La diciassettesima tappa del viaggio di Michele Eugenio Di Carlo nella storia del meridionalismo si occupa di un argomento importante: l’analisi che della questione meridionale fece un pensatore e dirigente politico di primissimo piano del secolo scorso, quale Antonio Gramsci, esaminandola e collocando nel più generale contesto dei rapporti di classe che soprattutto nel cosiddetto «biennio rosso» furono particolarmente aspri. La chiave di lettura di Gramsci è dichiaratamente marxista e marxiana. Di Carlo approfondisce tutta la evoluzione del pensiero gramsciano in materia, dai primi articoli al saggio Alcuni temi della quistione meridionale, che ne costituisce l’approdo. Una lettura importante.
Geppe Inserra
Antonio Gramsci e la questione meridionale
Author: Michele Eugenio Di Carlo Published Date: 13 Gennaio 2024
La diciassettesima tappa del viaggio di Michele Eugenio Di Carlo nella storia del meridionalismo si occupa di un argomento importante: l’analisi che della questione meridionale fece un pensatore e dirigente politico di primissimo piano del secolo scorso, quale Antonio Gramsci, esaminandola e collocando nel più generale contesto dei rapporti di classe che soprattutto nel cosiddetto «biennio rosso» furono particolarmente aspri. La chiave di lettura di Gramsci è dichiaratamente marxista e marxiana. Di Carlo approfondisce tutta la evoluzione del pensiero gramsciano in materia, dai primi articoli al saggio Alcuni temi della quistione meridionale, che ne costituisce l’approdo. Una lettura importante. (g.i.)
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Nato nel 1891 nel piccolo centro di Ales in provincia di Oristano, Antonio Gramsci ha vissuto un’infanzia tormentata, essendo afflitto da una malattia invalidante e costretto a lavorare per vicissitudini familiari dall’età di sette anni. Era riuscito a fatica a frequentare il liceo classico di Cagliari e dal 1911 la facoltà di Lettere a Torino, dove incontrava la letteratura meridionalista leggendo nel marzo del 1912 il numero speciale de «La Voce» sulla questione meridionale, nel quale «spiccavano gli interventi di Fortunato, Salvemini, Nitti ed Einaudi»[1].
Prima di dedicarsi in maniera compiuta alle tesi sul Mezzogiorno in Alcuni temi della quistione meridionale, già nell’aprile del 1916 Gramsci scriveva un interessante articolo sul «Grido del popolo»[2], a proposito del nord Italia che, producendo materiale bellico, traeva enormi profitti dall’economia di guerra, mentre il Mezzogiorno che alla guerra stava sacrificando un enorme patrimonio umano ne traeva solo ripercussioni negative. Nell’articolo Gramsci, prendendo spunto dall’economista Francesco Colletti, che nel 1911 su «L’Unità» aveva ritenuto l’arretratezza del Mezzogiorno frutto del centralismo sabaudo. Un centralismo che secondo l’intellettuale di Ales era diventato un «accentramento bestiale», che aveva drenato «ogni denaro liquido dal Mezzogiorno nel Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria», provocando «l’emigrazione degli uomini all’estero per trovare quel lavoro che veniva a mancare nel proprio paese». Gramsci, influenzato dalle tesi dell’economista Antonio De Viti De Marco, scriveva che «il protezionismo industriale aveva rialzato il costo della vita al contadino calabrese», mentre il dazio sul grano era stato «inutile per lui che produceva, e non sempre neppure, solo quel poco che era necessario al suo consumo» [3]. Il giovane Gramsci respingeva la tesi sull’inferiorità genetica dei meridionali [4] e asseriva che il Mezzogiorno non aveva bisogno di «leggi speciali e di trattamenti speciali» quanto di «una politica generale, estera ed interna» [5].
Il 7 luglio 1916, Gramsci proponeva un articolo sul quotidiano «Avanti» in cui criticava le politiche protezioniste e, in particolare, il dazio sul grano che illudeva i poveri contadini del Sud spingendoli a seminare ovunque nella vana speranza di un ricavo, mentre erano gli agrari della Valle Padana a realizzare «guadagni favolosi», che trovavano «solo riscontro nei superprofitti degli industriali» [6].
Finita la guerra, iniziate le mobilitazioni contadine e operaie con occupazioni di fabbriche e terre, tipiche del «biennio rosso», subito dopo il grande sciopero generale del 20 e 21 luglio 1919, il politico socialista in un articolo su «L’Ordine Nuovo» [7] scriveva che nei paesi a capitalismo arretrato come l’Italia «la grande proprietà terriera» era «rimasta fuori dalla libera concorrenza» mentre «lo Stato moderno» ne aveva «rispettato l’essenza feudale…». I contadini, invece, rimasti come mentalità allo stadio di servi della gleba, confondevano la lotta di classe con il brigantaggio, non ottenendo risultati pratici utili «a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale». Gramsci spiegava che il contadino, «lasciato completamente in balia dei proprietari e dei loro sicofanti […] vissuto sempre fuori dal dominio della legge, […] impaziente e violento […], incapace di porsi un fine generale d’azione e di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica», dopo quattro anni di trincea aveva cambiato mentalità e approccio psicologico, tanto che finita la guerra si profilava finalmente la possibilità di nascita e sviluppo «di vaste e profonde organizzazioni contadine» finalizzate a saldarsi con le masse operaie delle città industrializzate del Nord per la nascita di uno Stato socialista.
