Prefazione di Lino Patruno
Il treno? Ma no, quella è roba dell’altra Italia, non lo possiamo avere anche noi. Come se non si stesse parlando di un normale mezzo di trasporto nato quasi duecento anni fa, ma chessò, di un razzo che fa la spola ogni settimana con Marte. Eppure Antonella Musitano riferisce che così si dice a Platì nell’Anno del Signore 2013, cioè oltre centocinquant’anni dopo quell’unità d’Italia che dovrebbe trattare tutti da figli e non da figli e figliastri. E si dice così non parlando dell’alta velocità ferroviaria, qualcosa appunto di marziano, ma del puro e semplice treno. Il quale si è sempre fermato prima di Platì, come il Cristo dello scrittore Carlo Levi si era fermato a Eboli. Terre ignorate da Dio e dagli uomini.
Ovvio che Antonella calchi i toni, ancorché sia vero che a Platì non si può arrivare col treno. È il paese dove ella è nata, sotto l’Aspromonte “maestoso”.
Vi si arriva attraverso un’unica sinuosa strada a due corsie, che dal mar Ionio sale fino lassù. Paese, descrive, dal pane non meno buono dell’olio di montagna, aria salutare e acqua abbondante, magari da bere a fiotti sul pecorino locale più piccante del peperoncino. Paese nelle cui strade tutti si salutano, dove si può lasciare la chiave nella toppa delle porte, dove l’ospitalità è una regola tramandata dalla civiltà greca. Ma inutile continuare a girarci attorno, anche paese capitale della’ndrangheta, fra le più feroci criminalità organizzate del mondo.
Ma allora domandiamoci: c’è la’ndrangheta perché è poco diffuso il senso dello Stato, o c’è la’ndrangheta perché non c’è mai stata sufficiente presenza dello Stato? C’è la’ndrangheta perché la gente non è civile, o perché l’inciviltà dello Stato ha lasciato la gente sola? C’è la’ndrangheta perché i nativi sono delinquenti nati, o perché non ci arriva neanche un treno e lo stesso Cristo si è guardato bene dal farsi vedere?
Ecco come un piccolo paese della Calabria più estrema diventa il simbolo di qualcosa più grande e altrettanto estremo: la disunità d’Italia, l’Italia ineguale senza giustizia, l’Italia del Nord e del Sud, di un’Italia e di un’altra Italia, col treno e senza il treno. Incredibile, dopo 150 anni.
Siccome Antonella Musitano non è bighellona da Bar dello Sport, dove si chiacchiera sul sentito dire, questo suo prezioso libro è la dimostrazione che si può fare storia anche fuori dai Sancta Sanctorum della storia. Documentazione per ogni affermazione, come si conviene del resto a una docente di scuola media che abitualmente non spaccia patacche ai suoi ragazzi. Con un risultato per la verità, e per fortuna, sempre più noto, ma che non è mai male ribadire, specie se sostenuto da ricerca rigorosa e carte che cantano. Il risultato è il doloso cammino col quale il Sud è stato fatto diventare Sud alla Platì. Ed è il truffaldino pregiudizio col quale se ne è attribuita ad esso stesso la colpa. Se non da delinquente nato, da sottosviluppato nato: quindi si pianga se stesso, anzi la smetta pure di piangere.
Per carità di patria sia pure matrigna, mi astengo dall’imbarcarmi nell’astiosa polemica su chi fosse meglio prima dell’Unità, più ricchi meno ricchi, più “poveri ma belli” o più “belli ma poveri”, più ferrovie meno ferrovie, più oro di Napoli o più debiti di Torino. La stessa storia dei Sancta Sanctorum dell’accademia universitaria comincia a vacillare sulle sue sospette inossidabili convinzioni a danno del Sud. E ci sono autori, da Bevilacqua a Martucci, da Daniele e Malanima a Savona, da Fenoaltea e Ciccarelli a Macrì, da Di Rienzo a De Francesco, dagli (udite udite) ex ministri Tremonti e Brunetta all’Istat, dalla Banca d’Italia alla Svimez a certificare che al 17 marzo 1861, quando il Regno d’Italia fu proclamato, non c’erano un Nord e un Sud come li ritroviamo oggi. Cominciarono a esserci dal 18 marzo.
