1873 e attualità parte II -Profili del Popolo Italiano

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CAPITOLO XI.
PROFILI DEL POPOLO ITALIANO.

« Nessun’ altra nazione presenta,
come l’Italia, tanta e sì ricca varietà di com¬
plessioni, di costumi, di potenza este-
tica, di elementi di vita sì estrinseca
come intrinseca, e per dire tutto in
una parola, tanta varietà di forme, di
spiriti e di cuori. »

Non tornerà, credo, discaro al lettore, se dopo lungo, e faticoso viaggio, fra gli ispidi dirupi della filosofia e delle discettazioni metafisiche, io moverò verso campi più ameni, passando dal ragionamento alla descrizione ed alle forme più simpatiche e spigliate del romanzo. La natura del suolo, le varietà del clima, le stesse vicende politiche diverse, composero al popolo italiano una fisionomia propria, tale da non trovare riscontro, nella moltiforme varietà de’suoi tipi, con altra fra le nazioni moderne.
Mentre presso la maggior parte delle nazioni europee, le diverse razze che la immigrazione o la conquista hanno successivamente raccolto sovra un medesimo suolo, con un processo più o meno lento di assimilazioni, vennero unificandosi, come in Inghilterra, ove il sangue normanno scorre nelle stesse vene col sangue sassone, col danese e col celto-bretone; mentre altrove le poche eccezioni a tale legge, non valsero a turbare la nazionale unità, come la stirpe gallica in Francia e la basca in Ispagna, in Italia invece, quattro o cinque famiglie di popoli, profondamente diverse, coesistono, geograficamente separate in provincia, in regioni, sicché alla conglomerazione politica e legislativa mal corrisponde l’omogeneità etnologica, intellettuale, morale e filologica.
Mi studierò pertanto nel presente capitolo di rilevare questi differenti contrasti etnografici raggruppando i miei tipi, secondo le diverse geografie, in tre grandi regioni, dell’alta, della media e della bassa Italia (1).

(1) Riguardo alle condizioni fisiche del suolo, alle divisioni storiche, alle qualità degli abitanti e dei dialetti loro, si potrebbe etnograficamente dividere l’Italia in 19 regioni, di cui 15 in terraferma e 4 nelle isole.

Nell’alta Italia continentale:
1.° l’alto Po o regione pedemontana, l’antico Piemonte, ad occidente con dialetti piemontesi e monferrini; lombardo-piemontesi ad oriente;
2.° riviera ligure, fra le Alpi Marittime, l’Apennino ligure ed il mare con dialetti ligustici;
3.° media traspadana, dal Tìcino al Mincio coi dialetti puri lombardi;
4.° media cispadana dal confine orientale della regione pedemontana fino al Panaro in circa, con dialetti lombardo -romagnoli;
5.° l’alto Adige o frontiera settentrionale, con diiletti tedeschi e veneti;
6.° adriaco-alpina o traspadana orientale, corrispondente in massima parte al Veneto, con dialetti veneti e friulani;
7.° la cispadana orientale, ad oriente del Panaro, con dialetti romagnoli ;.
8.° la frontiera orientale, formata dalle valli Giulie e dall’Istria, con dialetti slavoni, friulani e veneti.

Nell’ Italia peninsulare :
1.° la regione toscana, o valli dell’Arno e dell’ Ombrone, con dialetti toscani:
2.° la regione tiberina con sotto-dialetti toscani ;
3.° la pianura tirrenica o campanica, compresa dalle valli del Garigliano, del Volturno e del Sele, con dialetti campani;
4.° l’Apennino bimare, comprendente la penisola calabrese colla Basilicata, con dialetti calabresi;
5.° la pianura adriaca e pugliese con dialetti p»gliesi ;
6.° la regione abruzzese al nodo centrale dell’ Apennino tra le valli del Vomano, dell’Aterno, del Sangro, con dialetti abruzzesi;
7.° la riviera adriaca o marchigiana, con sotto-dialetti romagnoli e toscani.

Nell’ Italia insulare :
1.° la Sicilia con dialetti siculi;
2.° la Sardegna con dialetti sardi, catalani e siculi;
3.° la Corsica con sotto-dialetto toscano ;
4.° Malta con un dialetto arabico.

