Bacco, il dio che unisce i pagani e i cristiani
Autore: Alfredo Cattabiani
Verso la metà del quinto secolo della nostra era, quando ormai da più di cent’anni si succedevano in Italia e a Costantinopoli imperatori cristiani, tranne la fuggevole meteora di Giuliano, fiorì in Egitto l’ultimo grande poema dell’antichità, Le Dionisiache, scritto in greco.
Nulla sappiamo del suo autore Nonno se non che viveva a Panopoli, una importante cittadina situata a circa 200 chilometri a valle di Tebe, dove vi era una vivace società letteraria, testimoniata tra l’altro da Ciro e Pamprepio, due poeti di rilievo in quel periodo.
È anche difficile capire se Nonno fosse pagano o cristiano perché insieme con Le Dionisiache ci è pervenuta un’altra opera attribuita a lui, Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, che segue con fedeltà la narrazione del testo originale. Pagano nelle Dionisiache, cristiano nella Parafrasi? Questa contraddizione ha suscitato molte ipotesi interpretative. Secondo la più ovvia lo scrittore egiziano si sarebbe convertito al cristianesimo mentre terminava di scrivere il suo poema che darebbe l’impressione di incompiutezza.
Ma la narrazione poetica di Nonno, volutamente discontinua ed ellittica, escluderebbe questa ipotesi anche perché Le Dionisiache sono più articolate e complesse dell’opera cristiana. Ma se n’è avanzata anche un’altra di segno opposto: che l’autore si fosse convertito alla tradizione pagana; caso non raro in quei secoli, come testimoniava fra l’altro l’itinerario spirituale dell’imperatore Giuliano; e questo potrebbe spiegare il silenzio caduto su di lui in epoca medievale.
Ma forse la verità potrebbe essere più complessa, come osserva Dario Del Corno nella introduzione al primo volume delle Dionisiache (canti 1-12) che ha tradotto e curato per Adelphi con la sua consueta intelligenza e sapienza: un impegno non lieve se si pensa che l’intera opera, prevista in quattro volumi, è composta di 48 canti. La tradizione greca, come d’altronde altre antiche, insegnava ad assimilare religioni diverse secondo una concezione del divino trascendente le varie manifestazioni storiche del mito, della riflessione teologica e del culto. Sicché un poeta come Nonno, educato a quella cultura, poteva subire contemporaneamente la suggestione delle due religioni, l’una al tramonto, l’altra in irresistibile ascesa.
D’altronde, di là del diverso contesto mito-teologico, Cristo e Dioniso rivelavano non poche affinità: entrambi non erano chiusi nell’atemporalità degli dei olimpici; nati da madri terrene, avevano condiviso gioie, dolori, tragedie di ogni uomo, erano scesi negli inferi e risorti, e infine saliti in cielo alla destra del Padre.
Mentre la vita del primo, sulla traccia del Vangelo giovanneo, era abbastanza facile da narrare, quella di Dioniso si rivelava più difficoltosa a causa della lussureggiante stratificazione di mitologemi e di interpretazioni sincretistiche come ad esempio la fusione fra Zagreo cretese e Bacco.
Ma Nonno, invece di accumulare in una specie di enciclopedia poetica tutta la mitologia dionisiaca, scelse la via di sfoltirla puntando su alcuni episodi che dilatava o restringeva secondo le sue esigenze compositive, inserendo nello stesso tempo antefatti e digressioni, come la lotta fra Zeus e Tifone, narrata nei primi due canti, le peregrinazioni di Cadmo e il suo matrimonio con Armonia e infine l’amore del sovrano degli dei per la loro figlia Semele, madre a sua volta di Dioniso. Lo interessava non tanto la completezza quanto la rivelazione del dio mediante il racconto. È infatti il suo multiforme, metamorfico linguaggio nella smisurata agglomerazione di particolari, nei numerosi riferimenti astrologici e nella sontuosa proliferazione di metafore a manifestare il dio metamorfico per eccellenza.
«Dioniso – scriveva a questo proposito Giorgio Colli – è uno slancio insondabile, lo sconfinamento dell’elemento acqueo, il flusso della vita che precipita in cascata da una roccia su un’altra roccia con l’ebbrezza del volo e lo strazio della caduta; è l’inesauribile attraverso il frammentarsi, vive in ciascuna delle lacerazioni del corpo tenue dell’acqua contro le aguzze pietre del fondo».
La versione di Dario Del Corno trasmette, per quanto possa riuscirvi una traduzione fedele ed eccellente, questo rigoglioso proliferare di immagini, analogo alla proliferazione della dionisiaca edera, all’estasi orgiastica del vino tratto dall’altra bacchica pianta di cui si narra la nascita metamorfica nei ultimi due canti della prima parte. Tuttavia soltanto un poeta italiano si sarebbe potuto immedesimare in Nonno, restituendone la sensuale potenza immaginativa: Gabriele d’Annunzio.
Non è un poema facile da leggere per un lettore che non abbia dimestichezza con la mitologia antica: né lo era probabilmente nella metà de secolo V quando stava sbiadendo la millenaria stagione della tradizione greca. Ma i libri memorabili non s’indirizzano al volgo, vivono in un empireo dov’è giusto che penetrino soltanto coloro che abbiano acquisito e affinato gli strumenti per capirli e interpretarli correttamente.
Chi saprà e potrà accedere vi si aggirerà in una foresta lussureggiante dove non è il singolo episodio ad avere importanza, ma l’imprevedibile e labirintico dipanarsi della narrazione, il cui scopo, come si è detto, è di rivelare il salvifico dio la cui epifania scatena l’orgiasmo capace di condurre, come osservò Colli, alla liberazione dell’individuo empirico dalle condizioni della sua esistenza quotidiana: quel Dioniso che Nietzsche avvertiva come incarnazione dell’armonia universale, dove «ognuno si sente non soltanto riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, quasi che il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria».
Tratto da Il Giornale del 27 dicembre 1997.
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