Il 14 settembre 1942 si verificò una delle più grandi e cocenti sconfitte delle forze aeronavali e terrestri britanniche ad opera delle forze armate italiane, l’Operazione Daffodil.
di Antonio Lombardo
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Attaco a Tobruk
Il 14 settembre 1942 si verificò una delle più grandi e cocenti sconfitte delle forze aeronavali e terrestri britanniche ad opera delle forze armate italiane, l’Operazione Daffodil.
Tobruk fu presa d’assalto da centinaia di commandos, guastatori e incursori britannici, il cui scopo era di occupare temporaneamente la piazzaforte con un colpo di mano, per distruggere il porto e le altre installazioni, vitali per l’armata italo-tedesca del deserto.
Il piano britannico prevedeva che Tobruk fosse attaccata contemporaneamente da commandos e guastatori sbarcati dal mare e da un centinaio di incursori provenienti dal deserto per essere occupata per 24 ore, durante le quali distruggere le infrastrutture portuali, i mezzi navali presenti in rada, i depositi di carburante, le officine per la riparazione dei carri armati ed ogni altro. La forza di attacco britannica era costituita da una forza navale così suddivisa:
la Forza A, con i cacciatorpediniere Sikh e Zulu, che dovevano sbarcare 380 uomini a nord del porto, poi entrare nel porto per distruggere le navi italiane lì presenti e quindi reimbarcare i commandos e prendere nuovamente il largo;
la Forza C, costituita dalle motosiluranti MTB260, 261, 262,265, 266, 267, 268, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 314,315 e 316 e le motolance ML 349, 352 e 353, che dovevano sbarcare in tutto 200 uomini a sud del porto.
E una forza di attacco terrestre, la Forza B, composta da 18 camionette e da circa 100 uomini; proveniente dall’oasi di Cufra, che doveva infiltrarsi nel perimetro difensivo di Tobruk camuffando i suoi uomini in parte da soldati tedeschi ed in parte da prigionieri di guerra, quindi attaccare le forze italiane e creare una testa di sbarco per la Forza C.
Infine la Forza D, composta dall’incrociatore antiaerei Coventry ed i cacciatorpediniere Belvoir, Beaufort, Aldenham, Exmoor, Dulverton, Hursley, Hurtworth e Croome, in appoggio.
In totale per tale operazione gli Inglesi impegnarono circa 800 commandos e incursori, un incrociatore, una decina di cacciatorpediniere, sedici motosiluranti e tre motolance.
L’inizio delle operazioni avvenne dopo il tramonto del 13 settembre, gli uomini della Forza B del tenente colonnello Haselden provenienti dall’oasi di Cufra, camuffati con i colori e le insegne dell’Afrika Korps, e con documenti falsificati fermarono a sud di El Aden un autocarro italiano trasportante una pattuglia di sette uomini dell’Aeronautica, un ufficiale, un sottufficiale, quattro avieri e un operaio. Quindi, dopo averli interrogati, li fucilarono. Il generale Giuseppe Mancinelli così racconta i fatti “Un autocarro con una decina di nostri soldati si trovava per l’esecuzione di un qualche servizio a 15-20 km nell’interno a sud di Tobruch incontrò una colonna di tedeschi (tale li ritennero i nostri, dall’aspetto) che scesero e si fermarono con la scusa di chiedere informazioni, indi li circondarono, li disarmarono e, dopo averli fatti allineare, li falciarono sul posto con una scarica di mitra. Il mio interlocutore si salvò perché cadde svenuto, probabilmente per lo spavento, prima di essere raggiunto dalla scarica totale e rinvenne illeso sotto i corpi dei compagni uccisi”. Con lo stesso sistema vennero uccise alcune sentinelle italiane e tedesche. Nella notte del 13 dalle ore 21,30 alle ore 03,30 vi furono delle incursioni aeree su Tobruk con l’impiego di 91 velivoli tra cui i bombardieri B-24 Liberator americani – che sganciarono oltre 70 tonnellate di bombe. I comandi italiani, insospettiti dalla maggiore intensità delle incursioni aeree su Tobruk, rispetto al solito, intensificarono la sorveglianza lungo la costa.
