Stanno rubando l’anima dei paesi

Stanno rubando l’anima dei paesi
Vittorio Macioce – Lun, 31/07/2017

Qualche volta pensi che è come giocare a nascondino, magari non se ne sono davvero andati, perché ci sono ancora le insegne e serve solo trovare qualcuno che ci creda.

Poi ti accorgi che sulle vetrine c’è la polvere e quei negozi sono stati abbandonati, come chiese sconsacrate. Certi paesi non crollano, ma semplicemente si svuotano e non sai neppure dire quando è cominciata la fuga. Dieci anni di crisi economica lasciano cicatrici profonde su città come Roma, per un borgo di tremila abitanti è il miserere di una lunga agonia. Prima, ma tanto prima, sono spariti i ciabattini, perché c’è stato un tempo in cui neppure i poveri si facevano più aggiustare le scarpe. Poi si sono arresi i sarti, gli ebanisti, le mercerie dove trovavi tutto, i fruttivendoli che ti mettevano da parte le mele migliori. Poi un po’ alla volta tutto il resto: l’abbigliamento, le pasticcerie, il fabbro, il gommista, la gioielleria storica e il giornalaio che da anni non vendeva più giornali, poi i contadini smettono di portarti il latte a casa perché per legge non si può più. Il latte crudo, dicono, è sporco e fa male e pazienza se ci sei cresciuto. Quando cominciano a chiudere gli alimentari sai che è quasi fatta, poi si spegneranno i forni, gli ultimi saranno i bar.

C’erano estati che non si riusciva a camminare lungo quello che, per antica nobiltà, chiamavano il Corso. Li battezzavi turisti, ma molti arrivavano da Roma o da Napoli, oppure dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Scozia, dal Venezuela e in più numerosi dall’Ohio e qualcuno perfino da New York. Tutti andati via e tornavano per portare i figli dai nonni. Poi i nonni sono morti e i figli sono cresciuti e i figli dei figli non parlano neppure l’italiano e in paese non ci sono mai stati, forse non sanno neppure dov’è. Quello che resta, allora, è una terra di nessuno. Qualcuno dice che puoi solo ricordare, giri a passi lenti e lunghi, in silenzio, lungo i confini stretti dei vicoli, soppesando gli incroci. Giochi a pari o dispari con le pietre e poi scegli, qui la salita, là il passato, oltre il futuro. Quando non sai nulla, quando non sai dare un nome alle cose, alle strade, a quello che vedi, allora non esiste nulla. Allora segni luoghi, palazzi, negozi, volti come un cartografo del tempo perduto e non parli più. La mappa mi fa muto. Non c’è una colpa per tutto questo. Non per chi si è arreso e ha smesso di combattere con gli studi di settore, con l’idea che devi pagare le tasse sulla base di una simulazione partorita dalle ossessioni di un burocrate, uno che non sa che in Italia chi ha i soldi, in paese, forse risparmia, e mette fieno alle Poste, ma non spende e per welfare assiste i nipoti e il figlio appena divorziato. Questo allora è il momento di inventarsi qualcosa, a dispetto dello Stato, che tanto i paesini mica li vede. Sono punti spenti sulla mappa. Tocca a noi illuminarci e da qualche parte ci stanno già pensando.