In un nuovo articolo del 3 gennaio 1920 [8], l’intellettuale sardo tornava a criticare l’obiettivo di assegnare le terre incolte ai contadini: «Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza un’abitazione sul luogo del lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso» finisce nelle mani degli usurai e, disperato e impotente, «diventa brigante, non un rivoluzionario, diventa un assassino dei “signori”, non un lottatore per il comunismo». Per Gramsci, invece, così come il controllo delle industrie doveva passare agli operai, i vasti latifondi a coltura estensiva del Mezzogiorno dovevano essere «amministrati dai Consigli dei contadini poveri dei villaggi e delle borgate agricole». In altre parole, la borghesia capitalista settentrionale che aveva «soggiogato l’Italia meridionale e le isole», riducendole a «colonia di sfruttamento», doveva essere abbattuta.
L’articolo del 3 gennaio tornava utile a Gramsci nel suo ultimo scritto, prima di essere incarcerato nel novembre 1926 a seguito delle leggi eccezionali emanate in autunno che sopprimevano i diritti politici, scioglievano i partiti politici e provocavano l’arresto degli antifascisti. Infatti, in Alcuni temi della quistione meridionale [9], scritto ad ottobre, Gramsci prendeva «spunto» da un articolo pubblicato il 18 settembre 1926 sulla rivista di tendenza socialista «Quarto Stato», diretta da Carlo Rosselli, per ricordare la sua posizione in merito all’assegnazione delle terre incolte. Nell’articolo Guido Dorso, commentando il suo testo La rivoluzione meridionale [10], pubblicato da Gobetti l’anno precedente, attribuiva un valore positivo all’azione del Partito Comunista, destando la reazione della redazione che premetteva all’articolo una critica del giudizio positivo espresso sul lavoro svolto dai comunisti.
Una critica che Gramsci accettava: «E fin qui niente di male» [11]. Senonché, «i giovani del tipo Quarto Stato» si erano spinti oltre, fino a scrivere il falso: «Non abbiamo dimenticato che la formula magica dei comunisti torinesi era: dividere il latifondo tra i proletari rurali. Quella formula è agli antipodi con ogni sana realistica visione del problema meridionale» [12]. Scontata la reazione di Gramsci che, nel riproporre i passaggi del suo articolo del gennaio 1920, accusava la redazione di aver inventato il tutto di sana pianta, aggiungendo sarcasticamente che di magico esistevano «solo l’improntitudine e il superficiale dilettantismo dei “giovani” del Quarto Stato» [13].
Nella lettera per la fondazione del quotidiano «l’Unità» del 12 settembre 1923 [14], rivolgendosi ai dirigenti del Partito comunista, nel proporre la linea editoriale, Gramsci sottolinea con chiarezza che il nome del nuovo giornale di sinistra «avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’Esec. All. sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale». In definitiva, di fronte alle tendenze autonomistiche e alle prospettive di decentramento dei settori di sinistra dei popolari e dei democratici, Gramsci proponeva per il futuro governo operaio e contadino una «Repubblica federale degli operai e dei contadini».
Nella relazione tenuta il 24 febbraio 1926 al III° Congresso del Partito Comunista [15], tenutosi in Francia a Lione, Gramsci dedicava una parte consistente alla «quistione agraria» del Mezzogiorno. Il congresso riconosceva nella massa contadina meridionale, «dopo il proletariato industriale e agricolo dell’Italia del nord, l’elemento sociale più rivoluzionario della società italiana» [16], oltre che determinante per la lotta al capitalismo.
Secondo il politico sardo occorreva sottrarre i contadini meridionali dall’influenza della borghesia agraria che li trasportava verso il fascismo, tramite un’organizzazione interna al partito che avesse il compito di avvicinarli al mondo operaio industriale del Nord. A tal fine, il partito doveva impegnarsi a distruggere «nell’operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandiosi sviluppi dell’economia nazionale», ma occorreva anche vincere nel contadino meridionale «il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli vede nel nord d’Italia un solo blocco di nemici di classe» [17].
Di lì a pochi mesi l’intellettuale avrebbe scritto Alcuni temi della quistione meridionale, il testo ritenuto più esauriente e specifico sulla questione meridionale.
Michele Eugenio Di Carlo
N O T E
[1] F.Giasi, Gramsci e il meridionalismo da Salvemini a Dorso, in Lezioni sul meridionalismo, a cura di Sabino Cassese, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 115-116.
[2] A. Gramsci, Il Mezzogiorno e la guerra, in «Il Grido del popolo», 1° aprile 1916.
[3] A. Gramsci, Il Mezzogiorno e la guerra, in La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 64.
[4] Ivi, p. 65.
[5] Ivi, p. 66.
[6] A. Gramsci, Clericali e agrari, in «Avanti», Ediz. Piemontese, 7 luglio 1916.
[7] A. Gramsci, Operai e contadini, in «L’Ordine Nuovo», 2 agosto 1919.
[8] A. Gramsci, Operai e contadini, in «L’Ordine Nuovo», 3 gennaio 1920.
[9] A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in «Stato Operaio», Parigi, gennaio 1930.
[10] G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Torino, Piero Gobetti Editore, 1926.
[11] A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in La questione meridionale, cit., p. 156.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] A. Gramsci, Lettera per la fondazione de «l’Unità», in «Rinascita», 8 febbraio 1964; ora in A. Gramsci, La questione meridionale, cit., pp. 93-96.
[15] A. Gramsci, La questione meridionale, cit., pp. 123-153.
[16] Ivi, p. 149.
[17] Ivi, p. 151.