In concomitanza con l’inizio del bombardamento, gli uomini di Haselden entrarono indisturbati nel perimetro della Piazza di Tobruck, essendo la loro presenza sfuggita alla vigilanza terrestre, perché camuffati, ingannarono gli uomini di automezzi tedeschi incontrati lungo la strada e alla ricognizione aerea che, pur avendo sorvolato la colonna delle camionette, non li riconobbe.
In tal modo, gli uomini della Forza B, una volta che ebbero superato agevolmente il perimetro difensivo scarsamente vigilato, e raggiunta Marsa Sciausc, lanciarono in alto verso il mare i prescritti razzi rossi e verdi di segnalazione. Dopo di che il colonnello Haselden segnalò al Cairo la parola convenzionale “Nigger”, che fu ritrasmessa subito alla Forza C per iniziare le operazioni di sbarco. Inoltre, dopo aver raggiunto le spiagge meridionali della penisola di Tobruch, riuscirono a impadronirsi di sorpresa di una batteria antisbarco di cannoni da 105/28 mm dell’esercito italiano, postata proprio davanti al relitto dell’incrociatore corazzato San Giorgio. Il personale di tale batteria restava in gran parte sopraffatto, ma un ufficiale, sfuggito all’avversario con due uomini, raggiungeva celermente una batteria viciniore e riusciva a dare comunicazione telefonica dell’accaduto al comando Interinale. Nella sua sede, l’amm. div. Giuseppe Lombardi, comandante di Marina Libia con sede a Tobruck, assunse la direzione delle operazioni, coadiuvato dal suo capo di stato maggiore e dal comandante del porto, cap. vasc. Temistocle D’Aloja; in presenza del colonnello Battaglia, esaminarono la situazione creatasi e presero accordi per le azioni di contrasto, disponendo:
a) L’invio immediato, a mezzo di autocarri, del nucleo Comando del Battaglione S. Marco, a Marsa UMM es Sciaùsc, per fronteggiare l’infiltrazione nemica e riconquistare la batteria da 105 mm.;
b) la costituzione presso il Comando Marina di una compagnia mista di difesa mobile, composta da 40 marinai, 40 CC. RR. del 18° Btg. e un plotone di 30 marinai germanici presentatisi per prendere ordini;
c) la dislocazione di rinforzi sulle banchine del porto e nei punti più importanti della base navale, utilizzando nuclei di marinai e di militari della P.A.O.;
d) L’immediato richiamo dalla località di decentramento di una compagnia di marinai di 120 uomini, da tenersi su autocarri a disposizione del Comando.
Mentre veniva dato l’allarme, gli uomini del ten. col. Haselden, dopo aver conquistato la batteria dell’Esercito, erano stati fermati dal personale della vicina batteria “Grasso” della Regia Marina, a est di Marsa Beiad. Gli assaltatori, entrati nel recinto della postazione, uccidevano due militari di guardia, per poi impadronirsi del deposito munizioni. Ma gli uomini della batteria, trincerati dietro le piazzole dei tre cannoni da 152 mm, sparando con le armi individuali e lanciando bombe a mano, resistettero opponendo per varie ore una tenace resistenza al nemico, che poi alle prime luci del giorno fu costretto ad arrendersi quando, su autocarri partiti alle 02:20 da Tobruk, sopraggiunse nella zona di Marsa Sciausc il reparto comando del Battaglione San Marco guidato dal ten. vasc. Giacomo Colotto.
Questo reparto della marina, “con abile e decisa azione durata fino al mattino, contrastò l’infiltrazione del nemico riuscendo all’alba a circondarlo e ad averne ragione”. La Forza terrestre B subì per otto morti, dieci feriti gravi, 32 prigionieri.
Intanto la Forza C dopo segnalazione degli uomini della Forza B procedeva alle operazioni di sbarco, ma ormai la piazzaforte era stata messa in allarme. Le 17 motozattere e tre torpediniere (Castore, Generale Antonino Cascino e Generale Carlo Montanari), su ordine del comandante di Marina, vennero schierate lungo le ostruzioni retali, e furono queste unità, con il loro fuoco, a respingere i tentativi della Forza C di entrare nella rada di Tobruk.
