Torre del Greco e Genova sono entrambe città di mare. Ed entrambe, a modo loro, sono state protagoniste di un evento importante per il teatro e per la Campania.
Una piccola compagnia della città Vesuviana, la Mediamusical, è arrivata fra le prime tre in tutta Italia al premio organizzato dalla FITA (Federazione Italiana Teatro Amatori), con lo spettacolo “Ferdinando”, diretto da Liborio Preite e tratto dalla grande opera di Annibale Ruccello. La premiazione si è tenuta al Palazzo Ducale del capoluogo ligure, dove la compagnia era presente al gran completo. Ne abbiamo parlato con il regista.
Liborio, come siete arrivati fin qui?
Ogni spettacolo che vince un premio regionale ha poi accesso alle selezioni per la competizione nazionale. Solo in Campania eravamo circa 90; in tutta Italia 1600. Da questi spettacoli viene poi tratto l’elenco dei 10 finalisti, tra cui vengono indicati i 3 che si contenderanno il premio finale. Da 1600 a 3 è un bel percorso: non ho quindi nessun problema a dire che abbiamo esultato in modo pazzesco appena saputa la notizia. Per noi arrivare qui, pur senza vincere il premio finale, è stato un risultato enorme. E non ci arrendiamo. Bisogna organizzarsi per arrivare primi in futuro. Questo è il nostro obiettivo.
Parliamo un po’ dello spettacolo. Ferdinando, di Annibale Ruccello. Com’è stato confrontarsi con un nome così “ingombrante”?
Conoscevo l’opera di Ruccello fin da adolescente, quando lessi la sua straordinaria tesi di Laurea sulla “Cantata dei Pastori”. Imparai quindi ad amarlo come scrittore, prima ancora che come regista teatrale. Passo, quest’ultimo, che feci grazie alla sublime interpretazione di Isa Danieli in “Ferdinando”. È normale che ci sia un riferimento così enorme davanti quando decidi di affrontare un’opera come questa. Mettersi in “competizione” non avrebbe senso e sarebbe controproducente. Ho cercato, quindi, di dare una lettura trasversale: ricreare quel limbo dove si muovono personaggi “distorti”, densi di passioni ma anche di ipocrisie obbrobriose. L’idea della distorsione è presente nelle scene come nelle luci, nella scelta di restituire i volti di taglio, quasi sempre a metà fra la luce e l’ombra. In teatro devi far immaginare molto il pubblico, non mettergli in mano cose già belle e fatte. Se riesci a stimolare l’immaginazione di chi guarda e ascolta, vuol dire che sei molti avanti nel perseguire il tuo obiettivo.
Proprio la recitazione è stata molto apprezzata, dal pubblico come dai giudici FITA. Come sei riuscito, da regista, a lavorare in modo così denso sugli attori?
Ho avuto anzitutto la fortuna di lavorare con persone molto in gamba: Titti Mauro, Carmela Esposito, Yari Mirko Alfano e Antonio Salvoni hanno amato il testo. Già questo significa essere ben predisposti a compiere un certo tipo di percorso. Abbiamo lavorato anzitutto sulla persona, oltre che sul personaggio. Ho chiesto loro di tirar fuori tutto, rispettando il ruolo, ma cercando anche di capire quali emozioni avrebbero provato, in prima persona, se si fossero trovati in una situazione del genere. I personaggi, come dicevo, sono molto sfaccettati e complessi: legarli a un solo sentimento sarebbe stato riduttivo. La chiave è: lavorare sull’originalità delle proprie emozioni senza emulare le opere precedenti, non avendo paura di mettere in campo le proprie idee.
Un grande lavoro è stato fatto anche su quella che potrei definire “colonna sonora”. Come mai la scelta di suonare musiche dal vivo, durante lo spettacolo?
Ti premetto che io non riesco a immaginare un testo senza musica. Anzi: prima scelgo la musica e poi il testo. Quando ho sentito un pezzo di Enzo Avitabile, “Don Salvato’”, l’ho subito associato a Ferdinando: una canzone che ti racconta lo strazio in cui l’umanità è arrivata; un personaggio, Don Salvato’ per l’appunto, che ci guarda dall’alto e osserva le condizioni in cui siamo. Una sensibilità e una visceralità che ho ritrovato appieno nel testo di Ruccello.
Immagino che anche la scelta delle proiezioni non sia stata casuale
Alla fine dello spettacolo viene proiettata l’immagine di un Cristo in croce. Ho voluto giocare sui simbolismi e lanciare un messaggio di speranza: una persona in croce che si prende tutti i nostri peccati, per quanto abietti possano essere come quelli messi in scena. Ecco, in questo forse mi discosto dalle intenzioni originali dell’autore: nel Ferdinando di Ruccello non c’è speranza. È un testo amarissimo, un pugno che ti colpisce in pieno stomaco. Io, però, un barlume di luce lo voglio sempre dare.
Domanda d’obbligo dopo un riconoscimento come questo: rimetterete in scena lo spettacolo?
Lo dobbiamo fare. Appena finiamo la rassegna teatrale ci rimettiamo mano e lo portiamo in giro, magari in tutta Italia. È una promessa che ci siamo fatti e che intendo rispettare.
Foto di scena di Vincenzo Magliulo
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