletane degli Oziosi e degli Incauti.
Nel 1637 la sorella Adriana pubblicò a Roma l’ultima opera del fratello, il poema eroico Il Teagene, tratto dalla Storia etiopica di Eliodoro: la più fallita e velleitaria tra quelle del B., la più lontana dalla sua vera ispirazione: un miscuglio di falsità retorica e di ampollosità barocca, un incrocio ibrido tra un Amadigi e un Adone.
La vera grandezza del B. sta nella produzione in dialetto napoletano. Il primo documento dell’attenzione da lui dedicata alla lingua del suo popolo è in alcuni scritti, pubblicati sotto forma di lettere, che servivano da premessa e da appendice alla Vaiasseide di G. C. Cortese (Napoli 1615). Il B. (il quale in quell’occasione ebbe ad assumere per la prima volta lo pseudonimo quasi anagrammatico di “Gian Alesio Abbattutis”, che conserverà per tutte le opere in dialetto) già rivela alcuni caratteri propri della sua arte, intrinseci al modo di valutare e di trattare il dialetto.
La prima opera in dialetto napoletano pubblicata dal B. è una corona di egloghe: Le Muse napolitane. La prima edizione da noi conosciuta è quella di Napoli del 1635, ma è probabile che essa fosse preceduta da altre, se è vero quel che è detto nell’avvertenza, ossia che l’autore si era deciso a mettere in luce questi suoi componimenti per riempire il vuoto lasciato nelle lettere napoletane dalla scomparsa di G. C. Cortese, avvenuta nel 1627.
Ciascuna delle così dette egloghe s’intitola ad una delle nove muse, ma con un sottotitolo più significativo, che allude al contenuto o ai personaggi del componimento: Clio, overo li Smargiasse; Euterpe, overo la Cortisciana; Talia o lo cerriglio; Melpomene overo le Fonnacchiere; Tersicore overo la Zita; Erato overo lo giovane ‘nzoraturo; Polinnia overo lo viecchio nnammorato; Urania overo lo Sfuorgio; Caliope overo la Museca. Attraverso tenui pretesti, il B. mette in scena figure e aspetti della vita quotidiana popolare: dal giovane che ha perso la testa dietro una prostituta, al vecchio rimbambito che non sente il ridicolo di corteggiare e ambire come sposa una fresca adolescente, al tronfio arricchito, che vede crescere intorno a sé, in virtù unicamente dei suoi soldi, rispetto e stima; dalle contese di gioco, ingaggiate da tipi umoristici di gradassi parolai e vanagloriosi, ai clamorosi litigi di donne dalla lingua lunga e dall’improperio facile, ai rimpianti per la buona musica napoletana del tempo andato. Accanto all’osservazione realistica si colloca una vena di moralismo bonario e indulgente: non così esclusiva e costante, come volle il Croce che per primo la individuò criticamente, bensì piuttosto svagata e, come si è detto, sorridente; mai soverchiante, comunque, la divertita attenzione dello scrittore verso lo svolgimento ricco e vivace delle situazioni reali.
In queste Muse napolitane il B. appare in molti tratti vicino a G. C. Cortese, restauratore del dialetto napoletano e autore di opere come la Vaiasseide (1615), il Micco Passaro (1619), Li travagliase amure de Ciullo e Perna (1621). Sia dal punto di vista tematico sia da quello stilistico le affinità sono notevoli. Nelle egloghe il B. piega la sua arte a contemplare con curiosità cordiale la vita popolare, colta nella sua immediatezza: la trasfigurazione fantastica è limitatissima. Gli elementi del linguaggio si direbbero afferrati a volo, il più delle volte, sulle labbra di popolani arguti e rissosi, incontrati per le strade della città, nei quartieri più fitti e più poveri. Lo stile (beninteso, tutt’altro che istintivo) è senza dubbio più immediato e meno elaborato di quello che si manifesterà nel Cunto.
