LE SICILIANE CHE PERMISERO L’IMPRESA DEI MILLE
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In Sicilia il mito di “Peppa ‘a cannunera” nasce il 31 maggio 1860, la Sicilia in fiamme mentre le camicie rosse di Garibaldi avanzano verso Palermo. A Catania neanche mille uomini guidati da Giuseppe Paulet – in redingote, cilindro e guanti bianchi – sfidano duemila soldati borbonici, saldi dietro le barricate. Ma è ormai la fine del regno borbonico, i tricolori spuntano a decine dai balconi, anche il popolo scende nelle strade a sostenere la resistenza. Tra di loro c’è una postina, Giuseppa Bolognani, nata 34 anni prima a Barcellona Pozzo di Gotto, il viso butterato dal vaiolo. Si ritrova al centro di un gruppo di insorti che conquista un cannone e lei mette in atto un piano ardito: lo fa piazzare nell’atrio di un palazzo, alle spalle dei borbonici. Poi ordina di spalancare il portone e lei stessa accende la miccia che scompagina le fila dei nemici che si riparano, abbandonando un cannone, ma restando barricati a sparare con gli archibugi. Giuseppa allora fa lanciare una corda con un cappio sull’affusto e lo fa trascinare dalla parte dei rivoltosi. Quindi lo fa piazzare alla Marina e inizia la sua battaglia contro la nave da guerra che sta cannoneggiando la città. Ma, a mezzogiorno, gli insorti perdono terreno, non hanno più cartucce. Due squadroni di lancieri si preparano alla carica. Molti hanno paura e fuggono. Giuseppa resta invece ferma davanti al suo cannone. Gli spruzza della polvere sulla punta e dà fuoco per far credere ai lancieri che il pezzo di artiglieria abbia fatto cilecca. Poi attende che la carica avanzi e solo quando sta ormai per travolgerla fa fuoco, fa strage, quindi fugge. Tanto coraggio però non basta. Senza gli attesi rinforzi di Nicola Fabrizi, dopo 7 ore di guerriglia, gli insorti si ritirano. E per tre giorni i soldati borbonici, aiutati anche da altre colonne in fuga davanti all’avanzata dei garibaldini, scatenano una terrificante repressione. Finché l’arrivo di Garibaldi a Milazzo li costringe a lasciare Catania. Le gesta di “Peppa ‘a cannunera” vengono celebrate anche dai giornali stranieri. Ma lei non lascia la battaglia. Come vivandiera della guardia nazionale partecipa alla liberazione di Siracusa. Viene decorata con la medaglia d’argento al valor militare, le viene assegnata una pensione. E, ad unità d’Italia avvenuta, sceglie di rimanere nel mondo dei soldati. Veste da uomo, fuma, beve e gioca a tresette nelle osterie. Poi, cade in mano agli usurai e muore nel 1885, a 59 anni. Di lei non si hanno immagini. Solo una riproduzione del quadro “Peppa”, opera del 1865 di Giuseppe Sciuti, distrutto nell’incendio del municipio di Catania appiccato nel 1944 nei tumulti contro il razionamento alimentare e la chiamata alle armi a sostegno degli alleati. Ma l’ardimento di “Peppa”, esploso all’avvicinarsi di Garibaldi, segue quello di tante altre siciliane che tennero acceso il fuoco della rivolta che permise al generalissimo di trionfare in Sicilia. Si parte da 12 anni prima. Sotto il cielo infuocato di Messina, nei primi giorni del settembre 1848, la quarantenne Rosa Rosso Donato porta un fazzoletto tricolore al collo e combatte con il grado di caporale, riconoscimento conquistato sul campo per essersi postasi a scudo umano, salvandosi miracolosamente, per difendere dal fuoco nemico Antonio Lanzetta, capo artigliere dei rivoltosi assediati. Prima della rivoluzione – che da gennaio, partendo da Palermo, ha visto insorgere Messina, Catania, Agrigento, Caltanissetta – tosava i cani, moglie di uno stalliere, figlia di un cuciniere. E’ analfabeta. Non sa nulla delle giovani menti che guidano la rivoluzione – Rosolino Pilo, Giacinto Carini, Giuseppe La Masa, Francesco Crispi – scoppiata il 12 gennaio, compleanno di re Ferdinando II, con la chiamata di Palermo “all’armi”. Nulla dei suoi anziani “governanti” – Francesco Paolo Perez, Ruggero Settimo e Vincenzo Fardella di Torrearsa – che lanciano la sfida autonomista e dichiarano decaduta la dinastia borbonica. Nulla delle infruttuose trattative per convincere il figlio di Carlo Alberto ad accettare il trono vacante. Nulla della Sicilia diventata la miccia che accende la polveriera della rivolta in tutta Europa: in sequenza Napoli, Firenze, Parigi, Torino, Roma, Vienna, Budapest, Berlino, Venezia, Milano. Ma la analfabeta tosatrice