Le scelte gloriose dell’Italia una e indivisibile hanno portato a un divario che non ha pari in nessun altro Paese occidentale moderno. Due Italie e molto divise. Il fallimento di un’intera politica nazionale, ha detto un osservatore neutrale come Gunnar Myrdhal, svedese premio Nobel per l’economia. E una sintesi di come sia avvenuto ce lo dà la nostra Antonella quando non cita un brigante qualsiasi ma un monumento come Francesco Saverio Nitti, maestro di scienza delle finanze e poi capo del governo. Ogni decisione da quel 18 marzo fu presa nell’interesse dei vincitori a danno dei vinti, sistema rapido per schiantare una parte del Paese a vantaggio dell’altra.
Magari Nitti era un meridionale e, ammettiamolo, un po’ di parte poteva esserlo. Fatto sta che a confermare per filo e per segno tutte le sue conclusioni fu un signore che si chiamava Luigi Einaudi, che non solo era prestigioso collega di Nitti, non solo diventò presidente della repubblica, ma soprattutto era campione di quel do-minante liberismo mondiale in nome del quale fu adottato il sistema rapido per schiantare il Sud. Antonella lo ricorda non per un’astuzia dialettica, ma come sofferta conferma di una verità della storia. Le pagine che vi dedica sono impressionanti per fatti, date, dati citati.
Poi c’è tutto il resto, e che resto. A cominciare dal brigantaggio, sommariamente liquidato come fenomeno criminale dalla storia dei vincitori, ma qui riletto come fenomeno di protesta sociale da parte di un Sud sedotto e abbandonato. E c’è qui una chicca del libro: il racconto del processo a un capo brigante del posto, con tanto di documenti originali scovati in archivi finora inaccessibili a tutti ma non a una segugia come la nostra autrice, indifferente alla fatica delle polverose carte quanto eccitata dall’idea della presa diretta e della verità. La verità di una legge Pica paragonata alle leggi razziali del fascismo. La verità di una guerra forsennata più determinata a cancellare una protesta che a dare pace e giustizia al territorio sottomesso.
Ma la conquista militare, dice Antonella Musitano, andava completata con ogni mezzo perché fucili e forche spianassero al più presto la strada alla conquista economica, cioè alla rapina. E la tecnica eterna del colonialismo: prima i soldati per uccidere poi gli squali della finanza per rubare. Magari definendo selvaggi i conquistati. Con un sedicente scienziato psicopatico assoldato allo scopo, quel Lombroso che si inventò appunto i meridionali come delinquenti nati. E che 150 anni dopo, anzi proprio per celebrare i 150 anni, si è visto onorato dall’apertura di un museo pubblico a lui dedicato a Torino tanto quanto ne sono disonorati i poveri resti di meridionali cui mai è stata concessa la dignità di una sepoltura.
La battaglia per la chiusura di questo trionfo della disumanità e di questa vergogna dell’umanità ha visto la costituzione di un Comitato che acquisisce tante adesioni quanto si scontra con una ipocrisia nazionale indifferente a ogni ragione che sia troppo sudista. Resto del Paese, coerente con la interessata convinzione di un Sud palla al piede del Paese, quando ne è l’unica possibile salvezza. Sempre pronto a definire il Sud una malattia, quando è la terapia della malattia che ha impantanato l’Italia. Sempre impegnato a cancellare quanto più Sud possibile, quando invece l’Italia ha bisogno anzitutto di più Sud. Sud come riserva di potenza di un motore finora costretto a un cilindro in meno. Sud come unico futuro di un Paese che da un ventennio decresce. Sud come patrimonio di gioventù, talento, voglia di fare, mortificato dalla sottrazione di mezzi per poter fare.
Quel treno per Platì, dice Antonella Musitano, non è solo un treno. È e sarà il rimorso di un Paese ingiusto che muore della sua stessa ingiustizia. Mettete quel treno a Platì e l’Italia ricomincerà da Sud. Forse è il motivo più vero per cui non lo mettono. Perciò anche questo non è solo un libro, è l’ultimo tentativo per evitare il suicidio collettivo di un Paese che, eppure, potrebbe essere bellissimo.