Caratteri che viceversa anticipano chiaramente gli sviluppi successivi si possono ravvisare in certe descrizioni di franca e avvincente sensualità, attraverso le quali, dall’oggettività del discorso realistico, riaffiora il volto sorridente del poeta, la sua parola di artista gustosa e appassionata (così, nella figura di una sposina giovanissima, in Tersicore overo la Zita); oppure in alcune particolarità dello stile e della lingua, come quelle rappresentate dalle lunghe, lunghissime serie d’immagini o di parole, incalzantisi l’una dietro l’altra, a mo’ di girandola o di fuoco d’artifizio. In casi come questo la rilevazione oggettivistica del linguaggio popolare può servire come semplice fondamento od occasione al gusto raffinato ed esuberante dello scrittore, che s’innamora della possibilità di dar vita, attraverso un richiamo ambientale, a una sorprendente e meravigliosa baraonda di parole, lanciate all’attacco in un turbine vorticoso e praticamente inesauribile (si veda, ad esempio, Melpomene overo le Fonnacchiere e in particolare la figura di Pascadotia, che tutto travolge con le sue rutilanti scariche d’improperi e d’invettive).
Capolavoro del B. è Lo Cunto de li Cunti overo Lo trattenemiento de’peccerille, apparso postumo (fu pubblicato diviso giornata per giornata, secondo la seguente successione: I, II, III giornata, Napoli 1634; IV giornata, ibid. 1634-35; V giornata, ibid. 1636). Si tratta di una raccolta di fiabe di origine popolare, stese in dialetto napoletano. Dal punto di vista strutturale il B. vi riprende uno schema boccaccesco, che però nella sostanza, si può far risalire al più antico modello del Libro dei sette savi. L’autore, infatti, immagina che intorno a Taddeo, principe di Camporotondo, a una schiava moresca, divenuta con l’inganno sua moglie, e alla fanciulla Zoza, innamorata di lui, si raccolgano a raccontar fiabe dieci popolane, che rispondono ai nomi argutamente espressivi di Zeza sciancata, Ceccastorta, Meneca gozzosa, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata, Ciommetella tignosa, Iacova squarquoia. A conclusione dell’opera, gli inganni della schiava verranno svelati e Zoza avrà la gioia d’essere riamata dal principe. La narrazione è divisa in cinque giornate (da qui l’altro titolo, successivamente imposto all’opera, di Pentamerone), ognuna delle quali comprende dieci fiabe. Tra una giornata e l’altra sono inserite composizioni dialogate, sul tipo delle egloghe, di cui sono protagonisti servi, cuochi e dispensieri del palazzo principesco (anche in questo il riferimento al Decamerone è evidente). Al posto dell’ultima fiaba c’èla Scompetura de lo Cunto de li Cunti, pe chiudeturade la ‘ntroduttione de li Trattenemiente (Fine della Fiaba delle Fiabe e la Conclusione alla introduzione dei trattenimenti).
La maggior parte delle fiabe ha, come si è detto, origine popolare: la tradizione letteraria (visibilissima dal punto di vista strutturale e stilistico) è minima dal punto di vista tematico. Il B. non inventa spunti favolistici nuovi, riservandosi di compiere la sua parte di originale creatore artistico attraverso la rielaborazione formale.
Alcune fra queste fiabe sono universalmente note, anche perché si legano a temi fantastici, vivi presso popoli ed età molto lontani fra loro. Ne La gatta cennerentola (I, 6) rivive il mito della povera fanciulla, innalzata contro tutte le avversità del destino e dell’odio umano ai fastigi della fortuna e dell’amore (il Perrault ne fornirà poi una splendida versione nella Cendrillon dei suoi Contes). In Sole, Luna e Talia (V, 5) è rielaborata in forme popolaresche la leggenda della “bella addormentata nel bosco”. In Le tre cetre (V, 9) è lo spunto da cui C. Gozzi trarrà la sua famosissima favola drammatica L’amore delle tre melarance. In Gagliuso (II, 4) è la storia del gatto sapiente, che aiuta un poveraccio a far fortuna, ma ne è ripagato di nera ingratitudine (ritroveremo l’animale protagonista della famosa fiaba Le chat botté di Perrault e nel Gatto con gli stivali di L. Tieck).
