BRIGANTI E GALANTUOMINI, SOLDATI E CONTADINI. (Storie minime della Nuova Italia) – Valentino Romano
Titolo: Briganti e galantuomini, soldati e contadini
Sottotitolo: (Storie minime della Nuova Italia)
Postfazione di Enzo Di Brango
Descrizione: Volume in formato 8°; 168 pagine.
Luogo, Editore, data: Reggio Calabria, Laruffa, 2016
ISBN: 978-88-7221-807-5
Prezzo: Euro 13,00
Disponibilità: In commercio
Le storie del presente volume, rigorosamente tratte da documenti d’archivio e d’epoca, raccontano del sogno contadino di un’esistenza normale, travolto dal rivolgimento unitario. Sono storie di ordinaria quotidianità in un mondo che crolla sotto i colpi del nuovo che improvvisamente avanza
: comparse spesso inconsapevoli sul palcoscenico della storia maggiore, si alternano soldati e contadini, monaci e giudici, briganti e guardie nazionali, profittatori e sfruttati, galantuomini e politici, idealisti e avventurieri, carnefici e vittime. Tutti strumento di un progetto che apre strade nuove ma che schiaccia l’umanità dolente delle classi subalterne.
Briganti e galantuomini, soldati e contadini
redazione http://www.ilsudonline.it/ 23 marzo 2016
di Giuseppe Antonio Martino
Briganti e galantuomini, soldati e contadini, edito da Laruffa, l’ultimo lavoro di Valentino Romano, uno dei più autorevoli storici del brigantaggio postunitario italiano, è giunto in libreria quasi inaspettato.
Eravamo in molti ad attendere una monografia sul generale catalano Josep Borges e sul suo tentativo di riconquistare ai Borbone, cercando di sfruttare il brigantaggio, il Regno delle due Sicilie, ma lo studioso pugliese, com’è sua abitudine, tra il serio e il faceto, ha stupito tutti, ancora una volta: ha dato alle stampe questo lavoro che sembra porsi sulla scia di una sua precedente pubblicazione, Nacquero contadini, morirono briganti, ma che a me pare, condito com’è di fine ironia, riesca meglio a coinvolgere il lettore nell’opera di ricostruzione, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, dell’amara verità sul processo di unificazione della penisola italiana.
La storiografia ufficiale ha inculcato nelle menti di generazioni la convinzione che, dal 1848 al 1861, dalle alpi allo stretto di Sicilia, si udiva un grido solo “l’indipendenza dell’Italia” e non esistono, purtroppo, cronache, analisi, ricostruzioni critiche ufficiali, capaci di fare luce sulle vicende che hanno portato all’occupazione sabauda del Meridione.
È necessario ricorre a versi rimasti nascosti nei cassetti della scrivania di chi li ha scritti, come nel caso dell’abate Martino da Galatro, o ricercare negli archivi atti di processi intentati contro povera gente o singoli briganti che le autorità del nascente regno unitario non si sono preoccupate di distruggere, forse perché li ritenevano di poco conto ai fini della grande storia che è stata scritta dai vincitori, nascondendo sotto la cenere dei villaggi incendiati le crudeltà e le nefandezze operate senza scrupoli, in nome di una malintesa fratellanza mai realizzata, da un esercito occupante, non dico con la complicità, ma certamente con la connivenza delle gerarchie militari, sempre pronte a giustificare e a occultare prove inconfutabili della barbarie dei tanto “civili” soldati piemontesi.
Forse qualche decennio più tardi, quando a Napoli si cantava Chi ha avuto, ha avuto … Chi ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato, i nostri governanti hanno pensato che l’indottrinamento operato raccontando, nelle scuole di ogni ordine e grado per più di un secolo e mezzo, storielle di eroi garibaldini in camicia e rossa e di altruisti bersaglieri dal cappello piumato avesse dato il suo risultato attribuendo loro il ruolo di liberatori e quello di imbelli traditori ai combattenti borbonici.
Mi vien da pensare che nel XIX secolo proprio quando i Savoia, ergendosi a “civilizzatori”, ci raccontavano la favola di un Sud arretrato e di re Borbone incapaci, riscrivendo a modo loro la storia, negli Stati Uniti, al contrario, dopo la guerra civile, i vincitori innalzavano monumenti ai vinti, per riconoscere il loro eroismo di patrioti, forse avversari, ma certamente degni di essere indicati ai posteri come combattenti degni di onore. Ma da noi si sa … la politica, da sempre menzognera, non è fondata sull’onestà e non tende, come affermava Tommaso d’Aquino, a garantire la pienezza della vita umana, mira bensì all’affermazione di pochi che garantiscono i loro stessi privilegi.
Menomale che in questa nostra dissestata penisola vive anche qualche rompiscatole (così nella postfazione è stato definito Valentino Romano da un altro meridionalista di razza qual è Enzo Di Brango) che di tanto in tanto, documenti alla mano, dimostra che il sud non è stato annesso al regno dei Savoia con la complicità dei meridionali osannanti al libratore, ma che a quegli elargitori di “civiltà”, gran mangiatori di polenta che scendevano dal Nord, che incendiavano interi villaggi e violentavano le donne, si è opposto il popolo “minuto”, come allora si usava dire, considerato del tutto irrilevante, e ammesso che complicità e connivenza ci siano state la borghesia settentrionale, per sostenere l’ideale unitario nel Sud, le ha trovate soltanto in una minoranza di latifondisti meridionali, mentre gran parte della classe borghese restava indifferente, convinta gattopardescamente, allora come ora, che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi“.
