La normalità stravolta, quasi negata
L’Italia da lunedì sera è una nazione protetta; chiusa tra i suoi confini, non per le manie di qualche politico, è in auto quarantena per far fronte all’emergenza “Coronavirus”. L’OMS dichiara lo stato di pandemia e il governo Conte, attraverso continui aggiornamenti, ha previsto la chiusura di tutti i negozi fatta eccezione per le farmacie, le attività del settore alimentare, edicole e tabacchi.
Non è il caso di citare numeri, dati e statistiche, l’informazione italiana e la Protezione Civile parlano alla popolazione quotidianamente attraverso i canali comunicativi più efficaci. Siamo invitati a restare in casa, anche perché all’esterno ci sarebbe ben poco da fare; una sorta di modello Wuhan, ridotto nei numeri ovviamente, (la Cina ad oggi sta cominciando a rispondere positivamente all’avanzata del virus) che garantirebbe, in circa 15 giorni, una sostanziale battuta di arresto del Covid-19.
A un certo punto ci viene chiesto di fermarci, di vivere le giornate tra le mura domestiche e di evitare le uscite; si fa ampiamente richiamo a quel senso civico troppo spesso abbandonato, lasciato a poltrire durante le corse per andare a lavoro, per raggiungere la metro o la cassa del supermercato e per evitare agilmente le auto nel traffico delle città; tutti in preda a una fretta incontrollata, a uno scadere del tempo che stabilisce le nostre capacità lavorative, il nostro modello di vita e la quantità di lavoro prodotta.
Scadenze, premi, “l’azienda siamo noi” (col cavolo dice il manager di turno), elementi di una condizione sociale a cui siamo sottoposti quotidianamente da anni, improvvisamente cedono dinanzi al potere di un’epidemia globale. Si nasce con la fretta nelle vene, con aspirazioni spesso velleitarie e con alle nostre spalle una paura incontrollata di fallire. Altro che paranoia da quarantena! “Non ho tempo” è l’emblema sventolato di questi anni. Cinque giorni a settimana non si vive, si sta chiusi in azienda, in ufficio o dove vi pare a sperare in una pacca sulla spalla dal capetto di turno, a implorare un aumento di stipendio e a bestemmiare per un contratto di apprendistato rinnovabile ogni tre anni. In più, l’azienda ha deciso di costruire un supermercato al suo interno e una palestra vicino alla zona uffici, in modo da poter allenare il corpo, magari durante la pausa pranzo; oppure fare la spesa per la cena senza nemmeno uscire dal palazzo, così che la perdita in termini di produttività sia ridotta al minimo e il dipendente, ormai inebriato dalla concezione aziendalistica della collettività, è completamente coinvolto nel ciclone, nel raggiungimento dell’obiettivo annuale. Sono processi che annullano la personalità, che mirano a evitare di creare i presupposti per una sana e umana diversità tra gli individui; la società come l’azienda, se non produci diventi inadatto alla quotidianità, se non riesci a omologarti allora sei fuori dal mondo.
Occhi spalancati notati in questi giorni sopra le asettiche mascherine. Tutto colpisce proprio per la normalità stravolta, quasi negata, un circolo vizioso interrotto che amplifica gli sguardi e che cerca conforto nell’altro. La quarantena abitua all’abnegazione e al senso comune, tutti uniti nella lotta e nella resistenza, per una volta realmente condivisa. La costatazione di non essere da soli in questo mare agitato rafforza la comunità, più di un vagone della metro stracolmo di pendolari con la testa china sui primi documenti arrivati sul telefono prima di giungere in ufficio.
Ci è stato indotto un pensiero che inevitabilmente ha prodotto degli esiti negativi sulla qualità della vita delle persone. Essere convinti che il sistema aziendalistico, attraverso operazioni che apparentemente allietano la giornata degli impiegati, è strutturato per il comfort del lavoratore è un ulteriore passo verso l’annullamento delle proprie reali esigenze. Così si accettano i primi piccoli insulti del capo, le prime disparità di genere, i primi obblighi verso il manager e gli obblighi verso sé stessi. Si consolida la routine e a quel punto l’anziano collega, quello con più esperienza, di conseguenza colui che ha dentro di sé il grado maggiore di soppressione, ci indicherà la giusta strada da intraprendere per proseguire il cammino verso l’autoeliminazione. E poi ci chiediamo come mai la depressione è il male del secolo?
Per una volta, seppur drammaticamente, il frenetico vivere è sostituito dalla lentezza della casa, dal vedere un film da troppo tempo evitato o dal leggere un libro che ci catapulti in una dimensione distante dall’angoscia di un male invisibile. La corsa ripartirà, tutti pronti a ritornare negli alveari di cemento armato a ingrassare, fisicamente non nelle tasche, sulle nuove poltrone acquistate dall’azienda.
Adesso però fermiamo il corpo, fermiamo il tempo e la gente. Cosa ci rimane tra le mani in questi giorni di auto esclusione? Una mente dolorante che dopotutto può ancora ingerire gli alimenti più graditi; ritroviamo la dimensione umana, la lentezza di un mondo antico che prepotentemente è stato stravolto senza mezze misure. È giunto il momento di rinunciare a piccoli pezzi di libertà, a piccoli frammenti della tanto amata democrazia a cui siamo indissolubilmente legati, per affrontare il virus. Questo è sicuramente un periodo drammatico, forse uno dei peggiori del nostro tempo; lo stop ci obbliga a stare in casa e per una volta ascoltiamoci senza fretta, l’uno con l’altro per dar voce alle nostre paure, ai nostri desideri e alle nostre avide menti.
Venerdì 13 Marzo 2020
Gianmarco Castaldi