di cani ricorda – anche se aveva 12 anni – le condanne a morte che chiusero i moti del 1820 per strappare la costituzione a Ferdinando I, dopo aver imposto la centralizzazione del regno delle due Sicilie a Napoli, la miseria ancora più nera per il popolo. Rosa però sa quanto il seguente regno del figlio di Ferdinando, Francesco, sia stato, se possibile, ancor più reazionario, come Austria comandava. Quanto lo strapotere delle guardie private dei feudatari si sia andato facendo potere trasversale, mafioso. Quanto le vendette private facciano scorrere il sangue mescolandosi alle rivendicazioni politiche (a Cefalù, nel ‘20, ci furono anche delle decapitazioni, una persino di una donna, Maria Ciurella). E Rosa, in quella estate del ’48, sa che quello che sta sfidando è il “Re Bomba” che sta cannoneggiando incessantemente i rivoluzionari guidati dal 33enne Giuseppe La Farina, poi stretto collaboratore di Cavour. Otto mesi prima, il 29 gennaio, anche lei è in strada quando la città insorge, due settimane dopo Palermo. Si ritrova a spingere a forza di braccia, insieme ad altri messinesi, il carretto su cui il 36enne Antonio Lanzetta ha piazzato un vecchio cannone tolto ai borbonici, con cui fermano una prima avanzata dei borbonici. Rosa, al fianco di Lanzetta, che guida gli artiglieri della città assediata, per 8 mesi non lascia praticamente mai l’arrugginito fusto posto a difesa delle mura nord-ovest, impegnato nella vana impresa di espugnare i mercenari svizzeri asserragliati nella possente Cittadella. Al suo fianco i giovani della squadra “Vittoria o Morte” guidati da Antonino De Salvo, detto “Pagnocco”, che combattono con la scritta “Vincere o morire” sul berretto e che ad agosto, incuranti del fuoco nemico, scavano sotto le macerie dell’arsenale tirandone fuori una ventina di cannoni. Un ragazzino, Guargera, che corre dietro alle palle dei cannoni per spegnerle, il 24 agosto perde tutte e due le braccia in un scoppio. E ha la forza di dire ai medici: “Fate presto a guarirmi, perché se non ho più le braccia, mi restano ancora i denti per mordere i realisti”. Quando, il 3 settembre, spuntano dal mare le navi da guerra dei 24mila uomini comandati dal generale Filangieri, Rosa non si sposta dal suo cannoncino. Ed è ancora lì dopo tre giorni di bombardamenti. Ed è lì dopo che, la città ormai in macerie, vede le truppe regie entrare in città e far strage, senza risparmiare donne e bambini. Tale è la ferocia della repressione (dovrà intervenire la diplomazia dell’Inghilterra, che esercitava una sorta di protettorato sull’isola, per fermarla) che un gruppo di giovani volontari, chiamati Camiciotti, preferirono suicidarsi buttandosi nel pozzo di un convento – oggi nel cortile della Casa dello Studente – pur di non essere catturati. In quegli ultimi giorni disperati dell’assedio Pagnocco si mette a capo di una squadra per stanare gli svizzeri asserragliati nel palazzo Loffreda, arrampicandosi con delle scale sul tetto. Viene ferito gravemente e insieme ad altri, inseguiti, si riparano in una vicina chiesetta. I borbonici vi appiccano il fuoco e li lasciano bruciare vivi. Il cannoncino di Rosa sarà l’ultimo a tacere, il 7 settembre. Quando i nemici stanno per colpirla con le baionette, incendia un cassone di munizioni. Nello scoppio uccide 40 soldati e viene travolta dalle macerie. Incredibilmente si salva. Coperta di sangue, tace i lamenti, si finge morta. Anche Lanzetta si salva. Fuggono e il 20 settembre sono di nuovo insieme a Palermo, che resisterà fino alla primavera. Qui c’è già un’altra guerriera di popolo che fa molto parlare di sé. Teresa, detta Testa di Lana, una piccola capraia rugosa. Vestita da uomo, pistola e pugnale alla cintura, sciabola ad armacollo, guida la squadra della Fieravecchia, braccio armato dell’ira popolare, che ha assaltato le caserme, facendo giustizia sommaria degli “sbirri” e delle loro vessazioni e, con gran fatica, il governo provvisorio riesce a tenerlo a freno. Ma sono tante le donne siciliane – di cui non si conosce il nome – che parteciparono “dal basso” alla rivoluzione del ‘48, guidata dagli uomini. Ci sono popolane come Lucia Salvo, moglie di un ladruncolo, che sfrutta le abilità di “messaggera” acquisita quando, il marito in carcere, faceva passare dei messaggi arrotolati attraverso il buco della serratura delle celle dei detenuti politici, per conto del ricco