Grazie al bottino fatto, nel giugno 1942, l’armamento delle motozattere era stato notevolmente potenziato: i loro equipaggi erano infatti abbondantemente forniti di fucili mitragliatori britannici, che sarebbero stati impiegati contro i loro passati “proprietari”. Alle ore una di notte, sei motosiluranti britanniche tentarono di sbarcare i commandos sulla costa, ma vennero arrestate e disperse dall’immediata reazione della MZ 733, che con la MZ 759 era stata dislocata quale rinforzo vicino alle ostruzioni all’ingresso della rada di Tobruk. Proprio all’una, la MZ 733 comunicò al Comando Marina: “Motosiluranti nemiche cercavano di forzare le ostruzioni. Vado all’attacco”; in questo scontro tra piccole unità navali, i marinai della motozattera combatterono “come in trincea”, sparando con mitra e moschetti e riparandosi dietro sacchetti di sabbia. Il cannone da 76, quando ebbe finite le munizioni, sparò contro le unità avversarie persino con i proiettili illuminanti.
Soltanto due motosiluranti – la MTB 261 e la MTB 314–, agendo indipendentemente, riuscirono a mettere a terra una sezione di fucilieri del reggimento Royal Northumberland; Poco dopo, un secondo tentativo di sbarco da parte delle motosiluranti della Forza C fu anch’esso respinto, stavolta dalla MZ 756, dalle torpediniere e dalle batterie costiere.
Intanto, la Forza A riuscì a sbarcare solo una compagnia dei suoi uomini, gli altri non poterono essere sbarcati causa le batterie costiere italiane della regia marina “Belotti”, “Tordo”, “Dandolo” e “Grasso” (13 cannoni da 120 e 152 mm), che aprirono il fuoco a volontà, il Sikh fu ripetutamente colpito, una granata immobilizzò il timone, e un incendio scoppio in un deposito di munizioni che poi esplose. Un altro proiettile colpì il cacciatorpediniere costringendolo dapprima a diminuire la velocità a dieci nodi e poi, alle 05.20, ad arrestarsi in fiamme, incapace, anche per i danni al timone, di realizzare un qualsiasi movimento. Lo Zulu, rimasto anch’esso ripetutamente colpito e danneggiato dalle batterie costiere, tentò di rimorchiare il Sikh, ma poi verso l’alba, mentre era ancora raggiunto dai proiettili d’artiglieria, fu costretto ad allontanarsi. Il Sikh, con le sale macchine e caldaie allagate, fu allora abbandonato. Poco dopo le 06.30, venne anche attaccato da alcuni cacciabombardieri italiani MC 200 del 13° gruppo assalto che lo colpirono sul ponte con una bomba da 50 chili, il Sikh colò a picco esplodendo. I superstiti raggiunta la vicina costa, furono fatti prigionieri. Ne risultò che sebbene il Sikh e lo Zulu avessero messo a terra a Marsa el Mreisa una compagnia di due plotoni di commandos e guastatori, finì per concludersi con la cattura di tutti i soldati britannici; e ciò avvenne anche per il sopraggiungere della compagnia mista di difesa mobile, comprendente 40 marinai, 40 carabinieri, e un plotone di 30 marinai tedeschi. A questi centodieci uomini, frettolosamente racimolati a Tobruck e inviati a fronteggiare la minaccia che si profilava a settentrione della base, si aggiunsero, durante la marcia di trasferimento, altri 50 carabinieri con il comandante del 18° battaglione.
Il maggiore Hadley con altri 21 commandos, gli unici superstiti dei suoi due plotoni che si erano mantenuti nascosti in un wadi, si arrese al mattino durante il rastrellamento delle truppe italiane.
