Riproponiamo alcuni :
La morte chiedeva silenzio. Ricordo che anche quella di un vicino imponeva compostezza, neanche la radio si poteva accendere e ai bambini si insegnava rispetto : non si poteva ridere. Il silenzio era rotto dai pianti strazianti, il dolore accomunava e legava al significato dello stare in vita. Quanto diverso è ora il “riposo” nelle bare, la morte d’applausi resa show inquieta chi altra strada percorre, su ponti d’amore che resistono al pubblico che domani sarà negli stadi con altri applausi.
E per seguire scie, fossero chimiche le vedremmo in cielo,
abbiamo spento ciò che delle nuvole abbiamo
prima che pesanti si sversino nelle nostre ossa fragili
Quanti dolori o assenze o mute strade impedite abbiamo
affidato a chi spianate le loro da sassi appuntiti
hanno voluto parlare dei nostri punti di pelle bucati
senza chiedere conto all’oste
per quel vino bevuto nei calici dei viandanti divenuti corpi.
Ci siamo abituati a terre nude
non importa quanto sacramentate
abbiamo scelto per un eden, un peggiore inferno
e siamo innocenti, così agli occhi messi
in croce per un servizio a cui ci prestiamo
colpevoli.
Crolla tutto fuori, e dentro l’amaro
delle macerie nello stomaco
il fiele del cemento tra i denti
m’attacca la lingua al palato.
Urlavano al cielo fino a un tonfo
sono ora semi nelle mani
sangue.
Ci siamo allontanati senza un motivo
quello che avevavamo era troppo o troppo poco
proprio non sapevamo bastarci
nei momenti di lucida solitudine
Così ad uno ad uno sono usciti dalla mia porta tarlata
i pensieri, le speranze, le delusioni e sei rimasto
malato di quella perfezione inguaribile sniffata come una droga
eri lo spacciatore e il consumatore
il dio che mirava a Dio per deporlo con un colpo
ai libri e al comando
Questo tempo che passa e consuma
ancora la bocca ti apre a sentenziare bellezza
mentre il corpo marcisce e ti sgretola
da dentro le ossa più non ti tengono
e neanche ti accorgi che cadi
sui corpi dei tuoi fedeli, martiri
come un ponte assassino.
Guardando quel ponte lontano crollare, vedendo la paura della gente, la morte che accomuna al dolore del senso dello stare per poi scomparire, tutti, pensavo fosse finita e altro non restava che contare chi in un momento è stato portato via, lontano da chi non potrà sopportare la loro assenza. Ho pensato alla terra che sfalda, che si libera di noi, di quella finestra che si è aperta sul fiume, lì dove l’acqua si unisce al mare uno spazio come una ferita aperta da cui sono fuoriusciti uno ad uno e non hanno più avuto età. Ma oggi, proprio non s’accontenta e inquieta ci scuote dal silenzio della notte per quei morti lontani a cui nessuno può dirsi salvo quando il piede sulla terra pesa come uno squarcio in cielo. Ha anche tremato la nostra paura, la terra oggi.
Alla mia morte non avrete mani
voglio il silenzio composto
e il pensiero rivolto alla terra
E non portate fiori recisi
non hanno colpa loro della nostra dipartita venite di luce che ne dovrò fare di strada e il buio m’acceca, un po’ anche mi spaventa.
Ma forse non verrete e non sarà tanto importante anche gli ignoti si tengono per mano scampati all’acqua, o al fuoco, o ad un crollo vivo sanno amarsi come i vivi sanno d’odio.
Madre, l’onda sta cavalcando il mare e non vedo più terra che offra ai piedi scampo. La notte ha lo stesso colore del giorno e aggiungo al mare gli occhi che mi asciugavi di lacrime. Di certo il tuo dolore è l’anima del mio, che da te ha avuto origine come fosse il nostro un canto di nascita strappato al tuo seno. Madre, più non saprai delle mie ore, più delle tue saprò se tante o poche o finite tra il legno di questa nave messo a croce. Un giorno il tempo ci riconsegnera’ alle braccia che ho avuto appese a quest’albero maestro, le tue tenute in attesa, rinsecchite.
Enza Armiento