Altre fiabe, meno numerose, sono segnate da una più vivace impronta di ambientazione popolare secentesca (nella quale è possibile ravvisare la lezione delle Muse napolitane). Deliziosa, ad esempio, è Lo compare (II, 10), nel quale è descritto il modo con cui il malavventurato Cola Iacovo Aggrancato riesce a liberarsi, dopo aver molto pazientato, d’un compare che gli fa grandi mangiate in casa. Un vero capolavoro di umorismo è Vardiello (I, 4), che narra come un povero allocco, capace solo di far guai, riesca unicamente per virtù del caso ad impadronirsi di un tesoro. In queste due narrazioni, come in poche altre, il B. scivola insensibilmente dalla fiaba alla novella di carattere tipicamente popolaresco.
Nei saggi che B. Croce ha dedicato, al Cunto de li Cunti (forse i migliori che egli abbia scritto sulla letteratura del Seicento) sono acutamente individuati tutti i modi con i quali il B. trasforma la materia popolaresca in creazione letteraria, cospargendola di “tutti i più forti olezzi della letteratura secentesca”, ed arrivando a produrre con il Pentamerone “il più bel libro italiano barocco, quale non è certo il verboso e gonfio Adone”. Pur non condividendo la distinzione crociana tra barocco scherzoso e barocco grave, più vicina a un rigido schema estetico che ad un corretto modello d’interpretazione critica, è doveroso riconoscere che la maggior fortuna del Cunto e il maggior merito del B., magari inconsapevole, consistono nel felice incontro tra elementi di una genuina fantasia popolare e la predisposizione ad una ricca, rutilante immaginativa stilistica. Il cumulo delle metafore, la serie infinita degli appellativi e delle similitudini, la sovrabbondante e talvolta stancante invenzione lessicale e stilistica, assumono in questa atmosfera naturalmente ingenua e primitiva una levità, una gaiezza, che sono testimonianza di una poesia non profonda, ma sorridente e gentile.
Si potrebbe osservare, precisando, che il barocchismo de B.l è un barocchismo di atteggiamenti spirituali, prima che di forme: e di questo barocchismo il metaforeggiare continuo e l’ampollosità stilistica non sono in fondo altro che gli aspetti più esterni. È da richiamare piuttosto l’attenzione su alcuni motivi spesso ricorrenti nelle fiabe, oppure sulla debolezza o l’assenza di altri. Molto significativo è, ad esempio, che gli spunti drammatici e seriamente dolorosi siano appena sfiorati, restando il più delle volte schematici a causa dell’evidente disinteresse dello scrittore, mentre un rilievo notevolissimo hanno le scene di sensualità, di crudeltà e di deformazione grottesca. Ancor più interessante è il caso in cui questi ultimi motivi si toccano fra loro, rivelando una reciproca funzionalità. Così avviene in Verde Prato (II, 2) e nel Serpente (II, 5), che hanno molti punti in comune: le scene di viva sensualità; il ferimento dell’amante maschio, che avviene in ambedue i casi in prossimità dell’atto sessuale (poco dopo o poco prima), e in ambedue i casi ad opera della stessa materia tagliente, il vetro; la necessità per l’amante femmina di uccidere esseri viventi (due orchi; una volpicina), per sanare col loro grasso le piaghe del maschio. Quando la guarigione è avvenuta, in attesa di riprendere la festa dei sensi, i due amanti ridono sulle povere vittime, sacrificate alla loro gioia, concludendo che “a li guste d’ammore / fu sempre connemiento lo dolore”. Notabile anche, ne La Colomba (II, 7), l’episodio della crudeltà del giovane principe che sfascia per puro divertimento la pignatta con i fagioli di una vecchia povera e senza risorse. Alla fine della fiaba, durante il convito di nozze del principe, si verifica l’apparizione paurosa della vecchia morta di fame. Ma qui il motivo della crudeltà e dell’orrore trascorre rapidamente nel grottesco prima, e nel comico poi, se in una risata si risolve appunto la maledizione del fantasma, “che te puozze trovare sempre ‘nante li fasule che me iettaste, e se faccia vero lo proverbio, chi semmena fasule le nasceno corna…”.