In una relazione del Comando Supremo è scritto: “Le nostre forze a terra – riuscite ovunque a contenere il nemico – passavano decisamente al contrattacco. In seguito si univano, a loro rinforzo, gruppi di formazione tedeschi nel frattempo sopraggiunti. Le azioni, in corrispondenza dei vari punti di sbarco, si concludevano col ributtare ovunque l’avversario, catturandogli 25 prigionieri nella zona di Marsa Auda, 40 nella zona di Forte Perrone e 30 nella zona di Marsa Umm esc Sciausc. Un’altra cinquantina di prigionieri veniva poi catturata durante le operazioni di rastrellamento”. In totale, a terra furono contati 58 morti britannici, senza considerare quelli caduti in mare o affogati, e catturati 650 prigionieri, fra cui oltre 30 ufficiali, per la maggior parte recuperati in mare. Intanto i caccia italiani Macchi Mc 200, al solo costo del danneggiamento di un aereo (su 21), riuscirono ad affondare, in una serie di attacchi, la motosilurante MTB 312 e le motolance ML 352 e ML 353; la MTB 310. I velivoli tedeschi (73 bombardieri Junkers Ju 87, 105 bombardieri Ju 88 e tredici caccia Messerschmitt Bf 109) affondarono invece il Coventry, lo Zulu che ormai era in fase di affondamento perché colpito da batterie costiere italiane e la MTB 308 (già seriamente danneggiata da aerei italiani, fu definitivamente distrutta da uno Ju 88, oltre alla MTB 310, subendo la perdita di cinque velivoli, due Ju 87 e tre Ju 88). Ad attacco concluso, cinque motozattere (quattro tedesche ed una italiana), le torpediniere Castore e Montanari e tre motodragamine tedesche della 6a Flottiglia vennero inviati a recuperare i naufraghi delle unità britanniche: in tutto le unità italiane e tedesche recuperarono dal mare 476 uomini (tra cui parte dell’equipaggio del Sikh).
L’Operazione Daffodil si concluse con un completo fallimento per le forze britanniche, le cui perdite ammontarono a 779 morti (tra cui il tenente colonnello John Edward Haselden, comandante delle forze di terra britanniche) e 650 prigionieri, nonché la perdita di un incrociatore (il Coventry), due cacciatorpediniere (Sikh e Zulu), quattro motosiluranti (MTB 308, 310, 312 e 314) e due motolance (ML 352 e 353), oltre ai vari improvvisati barconi della Forza A, tutti distrutti o catturati.
Voglio ricordare che la bandiera dei Royal Marines, caduta in mano italiana, è tuttora tra i trofei della Marina Italiana. Sul conteggio delle perdite italo-tedesche concordano sia la documentazione dello Stato Maggiore dell’Esercito sia quello dell’Ufficio Storico della Marina, accettate peraltro dagli studiosi inglesi. Da parte delle forze dell’asse le perdite furono di piccolissima entità, in totale 16 morti e 50 feriti, così ripartiti:
italiani 15 caduti (di cui 5 del San Marco) e 43 feriti (7 del San Marco);
tedeschi: 1 caduto e 7 feriti.
Osservazioni conclusive
Siamo a metà settembre del 1942, le forze dell’Asse sono ferme ad El Alamein dopo la battaglia di Alam Halfa, i rifornimenti scarseggiano (non perché la R.M. è stata fermata dagli Angloamericani, abbiamo visto come la regia abbia fatto strage di navi da guerra e piroscafi alleati nella battaglia aeronavale di mezzo agosto, assicurandosi la padronanza del mediterraneo centrale) ma proprio perché mancavano le provviste da mandare al fronte dalla madre patria, alcuni piroscafi da Napoli e Messina partivano quasi vuoti, ricordo inoltre che la controffensiva tedesca in Romania per impadronirsi dei pozzi di petrolio era fallita e la carenza di combustibile, problema delle forze armate italiane fin dall’inizio del conflitto diventava disperata. Purtroppo, per l’Asse, il potenziale bellico americano era infinito, i rifornimenti che arrivavano dal medio oriente erano inesauribili, si era alla fine. La superiorità angloamericana delle forze corazzate era netta sia per la quantità sia per la qualità del materiale usato. I 1.000 carri armati di modello recente, tra cui circa 600 Sherman e Grant che Montgomery aveva in linea potevano essere contrastati solo da una quarantina di Panzer IV e da circa una trentina di semoventi da 75/18 italiani e le armi controcarro delle fanterie italo-tedesche erano impotenti contro tali mezzi corazzati, quasi tutti con corazze frontali spesse 75 mm. Inoltre gli Alleati vantavano il dominio dei cieli grazie alla preponderanza numerica (un migliaio tra caccia e bombardieri moderni, in confronto ai centonovantotto della Luftwaffe e della 5° squadriglia aerea della R.A.).