liberale palermitano, Andrea Rammacca, presso cui faceva la serva. E ci riusciva sedendosi vicino alle celle ad intrecciare ceste di vimini e ventaglio, con la scusa di voler chiacchierare con i carcerieri. Fu una delle più abili delle messaggere nel nascondere sotto le ampie sottane armi e messaggi per i rivoltosi del ’48 palermitano. Fatto curioso: finirà impiegata come “daziera”, con il compito di perquisire le donne sospette di contrabbando. Ma, sempre a Palermo, c’è anche l’impegno delle donne di alto rango di fede liberale della cerchia intellettuale riunita intorno alla rivista progressista “La Ruota”, animata dall’autonomista e fine letterato Francesco Paolo Perez. In agosto promuovono la nascita della “Legione delle Pie Sorelle” che riuniva 12 centurie di ben 1200 donne dedite ad opere di carità ed educazione popolare che, autotassandosi, finanzia una collegio per ragazze povere, sostiene le vedove e le orfane dei patrioti, organizza spettacoli di beneficenza. Presidentessa la principessa di Butera, segretaria la baronessa 33enne Rosina Muzio Salvo, poetessa, ed una delle prime giornaliste siciliane e quindi protagonista del movimento di emancipazione femminile che le rivolte ottocentesche produssero anche in Sicilia. Tornando alla cannoniera Rosa, al suo arrivo a Palermo, trova quindi non solo altre donne combattenti ma anche due pezzi di artiglieria tutti per lei. Ma la città si arrende il 15 maggio 1849. Lanzetta segue l’ondata dei tanti esuli della rivoluzione. Va a Malta, quindi a New Orleans. Morirà nel 1854, a 42 anni, ucciso dal colera mente da Marsiglia tenta di imbarcarsi per la Sicilia. All’analfabeta donna Rosa non è invece permessa la fuga. Torna a Messina e viene arrestata. Per 15 mesi resiste alla durezza della prigione e anche alle torture. Ma non parla. Liberata, visse poverissima, costretta a mendicare. Ma allunga la mano solo davanti agli studenti universitari, i giovani che, crede, cambieranno il suo mondo. E sono gli unici che la ammirano davvero. Lei bacia le mani dei ragazzi che le danno una moneta. Ma c’è chi si piega a baciare le sue di mani, quelle del simbolo vivente della rivolta anti-borbonica. E infatti la polizia la spia e finisce per arrestarla e liberarla ancora un’altra volta. Eppure, solo poco prima di morire, nel 1867, a 59 anni, riceverà un piccolo sussidio dal municipio. Anni dopo l’Unità italiana le verrà dedicata una lapide, in via Primo Settembre, che recita: “Dina e Clarenza eroine della Guerra del Vespro ebbero nel 1848 su questa via e al Forte dei Pizzillari emula gloriosa l’artigliera del popolo Rosa Donato”. Ma non solo Rosa paga duramente il pugno di ferro della repressione borbonica, tornata padrona dell’isola. Nei 12 anni che separano il ‘48 dall’arrivo dei Mille di Garibaldi a Marsala si susseguono altre insurrezioni, tutte represse nel sangue. E punite con feroci torture che, grazie ad una inchiesta apparsa sul Morning Post, organo ufficioso del premier inglese lord Palmerston e ispirata da Godwin, console generale britannico in Sicilia, vengono svelate al mondo. Tutto nasce da una conversazione avuta, nel febbraio 1857, dal barone palermitano Nicolò Turrisi Colonna, già ministro nel governo Settimo del ‘48 e quindi tra i protagonisti della Sicilia liberata da Garibaldi, fratello di Giuseppina, poetessa patriottica, morta nel 1848, a 28 anni, al parto del primo figlio. A Cefalù un fabbro mostra al barone uno dei terribili strumenti di tortura che la polizia locale sta utilizzando contro i detenuti politici dopo la repressione della rivolta del novembre 1856 nel corleonese: è la “cuffia del silenzio” che blocca la bocca dei torturati con una mentoniera perché non gridino durante le sevizie. Il barone ne fa fare un disegno che finisce quindi nell’inchiesta del Morning Post, che viene rilanciata anche dal Mercantile di Genova. Sollevando lo sdegno internazionale contro l’odiato Ferdinando II che, a Messina, proprio quell’anno fa issare, in piazza Ferdinandea, la sua statua in bronzo. E porta vendetta, almeno morale, al gruppo di giovani che sta subendo le sevizie di quello strumento di tortura dopo aver creduto nel tentativo del barone Francesco Bentivegna, di anticipare di quattro anni l’impresa dei Mille. Il 22 novembre 1856 Bentivegna, si mette a capo di 300 armati, tra cui altri reduci del ‘48 come lui (come il mazziniano Francesco