Si potrebbe osservare che questi motivi (indifferenza verso il dolore, tendenza al grottesco e alla deformazione) sono tipici dell’atmosfera fiabesca e costituiscono parte integrante del patrimonio fantastico popolare. In realtà, proprio su questi punti avviene l’incontro tra il mondo della fiaba e il B., letterato barocco del ‘600; su questi punti si spiega la fortuna del genere favolistico in età barocca, e la sua ricca diffusione, sia qualitativa sia quantitativa. Se un’affermazione del genere non corresse il rischio di passare per deterministica, si potrebbe arrivare a sostenere che la nascita del Pentamerone siverificò nel ‘600 proprio per le particolari condizioni di gusto e di cultura che il secolo presentava. Il mondo complicato e nello stesso tempo ingenuo, infantile, della fiaba veniva incontro a quel senso così diffuso della meraviglia, anch’esso raffinato e puerile, colto e superficiale, che contraddistingue gli sviluppi della letteratura italiana fra la crisi del Rinascimento e la fioritura del barocco. L’origine popolare del mondo fiabesco e l’uso del dialetto soddisfacevano dal canto loro a quella maggiore compiacenza popolaresca, a quella più diffusa ambizione pseudo-realistica, che è possibile ravvisare in molti aspetti e in molti autori della letteratura secentesca, e che rappresentano il segno di una crisi culturale profonda e il tentativo (in gran parte inconsapevole e ben presto del tutto riassorbito) di porvi rimedio attraverso un ritorno ad un più libero decentramento creativo.
Non è possibile dimenticare, infatti, che durante questo periodo si verificano in tutta la cultura italiana vivaci manifestazioni di spirito antiregolistico e antitradizionalistico. La stessa superiorità del modello toscano ne viene minacciata, mentre sorgono o risorgono qua e là fenomeni di letteratura regionale, e centri culturali nuovi sembrano sostituirsi a quello fiorentino. A questa tendenza, per dir così, centrifuga s’accompagna un distacco notevole dagli schemi, aristocratici e raffinati, che avevano costituito l’essenza delle più alte manifestazioni letterarie del Cinquecento: il problema del rapporto con strati più vasti di pubblico si pone in maniera chiarissima nell’affermazione di molti generi nuovi o radicalmente rinnovati. L’uso del dialetto e l’accettazione di una tematica e di un’ambientazione popolaresca possono essere spiegati, seguendo le linee di questo quadro storico-culturale.
In questo senso, forse più che in quello strettamente estetico indicato da Croce, si può dire che Lo Cunto de li Cunti rappresenta uno dei libri più significativi del barocco letterario italiano.
La fortuna delle opere napoletane del B. fu grande in Italia durante il ‘600 (sei ediz. del Cunto; sei ediz. delle Muse) e nella prima metà del ‘700 (varie ediz. in dialetto; traduzioni in altri dialetti italiani e in lingua). La notorietà europea del Cunto ebbe inizio nell’800, quando i fratelli Grimm, pubblicando nel 1822 il terzo volume dei Kinderund Hausmärchen, vi dettero un posto di grandissima importanza al Basile. Contemporaneamente, in Italia, la fama del B. rimaneva un po’ oscurata dal pregiudizio antibarocco, discutendosi soprattutto se lo scrittore napoletano avesse voluto fare nelle sue opere in dialetto la satira del marinismo, oppure ne avesse ripreso consapevolmente i modi. Un interesse più vivo per il B. si riaccende verso la fine del secolo, con il fiorire di studi sulla lingua e sulla storia napoletana. Prodotto di questo fervore fu la ristampa de Lo Cunto de li Cunti (Napoli 1891), a cura di B. Croce, arrestatasi peraltro al primo volume. Il Croce non riprese più tardi questa sua fatica di editore, sì che, a tutt’oggi, noi manchiamo ancora di una stampa moderna, completa e corretta dei numerosi errori e travisamenti presenti negli esemplari secenteschi, del testo dialettale del Cunto de li Cunti.