Lo scopo della conquista del porto di Tobruk, il principale scalo dei rifornimenti dell’Asse diretti al fronte egiziano di El Alamein, oltre a quello di sconvolgere tutta l’organizzazione logistica delle retrovie, era quello di accerchiare le forze dell’asse in ritirata dopo la sicura vittoria angloamericana di El Alamein e di accelerare l’invasione dell’Italia. La resistenza italotedesca fu ammirevole, abbiamo visto come le battaglie di mezzo giugno e mezzo agosto scoraggiarono lo sbarco americano previsto in un primo momento nel mediterraneo centrale dietro le nostre linee e per cui furono costretti a sbarcare in Marocco. La strenua difesa del porto di Tobruk evitando l’accerchiamento e ogni tentativo di sfuggire alla cattura consentì alle armate italotedesche il ripiegamento ordinato in Tunisia ove, soltanto nell’aprile del 1943 e con la resa onorevole della Prima armata italiana al comando del generale Messe, gli Alleati ebbero ragione.
Ritornando all’attacco a Tobruk bisogna dire che gli Inglesi pianificarono con precisione l’azione ma trovarono sulla loro strada una difesa inaspettata da parte di truppe regolari Italiane che combatterono con successo contro i veterani britannici, mostrando un grande spirito di iniziativa e capacità battendo e costringendo alla ritirata truppe inglesi ben addestrate commandos incursori e guastatori (non era la prima volta che truppe regolari italiane batterono i cosiddetti commandos e incursori inglesi, ricordo i fatti di Castelrosso, febbraio 1941) nella difesa fu determinante il contributo di tanti militari italiani impiegati nei servizi a supporto che, nonostante il loro addestramento militare basico, combatterono con successo contro i veterani britannici.
Si è trattato senza alcuna ombra di dubbio di una netta e stupenda vittoria delle armi italiane ma come al solito fin da subito i Tedeschi si attribuirono il successo: già il 14, quando l’azione era ancora in corso, i comandi superiori italiani furono costretti a chiedere ai comandanti responsabili di Tobruk di illustrare il ruolo svolto dalle loro truppe. Negli anni successivi la storiografia britannica ipernazionalista coadiuvata anche da alcuni storici italiani ha preferito passare sotto silenzio il ruolo dei militari italiani, preferendo avvalorare una sconfitta dai Tedeschi probabilmente perché reputata più onorevole. Altro fatto deplorevole per le tanto decantate forze britanniche furono gli assassini a tradimento di avieri italiani ad opera degli incursori britannici della Forza B, successivamente catturati dagli Italiani del Battaglione S. Marco e graziati. I Britannici utilizzarono travestimenti e camuffamenti per infiltrarsi nella base, violando alcune fra le più chiare ed indiscutibili norme della convenzione internazionale che regolano il diritto di guerra, nessuno di loro fu mai giudicato e condannato per questo reato; da notare che anche due dei cacciatorpedinieri erano stati ridipinti con i colori tipici di analoghe unità italiane.
Ciò nonostante i nostri comandi dopo la cattura dei soldati britannici camuffati, non procedettero alla loro condanna a morte, come invece avvenne in Sicilia con i nostri soldati che si arresero con divise italiane e con i ragazzi appena maggiorenni della X mas, ma questo è un discorso a parte.
Autore articolo: Antonio Lombardo
Fonte foto: dalla rete
Fonti bibliografiche:
F. Mattesini, “Navi militari delle Marine alleate affondate nel Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale”, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, giugno 2001
O. Ferrara, Gli italiani nelle guerre d’Africa
J. Sadkovich, La marina italiana nella seconda guerra mondiale
historiaregni
Antonio Lombardo è ingegnere meccanico, ufficiale di complemento artiglieria e consulente TAR Campania e Prefettura Caserta.