LO SCRITTORE CIPOLLONE RISCOPRE LA STORIA DELLA BASILICA LATERANENSE
La Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma raccontata attraverso la sua storia, i messaggi dei Papi, i personaggi e le vicende che ne hanno determinato la vocazione. E’ una proposta editoriale non rivolta prettamente a chi vive a Roma o agli specialisti di arte romana, ma è per tutti, come ha tenuto a specificare Mario Cipollone, autore del libro presentato ieri in un’affollata sala nell’hotel Meeting di Sulmona. Un evento interessante, promosso da Banca Generali, in quanto stimolanti sono stati anche gli interventi dei relatori, i quali sono riusciti a catturare l’attenzione del folto pubblico, presentando il libro attraverso diverse sfaccettature, conducendo anche un parallelismo con il nostro territorio, culla di preziosa e importante cultura. Al tavolo: Alessandro Di Tunno, District Manager di Banca Generali Private, Rosanna Tuteri, funzionario archeologo Sabab, Antonio Di Fonso, insegnante e giornalista, Giovanni Ruscitti moderatore. A dare contributi, stimolando riflessioni, sono stati anche il Vescovo Michele Fusco e il sindaco di Sulmona Annamaria Casini. “San Giovanni in Laterano tutta un’altra storia”, questo il titolo (edito da MCC Edizioni), non è in realtà un romanzo né una guida, ma un libro che fornisce spunti di riflessioni riuscendo, in 140 pagine, a non banalizzare i temi e a non essere accademico, attraverso una rilettura che non è architettonica della famosa chiesa, la prima della cristianità e cattedrale del Papa, fondata dando le spalle alla città. L’autore, nell’illustrare la copertina, che trae spunto dall’affresco di Giotto, che raffigura il sogno di Innocenzo III, fa riferimento all’attualità. Un’occasione per effettuare un viaggio straordinario nei secoli, attraverso fatti e personaggi eccezionali nellla Città eterna. L’autore ha concluso il suo accattivante discorso, con l’invito ai presenti a recarsi a Roma,perché dopo aver letto questo libro, la visita alla Basilica romana avrà un sapore diverso.
Roma. San Giovanni in Laterano. Com’era la prima chiesa della cristianità e cattedrale del papa.
La favolosa Basilica Aurea
La Basilica innalzata a quel nuovo e, per molti aspetti, strano e misterioso dio, in quel lontano giorno di mille e settecento anni fa aveva pressappoco le dimensioni della San Giovanni attuale. Eretta alla periferia est di Roma, poteva competere con le più grandi basiliche del centro città, cioè con la Giulia, la Ulpia e persino la Nova ( più nota come basilica di Massenzio).
Si trattava di un’aula rettangolare, lunga quasi cento metri e larga circa sessanta, coperta con capriate a vista o forse no, divisa in cinque navate da una foresta di oltre settanta colonne, per lo più di spoglio, con capitello ionico o forse corinzio. Di esse una trentina, altissime, in marmo giallo di Numidia, sostenevano le trabeazioni sui due lati della navata maggiore; le altre invece, più piccole, erano di marmo verde antico e sorreggevano le arcate delle navate laterali, di altezza e larghezza decrescenti ( riutilizzate in parte tredici secoli dopo da Borromini per ornare le edicole degli Apostoli).
Le pareti della navata centrale erano, secondo alcuni, decorate a mosaico con storie del Nuovo e Antico Testamento come nell’attuale Santa Maria Maggiore. Il pavimento invece era delimitato dalla solea, cioè dalla passerella che consentiva al clero di avvicinarsi ai fedeli in particolari momenti della liturgia. Si discute sulla presenza o meno di un quadriportico antistante, come nell’attuale San Paolo fuori le mura, e del transetto.
