“Anima e corpo” delle donne fra santità e stregoneria
26 Gennaio 2023
Una storia dell’emancipazione femminile nel Medioevo. Dal marchio d’impurità agli altari oppure alla cenere
Daniele Abbiati
Le tre più grandi religioni monoteiste sono, in ordine di apparizione, l’ebraica, la cristiana, l’islamica. E per tutte e tre la donna è una sola. Non la femmina, ma la donna. La donna, cioè, diventa tale al primo menarca. Bene, potremmo dire, almeno su questo non si discute. Però c’è un però: le sue cose diventano cose di tutti, perché quel sangue versato ogni mese è considerato impuro. Ergo, per ebrei, cristiani e islamici la donna è irrimediabilmente impura. Male, dunque, anzi malissimo. Perché il marchio d’infamia non lo possono cancellare, tanto per fare tre nomi, né Ildegarda di Bingen, né Myriam bat Benaya, né Fatima bint ‘Abbas al-Bagdadiyya. La prima, che visse fra XI e XII secolo e che fu monaca, scrittrice, mistica, teologa, profetessa, guaritrice, erborista, naturalista, cosmologa, gemmologa, filosofa, artista, poetessa, drammaturga, musicista, linguista, e infine santa e dichiarata dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI nel 2012, è una celebrità del Medioevo europeo. Ma le altre due?
Myriam, ebrea yemenita della seconda metà del Quattrocento, era una eccellente copista e «nel colophon di uno dei suoi manoscritti (…) compare nelle vesti di madre che allatta il figlio mentre si dedica alla sua attività erudita. Myriam, infatti, si scusa con il proprio lettore chiedendo che non le imputi gli errori che troverà nel testo, perché lei è una donna e allatta»: un vertice di (auto)ironia difficilmente raggiungibile. Fatima, tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento insegnava in una scuola coranica di Baghdad, era esperta di legge e giurisprudenza e l’immagine di lei che viene tramandata è quella «di una donna anziana, che insegnava per giorni e giorni ai suoi studenti, parlando nella stessa moschea del Profeta e che, quando era stanca, appoggiava la testa sulla tomba di quest’ultimo per ritrovare la forza di continuare il suo insegnamento. Si dice che era solita consigliare il suo più famoso marito su come emettere le fatwa».
Le due citazioni le abbiamo tratte da Anima e corpo. Donne e fedi nel mondo mediterraneo (secoli XI-XVI), di Isabella Gagliardi (Carocci, pagg. 302, euro 30). Ora, a parte l’ultima parola della seconda citazione, che in Occidente suscita pensieri inquietanti, l’ebrea e l’islamica, proprio come la germanica Ildegarda, sono due esempi di donne che hanno saputo (e potuto) affrancarsi dal marchio dell’impurità. Altre lo fecero, in quei secoli intensi e in quel crogiolo di culture che era il mondo mediterraneo, dominato dai dettami ebraici, cristiani e islamici. Il percorso tracciato da Gagliardi ce le presenta, senza tuttavia estrapolarle dal contesto, senza farne delle eroine dell’emancipazione e della cultura. In questo senso, le capacità e l’intraprendenza ben si conciliarono con le lacune lasciate dagli uomini anche fuori dalle mura domestiche, come l’insegnamento ai bambini dei ceti più bassi, le cure mediche di ordinaria amministrazione, il disbrigo delle pratiche di economia domestica, e poi, per quelle rimaste vedove, la successione al marito anche negli affari (cantieri, flotte, commerci). E anche quanto alle arti, soprattutto la letteratura, pur poste ai margini della casta intellettuale, molte donne dissero la loro.
Infine, a chiudere il cerchio che si è aperto con le religioni, ecco le sante, o le beate o quantomeno le beghine. E qui si va a parare esclusivamente sul versante cristiano, poiché non vi è nulla di simile né nel canone ebraico né in quello islamico. Scrive Gagliardi che Caterina da Racconigi (1486-1547), beatificata nel 1808 da papa Pio VII, era «nota dalle sue parti con l’epiteto di masca di Dio, ossia strega di Dio, con riferimento alla sua presunta abitudine di volare, trasportata dagli angeli, di predire la morte delle persone e le condizioni atmosferiche, ma anche di curare. E, per curare, utilizzava persino materiali organici perlomeno curiosi come, per esempio, gli occhi e le lingue di rospo. (…) Ma i rospi erano i tipici compagni delle streghe, vista la credenza che fossero costantemente accompagnate da spiriti guida sotto forma di rospi, i quali erano inoltre materia prima per operare incantesimi di vario tipo». E poi c’è la beghina e teologa francese Marguerite Porete (1250/60-1310). Fu condannata al rogo a causa della sua opera Le mirouer, «un prosimetro in forma dialogica tra vari personaggi – Amore, Anima e Ragione – che mischia in sé temi tipici dell’amore cortese con alcune reminiscenze catare, nonché con certi temi filosofici».
Perché, sintetizza l’autrice: «Le donne a cui non veniva riconosciuto lo statuto di donne di Dio si avviavano a diventare le donne del diavolo, le temute spose di Satana». Insomma, considerate impure per nascita, alcune donne furono catalogate come diaboliche per vocazione. In Maleficia. Storie di streghe dall’Antichità al Rinascimento (Carocci, pagg. 281, euro 26), Marina Montesano ce ne offre una interessantissima galleria, sottolineando il «ruolo della cultura umanistica nello sviluppo della caccia alle streghe». Perché da sempre gli uomini preferiscono le streghe alle pie donne.
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