Dopo l’unificazione, infatti, tra riduzione delle spese, imposizione fiscale e pareggio del bilancio fu, come sempre, soltanto la povera gente a essere fortemente penalizzata: la condizione economica peggiorò fino a imporre, a chi non aveva terre al sole, l’unica possibile scelta: “o brigante o emigrante”.
I fatti documentati in questo volume non testimonino singole vicende ma, accostati uno all’altro, diventano un mosaico capace di narrare eroismi, viltà, ferocia, povertà … e Valentino Romano, con la competenza di storico che gli è riconosciuta, pone all’attenzione di tutti anche l’endemico trasformismo della classe politica meridionale, del quale siamo ancor oggi quotidiane vittime e la cui causa, forse, va ricercata proprio nelle violenze e nelle angherie subite dai nostri antenati che hanno visto soffocare nel sangue la volontà di impedire che la loro patria fosse ridotta al ruolo di colonia.
I fatti narrati in questo libro, ricostruiti dopo un esame meticoloso di atti giuridici, cause e condanne contro povera gente, dimostrano inconfutabilmente che la massima parte del popolo meridionale non desiderava, come è stato fatto credere, quella “civiltà” tanto sbandierata, anche se i livelli di vita erano quelli che poteva garantire un reddito pro capite che era meno di un quarantesimo di quello di oggi.
Uno degli episodi contenuti nel volume ha particolarmente colpito la mia attenzione perché narra un episodio accaduto nell’aprile 1861 a Bagnara, un paese vicino a quello dove son nato. In esso Romano trascrive un passaggio del rapporto che un capitano dei Carabinieri mandava ai suoi superiori: “tamburi battenti scorrevano le vie, colpi di pietra andavano [sic] contro le porte, la popolazione si agglomerava nella strada gridando Viva Garibaldi. Viva Vittorio Emanuele… ” e reclamavano la “divisione delle terre comunali.” Ma più avanti, quel solerte ufficiale che in quella sua missione era accompagnato dai maggiorenti del paese, tra cui il latifondista De Leo, annotava che i cittadini, in strada, reclamavano ad alta voce “la divisione delle terre comunali state usurpate dai galantuomini.”
In poche righe è sintetizzato il fenomeno delle usurpazioni di terre demaniali, molto diffuso in Calabria dopo l’Unità, che rappresenta un’importante pagina della storia del nostro Meridione. Per meglio contestualizzare quella protesta del popolo bagnarese mi è necessario riportare un passaggio delle Disposizioni governative per lo stralcio delle operazioni demaniali nelle province napoletane, stampate Napoli, dalle stamperie nazionali, nel 1861. “Dopo la legge eversiva della feudalità in queste province napoletane del 2 agosto 1806, il Governo del tempo intese dare un fecondo sviluppo al principio della proprietà privata, disponendo, che si sciogliessero tutte le promiscuità di dominio e di usi, esistenti tra gli antichi feudatari, le Chiese ed i Comuni: che le parti assegnate in libera proprietà a questi ultimi fossero distribuite in quote ai cittadini più poveri di ciascun Comune, sotto la retribuzione di un annuo canone”.
A Bagnara in virtù di tale disposizione i beni dell’Abbazia di Santa Maria e dei XII Apostoli, fondata nel 1085 da Ruggero II il Normanno, avrebbero dovuto essere assegnati ai poveri se non le avessero già usurpate le famiglie più benestanti della città. Le proteste di cui parla Romano altro non erano se non il frutto delle vane illusioni generate dalle promesse fatte infingardamente da Garibaldi dopo lo sbarco a Marsala: il popolo, avendo creduto che finalmente, si potesse fare giustizia, si è ribellato per rivendicare i suoi diritti ma, come sovente capitava, si è trovato davanti l’esercito e i “galantuomini” uniti in losca associazione e capaci di imporre loro di tornare a casa.
Come a Bagnara, in tutta la Calabria sono stati i grossi possidenti ad appropriarsi della maggior parte delle terre migliori, lasciando ai piccoli coltivatori e ai diseredati i fonduscoli più improduttivi, ma addossando ad essi la responsabilità dell’usurpazione (cfr. Pasquale Poerio, La storia infinita delle terre demaniali in Calabria, «Incontri Meridionali», XIII, 1993, 2/3, 139-156.)
Concludo con una considerazione scontata: nei 155 anni che hanno seguito l’unificazione, la storia è stata studiata secondo le direttive politiche per sostenere ideologie e non per ricercare la verità e quel che è più grave è che per avere qualche notizia attendibile bisogna andare, come Valentino Romano, negli archivi non per studiare i grandi fatti della storia (che sono stati narrati dai vincitori), ma alla ricerca di minuzie quotidiane che, poste sotto la lente d’ingrandimento, ci fanno scorgere le verità nascoste che non possono non suscitare vergogna: i campi di concentramento non li hanno inventati i tedeschi nel secolo scorso; noi italiani, infatti, abbiamo dimostrato tutta la nostra genialità anche in quel campo un secolo prima. Ricostruire il nostro futuro con “piccoli mattoni” lasciati negli archivi perché, forse, considerati innocui al fine di scrivere la grande storia, non significa porsi controcorrente, con il risultato di non essere congeniali né agli storici di destra né a quelli di sinistra, ma vuol dire essere intellettualmente onesti perché, parafrasando Alberto Consiglio, i luoghi comuni non possono avere dimora nella biblioteca degli storici, ma solo sullo scrittoio dell’uomo di media cultura.
Valentino Romano Briganti e galantuomini, soldati e contadini Laruffa editore, Reggio Calabria 2016.