Entrando in Basilica lo sguardo andava naturalmente verso il presbiterio, non rialzato come l’attuale, ove erano posti il seggio del vescovo e sette tavole d’argento del peso, secondo alcuni, di sei quintali e mezzo ciascuna. Una, forse sormontata da un ciborio, utilizzata come altare del sacrificio, le altre destinate ad accogliere le offerte dei fedeli. L’aula era illuminata da fasci di luce che piovevano, abbondanti, nella navata centrale da una teoria di alte finestre nonché da cento lampadari e sessanta candelabri d’oro e d’argento. La luce delle candele era moltiplicata nell’abside grazie al catino completamente rivestito con lamine d’oro. Alcuni congetturano vi fossero le immagini musive di Cristo e della Croce, cioè gli elementi della visione avuta da Costantino il giorno prima della battaglia di Ponte Milvio. Altri lo negano ritenendolo il cristianesimo primitivo aniconico perché sorto da una costola dell’ebraismo.
Ma forse la parte più preziosa della Basilica era data dal fastigium argenteum che separava la navata centrale dal presbiterio. Si trattava di un monumentale timpano d’argento, o forse di un ciborio, posto su quattro importanti colonne di bronzo dorato ( ne restano tre, oggi collocate nell’altare del SS Sacramento). Quanto alla provenienza del bronzo c’è chi afferma venisse da alcuni reperti etruschi rinvenuti nell’area di Tarquinia o di Civita Castellana, e chi dalla fusione dei rostri delle navi di Cleopatra o della porta regia del Pantheon. Alcuni pensano invece alle colonne del palazzo di Costantino sul Palatino, mentre altri propendono per quelle di un tempio, salvo poi individuarlo in quello di Salomone a Gerusalemme, ovvero di Giove Ottimo Massimo o della Nemesi sul Campidoglio. Insomma Baudolino di Umberto Eco, in preda a certi fumi, non avrebbe immaginato provenienze più diverse e favolose.
Il timpano, secondo alcuni, era decorato da una serie di statue, alte un metro e mezzo. Nella parte anteriore rivolta verso la navata, Cristo stava seduto tra i dodici gli apostoli; in quella opposta tra quattro angeli. Tra le colonne pendevano candelabri, ovviamente d’oro.
La costruzione appariva tanto scarna ed essenziale fuori, tanto fastosa all’interno. Sarà stato per le colonne gialle della navata centrale o per quelle di bronzo dorato del fastigium. Sarà stato per i candelabri ovvero per il catino absidale rivestito di lamine d’oro, ma la Basilica fu per molti anni, semplicemente, la Basilica Aurea. Una definizione che evoca la sorpresa, la novità, l’incredulità e la meraviglia che doveva suscitare in chi vi entrava.
( da San Giovanni in Laterano:tutta un’altra storia di Mario Cipollone, mmc edizioni – Roma)
La facciata di San Giovanni in Laterano.
Lo Spirito Santo si fece carico del problema. Al conclave del 12 luglio 1730 suggerì ai cardinali riuniti in conclave di eleggere un papa nato a Firenze, città di banchieri, ove l’arte di reperire fondi s’imparava da piccoli. Si apprendeva in famiglia, a scuola, per strada. Lorenzo Corsini dimostrò di essere stato particolarmente diligente, confermò l’assunto perché, il 9 dicembre del 1731, a poco più di un anno della sua elezione a papa col nome di Clemente XII, trovò un modo semplice, efficace e indolore per tosare il suo gregge: legalizzò il gioco del Lotto. E pensare che, appena tre anni prima, il suo predecessore l’aveva abolito minacciando di scomunica chiunque vi avesse partecipato. Secondo Benedetto XIII, infatti, pugliese di Gravina, contraddiceva uno dei primi e più importanti dettati divini. Tale era quello con cui il Padreterno, cacciando Adamo dal Paradiso Terrestre, aveva condannato lui e l’intero genere umano a guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Ebbene il Lotto prometteva esattamente il contrario. E siccome qualche volta lo realizzava pure, non smentiva mai le promesse, ma le rinviava di settimana in settimana con ciò perpetuandosi all’infinito. Un vero strumento del diavolo!