Bonafede, capo militare delle Sette giornate di Palermo del 1866 che vedono insorgere l’isola contro la politica fiscale del neonato Regno d’Italia, primo episodio di guerra civile nelle pagine nere della questione meridionale). A Mezzoiuso disarma la polizia e la rivolta si estende nel corleonese. Ma i borbonici la spezzano presto e quando Cefalù insorge, il 25 novembre, sventolando il tricolore cucito dalle sorelle di due insorti, Elisabetta e Giuseppina Botta e assaltando la prigione da dove liberano Salvatore Spinuzza – Bentivegna è già fuggiasco nelle campagne e presto verrà arrestato e poi fucilato, a 36 anni, il 20 dicembre. Il ricevitore distrettuale di Cefalù si traveste da donna per sfuggire al controllo degli insorti e denuncia i loro capi. Ma Spinuzza e i suoi giovani amici credono nel loro sogno, formano un comitato rivoluzionario ed il paese li acclama. Quando, due giorni dopo, la corazzata “Sannio” compare nelle acque di Cefalù e spara la prima cannonata si sparge però il terrore. I contadini corrono subito sulla spiaggia gridando “viva il Re!”. E Spinuzza e pochi altri prendono la via della fuga e si chiudono in un casolare sperando nell’appoggio dei paesi vicini e della marina inglese (che non arriveranno). Dopo una feroce sparatoria durata 9 ore, vengono catturati. Intanto la polizia arresta i loro familiari: il cognato di Andrea Maggio viene torturato con lo “strumento angelico” che frantuma le braccia per due giorni, davanti ai figli di 6 e 10 anni. Bonafede, ancora latitante, si consegna dopo aver saputo dei parenti arrestati. Finiscono nel carcere di Cefalù la madre e le sorelle di Carlo e Nicolò Botta e la sorella di Spinuzza, Gaetana, che – al sesto mese di gravidanza – abortisce e, seppur in fin di vita per una forte emorragia, non viene liberata. Spinuzza, in attesa della condanna a morte, le fa avere una sua ciocca dei capelli. Dopo i colpi di moschetto che lo uccidono, a 28 anni, il 14 marzo 1857, nell’attuale piazza Garibaldi di Cefalù, si sente il grido di dolore di Giovanna Oddo, la sua innamorata. Le ultime parole del condannato sono state per Bentivegna: “Possa il mio sangue e quello dell’amico Francesco Bentivegna essere la salvezza della Patria”. Gli altri arrestati finiscono ai lavori forzati nelle fosse delle carceri di Favignana fino allo sbarco di Garibaldi che se li stringerà al petto, per ringraziarli. Tanti portano ancora i segni delle sevizie subite. Uno del gruppo, l’avvocato Filippo Agnello, ne muore dopo la scarcerazione. Ma il clamore suscitato dall’articolo del Morning Post ha ormai svelato che, già da decenni, il sistema poliziesco del regime borbonico si regge sull’utilizzo di strumenti abominevoli come la ruota, le tenaglie infuocate, i cadaveri dati in pasto ai lupi, la sedia ardente, il cerchio di fuoco che fa schizzare gli occhi fuori dalle orbite, percosse su uomini legati con sottili fili per i pollici, gli alluci e i genitali. Ed emerge il volto di feroci persecutori come Nicola de Matteis, già giudice a Napoli, uditore in Sicilia ed intendente a Cosenza, che non ha esitato ad arrestare anche donne e bambini e a farli bastonare per estorcere le loro “confessioni”. Ma la rivolta fallita dei corleonesi, con i suoi martiri, servirà a tener viva la rabbia popolare, senza la quale Garibaldi forse non sarebbe mai riuscito a trionfare in Sicilia. E a far scoccare la scintilla definitiva il 4 aprile 1860, a Palermo, quando dal convento della Gancia, nel centro di Palermo, una ottantina rivoltosi guidati dal 34enne Francesco Riso – un semplice fontaniere – dà il segnale dell’insurrezione che si spande in tutta la città. Ma, su delazione di un frate, la polizia ha già ammassato truppe sul luogo, spara, uccide 20 rivoltosi, ferisce Riso cui il capo della polizia promette salva la vita del padre Giovanni se rivela il nome dei congiurati. Lui parla ma, il 14 aprile, il padre viene fucilato lo stesso, insieme ad altri 12 insorti, nella piazza che si chiamerà così delle 13 Vittime. E’ l’ultimo sangue martire versato dalla violenza borbonica: l’8 aprile, giorno di Pasqua, sono i primi tumulti a Messina e Catania. E il 10 aprile Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, parlato con Garibaldi, giungono in Sicilia per rassicurare gli insorti sul prossimo arrivo del generale. L’11 maggio lo sbarco delle camicie rosse a Marsala.
( Marina Greco )