B. Croce preferì affrontare l’impresa della traduzione del Pentamerone in lingua italiana, partendo dalla convinzione (giusta fino a un certo punto) che l’opera si potesse diffondere solo rinunciando alla sua veste linguistica originaria. Questa versione fu edita la prima volta col titolo Il Pentamerone, ossia La Fiaba delle Fiabe (Bari 1925, voll. 2), e ristampata successivamente nella collezione degli “Scrittori d’Italia” (Bari 1939). I meriti del Croce come traduttore sono molto inferiori a quelli di editore e di saggista. Egli constata giustamente che lo stile dei B. è molto spesso fastidioso e sovrabbondante, quando non è addirittura manchevole, soprattutto dal punto di vista sintattico. Procede perciò nel tradurre ad un’opera di semplificazione e di aggiustamento, riducendo i lunghi o lunghissimi periodi basiliani a più modeste proporzioni, sfrondando le ampollosità e appiattendo con un linguaggio più pedestre, meno fantastico, le numerosissime metafore: Talvolta la censura si esercita anche per motivi moralistici: le frasi o gli appellativi troppo spinti vengono in genere, attenuati. Egli raggiunge per questa strada un risultato di innegabile dignità letteraria, al quale sono ignote però le saporosità popolaresche e la ricchezza festosa, in molti punti avvincente, dell’originale. Lo Cunto, tradotto in lingua, torna ad essere un qualunque libro di fiabe; letto in dialetto, si rivela una costruzione letteraria delle più argute e gustose del secolo.
Bibl.: Lo Cunto de liCunti (nella versione crociana) è stato ripubblicato recentemente in una ediz. strenna, Bari 1957. Una scelta di fiabe (con la versione crociana a fronte) è apparsa in Trattatisti e prosatori del Seicento, a cura di E. Raimondi, Milano-Napoli 1960, pp. 1121-1283 (con bibl.). Si v. inoltre: G. B. B., Poesie napoletane, a cura di G. Luongo, Mazara 1950. Le Muse Napolitane sono state ristampate, con note e introduzione, da M. Petrini, in Studi secenteschi, III (1962), pp. 107-84.
Fondamentale è il complesso di studi dedicato. da B. Croce al B.: G. B. B. e il “Cunto de li Cunti”, introduzione alla ristampa del 1891 (ora con altre ricerche nei Saggi sulla lett. ital. del Seicento, Bari 1911, pp. 3-122); G. B. B. e l’elaborazione artistica delle fiabe popolari, Discorso, introduzione alla traduz. in lingua italiana del 1925 (ora in Storia dell’età barocca, Bari 1957, pp. 455-474); Appendice all’ediz. italiana del 1939. Negli scritti del Croce si troverà bibl. precedente. Indichiamo le voci essenziali: F. Galiani, Del dialetto napoletano, Napoli 1787 (ripubblicato, con introduzione e note di F. Nicolini, Napoli 1923); L. Serio, Lo Vernacchio, resposta a lo “Dialetto napoletano”, Napoli 1780; J. e W. K. Grimm, Kinder- und Hausmärchen, III, Berlin 1822; V. Imbriani, Il gran Basile, in Giornale napoletano di letteratura e filosofia, I (1875), 1, pp. 1-2; 2, pp. 5-6; F. Russo, Il Gran Cortese. Note critiche su la poesia napoletana del ‘600, Roma 1913, passim; L. Di Francia, La novellistica (secc. XVI-XVII), Milano 1925, pp. 366-383; F. Russo, recensione alla traduz. del Croce (1925), in Il Mezzogiorno di Napoli, 25-26 nov. 1926; L. Di Francia, recensione alla traduz. del Croce, in Giorn. stor. d. letter. ital., LXXXVII (1926), pp. 160-170; Id., Il Pentamerone di G. B. B., Torino 1927; Id., A proposito del Pentamerone e sulla fiaba, in Giorn. stor. d. letter. ital., CI (1933), pp. 169-171; A. Caccavelli, Fiaba e realtà nel “Pentamerone” del B., in Scritti vari pubblicati dagli alunni della R. Scuola Normale Superiore di Pisa per le nozze Arnaldi-Cesaris Demel, Pisa 1928, pp. 167-177; F. Flora, Storia della letteratura italiana, II, Milano, 1942, pp. 801-808; F. D. Maurino, Salvatoredi Giacomo and Neapolitan Dialectical Literature, New York 1951 (cfr. la recensione di E. Cecchi, Di Giacomo in America, ora in Di giorno in giorno, Milano 1954, pp. 275-277); P. Sarrubo, Il “Pentamerone” di G. B. B., in Ann. d. Fac. di lett. e fil. dell’univ. di Cagliari, XXI, 2 (1953), pp. 273-312; M. Petrini, La musa napol. di G. B. B., in Belfagor, XVII, (1962), pp. 405-31.