A Roma se ne ebbe la prova provata. Una volta introdotto, il Lotto interpretò così bene lo spirito dei tempi che i romani, che avrebbero fatto un quarantotto ante litteram se il papa avesse rialzato di un solo millesimo la tassa sul sale o sul vino, fecero a gara a pagare l’imposta sottostante. Gli introiti furono così abbondanti che Clemente XII, facendo sua l’opinione di Vespasiano circa l’odore del denaro, ci finanziò non solo la costruzione della facciata di San Giovanni ma anche altre opere, tra cui la famosa Fontana di Trevi.
Al concorso per la facciata parteciparono ben ventisette architetti ma, sostanzialmente, si confrontarono due sole scuole, due orientamenti, anzi due cardinali: Pietro Ottoboni, nipote di Alessandro VIII, e Neri Corsini, nipote di Clemente XII e arciprete della Basilica. Il primo avrebbe voluto riprendere il linguaggio del Borromini, mentre il secondo era favorevole al ritorno al classicismo, lo stile dell’assolutismo europeo. Ovviamente prevalse il secondo che non fece vincere il progetto migliore ma, nelle migliori tradizioni italiche, un compaesano, il fiorentino Alessandro Galilei, nipote del celebre scienziato. E fu così che la superficie piana prevalse su quella concavo-convessa, la linea retta e spezzata su quella ondulata e continua. E fu così che la fantasia, il ricamo e la decorazione furono sacrificati al rigore, alla semplicità e all’imponenza, rendendo permanente il contrasto tra la facciata neoclassica e l’interno barocco della chiesa.
La Basilica di San Giovanni avrebbe dovuto sfidare la sua eterna rivale, San Pietro, su un altro piano, e invece l’affronta sullo stesso terreno e inevitabilmente perde il confronto. Entrambe le facciate sono in travertino e comprendono un porticato e una loggia sovrastante. Entrambe sostengono un timpano e una balaustra affollata di gigantesche statue con un ordine colossale di paraste e semicolonne corinzie. Ma l’ordine gigante del Galilei non è quello del Maderno. Tanto è caldo e mosso questo, quanto è freddo e impietrito quello. A San Pietro vuoti e pieni si alternano in modo plastico, a San Giovanni invece prevalgono i vuoti e l’edificio mostra muscoli induriti. Quanto ai portici, quello del Maderno assomiglia al ridotto di un teatro e fa impallidire quello concorrente, almeno quanto la porta del Filarete surclassa quella già appartenuta alla Curia Iulia e la moderna statua di Costantino del Bernini supera l’antica.
A San Giovanni poi si vede anche nei dettagli che lo spirito del Rinascimento è ormai sepolto. Al centro della trabeazione, per esempio, è inciso il nome del primo titolare della basilica, cioè di Cristo Salvatore, e non quello del papa (Paolo V) e della sua famiglia (Borghese) come accade invece, incredibilmente, per un atto di orgoglio inaudito, a San Pietro. Non che Lorenzo Corsini si considerasse inferiore o fosse meno presuntuoso di Camillo Borghese: erano solo mutati i tempi. Tant’è vero che, all’interno della Basilica, fece costruire per sé e per la sua famiglia una cappella mausoleo che poteva competere con quella di Paolo V in Santa Maria Maggiore. Anzi, riprendendo una tradizione del XII secolo, per la sua tomba utilizzò addirittura il sarcofago di porfido del Pantheon in cui erano state riposte le ceneri di Marco Agrippa, genero dell’imperatore Augusto. La cappella Corsini è ricca di marmi preziosi, di stucchi, di statue e bassorilievi. Come osservò Stendhal nelle sue Passeggiate Romane non le manca nulla se non il genio degli artisti.
(da San Giovanni in Laterano: tutta un’altra storia di Mario Cipollone, mmc edizioni – Roma)