I nostri Borghi e i nostri piccoli comuni

I nostri Borghi e i nostri piccoli comuni siano un Festival permanente di Arte e Bellezza

Di Angelo Crespi  29 Maggio 2023

 Il progetto delle domeniche di cultura, su cui sta lavorando CulturaIdentità e che potrebbe avere come giusto partner il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, incrocia la storia con la geografia, essendo concettualmente una riscoperta della propria identità attraverso la riscoperta del proprio territorio. L’idea è semplice ma può essere di grande successo: rafforzare cioè la programmazione culturale dei borghi e delle piccole città, inventando per ognuna un festival tipico, anzi trasformandole in sedi di festival permanenti con spettacoli, presentazioni di libri, mostre di arte, proiezioni di film, magari costruendo parchi dedicati all’arte contemporanea, così che luoghi spesso in difficoltà o periferici, in ogni caso di inesausta bellezza ma che subiscono lo spopolamento, diventino in modo definitivo attrattori turistici, diminuendo l’impatto sulle mete classiche e intasate, trovando ragioni esistenziali e di lavoro per nuovi abitanti. Sarebbe una rivoluzione culturale di imponenti dimensioni, sia economiche che concettuali. Libererebbe energie finora trattenute, pensiamo solo alle decine di migliaia di giovani che hanno studiato il marketing e la gestione dei beni culturali e che potrebbero essere richiamati a questo lavoro. Tra l’altro esisterebbero già i fondi del Pnrr allocati sul capitolo dei borghi e che potrebbero essere da subito spesi.

Dicevamo che il progetto ha un lato che attiene alla geografia, ma è ovvio che la riscoperta della propria identità potrebbe essere condotta, volendolo, anche semplicemente leggendo un libro e in questo caso non ci sarebbe necessità di alcun spostamento, il movimento sarebbe solo interiore e, al massimo, si potrebbe parlare di una geografia dell’anima. Se però diamo per scontato che l’identità profonda di una persona sia frutto dell’ambiente in cui vive, è ovvio che l’apprendimento storico non potrà che essere svolto attraverso l’immersione nel contesto di riferimento, cioè nel territorio di pertinenza. Questa immersione non può prescindere dalla vista, che è il nostro senso più sviluppato e quello che permette agli uomini di conoscere il mondo e la bellezza che da esso promana.

Dunque, la prima cosa è di vedere e visitare il territorio che ci circonda. Che, per il solo fatto di essere visto, diventa un paesaggio, cioè qualcosa di più di un semplice territorio naturale, un territorio in cui lo sguardo umano ne ha modellato il perimetro, in cui l’attività umana lo alimenta di senso. Il paesaggio è sempre frutto dell’attività umana, il paesaggio è perfetta compenetrazione tra natura e arte, tra natura e uomo. Quanto più il paesaggio contiene l’attività umana, quanto più in esso questa attività è stratificata ed è visibile il trascorrere dei secoli, tanto più esso contiene l’identità di chi lo ha vissuto in passato e potenzialmente è in grado di trasmetterla a chi lo vive nel presente. Per inciso, non bisogna confondere il paesaggio con il panorama, il panorama è una stilizzazione del paesaggio, il bel panorama è l’estetizzazione del paesaggio; se il paesaggio muove un giusto sentimento, il panorama induce al patetico sentimentalismo.

Ultima cosa: la potenza identitaria del paesaggio è tale che i suoi riverberi sono percepibili anche da uno straniero, il quale non solo potrà entrare in una relazione identitaria con essi, ma contribuire al suo ulteriore accrescimento. Byron sintetizzò bene il concetto con il verso Thou paradise for exiles, Italy, Italia paradiso per gli esiliati, comprendendo come il nostro Paese, per certe sue caratteristiche, potesse essere un paradiso per coloro che erano stati banditi dalla propria patria, cioè dispatriati e non a caso usava il termine “paradiso” che proprio nell’etimo ricorda il persiano “recinto” e per traslato “giardino”. E cosa è il paesaggio se non natura recintata, addomesticata, visto che invece la natura selvaggia è ostile e dunque è inferno, mentre la natura recintata diventa giardino? Il paradiso, essendo sicuro, ridà identità, dunque casa, dunque patria, anche allo straniero.

Paradossalmente, la scoperta di quanto ci circonda quanto meno si prolungherà geograficamente in orizzontale, tanto più potrà essere verticalmente storica e identitaria: per questo le domeniche identitarie, per essere efficaci, si dovranno svolgere, dal punto di vista culturale del visitatore, non come un viaggio ma, al contrario, come una gita da fare il più vicino possibile alla nostra casa, a piedi, in bicicletta appena fuori porta, se in macchina entro un raggio di chilometri raggiungibili in meno di un’ora. L’Italia è il Paese della provincia, si esalta nello Strapaese, ogni nostra città ha qualcosa dentro o vicino di straordinario, ogni nostro borgo è borgo a un altro, ogni nostra chiesa è pieve ad un’altra, ogni nostro castello è cinta di un altro, ogni nostro paesaggio è parte di un paesaggio più grande e di bellezza senza soluzione di continuità: case, palazzi, musei, piazze, vicoli, portici, sottoportici, calle e carruggi, dovunque la storia si è rappresa nelle pietre, ovunque nelle lapidi risuonano i nomi degli antenati e, come scriveva Ugo Foscolo, “A egregie cose il forte animo accendono/ L’urne de’ forti…”.

E’ necessario, insomma, ovviare alla deficienza di non conoscere le cose che ci sono prossime: dovendo assecondare la retorica del viaggiatore cosmopolita, abbiamo visitato le capitali del mondo, luoghi remoti e sperduti e siamo totalmente ignari di quello che ci circonda. Sta qui il gioco: riappropriarsi della propria identità significa approfondire la nostra conoscenza e i legami che ci radicano a un territorio, partendo dal punto in cui siamo e che contiene le memorie di chi ci ha preceduto, dei nostri antenati. La profondità è possibile solo se la circonferenza da scavare è limitata, solo così il lavoro non sarà vano. Aggiungiamo che anche il tempo è una variabile che deve indurci a concentrare le forze: essendo perituri, avendo vita limitata, ci è consentita solo la profondità limitata a un punto che il destino sceglie per noi, quanto al resto possiamo al massimo inebriarci della superficie delle cose. Ciò detto, l’idea delle domeniche identitarie non si riassume in una trovata sovranista, né deve tramutarsi in un esercizio di maquillage reazionario, bensì si esplica nella riappropriazione vera del senso di noi e della nostra civiltà, che solo conoscendola si può amare e dunque conservare per amore e non solo per utilità.

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