Nell’ Italia meridionale vivono alcune famiglie d’origine dalmata, stabilite da secoli sul litorale adriatico italiano, a Tavenna nel circondario di Larino, dove si parla un dialetto slavo che va perdendosi;gli Albanesi sparsi in numero di 79 mila nei circondari di Castrovillari, Paola, Rossano, nella calabria Ulteriore seconda; nel circondario di Sansevero, nella Capitanata; nel circondario di Lagonegro, nella Basilicata ; nei circondari di Palermo, Corleone e Termini Imerese in Sicilia; il cui dialetto tende ad essere assorbito dai contermini.
Nella Calabria Ulteriore Prima si incontrano le reliquie dell’ antiche colonie che formavano la Magna Grecia; si incontrano quà e là nelle provincie di Molise, degli Abruzzi, nella Terra di Bari, avanzi di f¬miglie di zingari che per antica tradizione non hanno perduto del tutto lo spirito di vagabondaggio e l’arte dell’indovino; nell’isola di Sardegna un misto di spagnolo.
In generale i viaggiatori, e più se stranieri, preoccupati troppo del mondo antico, sfuggono innanzi ai particolari della vita giornaliera, la quale è il vero termometro della civiltà moderna: pochi sono quelli i quali prendono a studiare il paese nella sua vita intima, ne’suoi dettagli, da cui solo è dato, a mio credere, risalire ad una sintesi dello spirito e del carattere di un popolo. I monumenti rappresentano il passato, mentre la scuola e l’officina in un alle abitudini della vita, ne rivelano la coltura e lo stato di agiatezza presente. Noi stessi divisi fin qui da politiche barriere e da vieti pregiudizj, ci conosciamo si poco che una provincia riesce all’altra quasi straniera ed è molto se, come eco lontano, arriva qualche volta la voce del giornalismo dall’Alpi all’estrema Sicilia. La vita locale in Italia è poco conosciuta, perchè pochi sono quelli che viaggiano da noi, e pochissimi quelli che, viaggiando, sanno studiare la vita dei popoli.
Da Susa a Trapani il viaggiatore trascorre per ogni differenza di climi, di caratteri, di opinioni, di usanze, e nullameno incontra dappertutto quell’amore all’arte, quelle architetture, quel complesso di linee e di attitudini che sono la caratteristica propria del genio italiano.
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CAPITOLO XI
PROFILI DEL POPOLO ITALIANO

III

Lasciando ora che il viaggiatore, più o meno eudito, resti fra i ruderi di una morta civiltà a considerare le classiche memorie dei di che furono, fabbricando forse colla mente una Roma tutta ideale, invito il lettore, più affrettato, a volermi di nuovo seguire in ferrovia per la bella linea che dall’alma Roma conduce a Napoli. E qui attraversando l’Abruzzo, mi sia concesso, di sfuggita, spendere una parola intorno a queste popolazioni nelle quali scorre pur sempre il vecchio sangue sabellico, plasmato, suggellato da quella formidabile federazione di popoli, Marsi, Sanniti, Irpini, Dauni, Lucani, Bruzj, Calabri, Campani, Tarantini, contro i quali il patriziato romano lottò per ben 70 anni e non potè vincere che a patto di conferire loro il diritto di cittadinanza romana. – Fra queste popolazioni si incontra un tipo originalissimo in Italia, il brigante, che trova appena qualche pallido riflesso coi gitani delle Asturie od i banditi del Montenegro e della Grecia. Il brigantaggio è certo una grave piaga pel nostro paese, ma su di esso, anche fra noi, si esagerano troppo le proporzioni e si caricano, non so perché, le tinte.

Nè io mi propongo l’apologia del brigante, e se il tipo di Gaspare, datoci da Garibaldi nel suo romanzo Clelia (1« Quando all’onesta indipendenza aggiungono l’indole coraggiosa del leone e si battono valorosamente contro chiunque cerchi sopraffarli — allora non solo simpatia, ma ammirazione si meritano e fermamente, nello abbassamento passato dalle nostre glorie militari io sovente insuperbisco tra me stesso, pensando che pochi italiani-ispirati da falso principio è vero- combattono contro polizie, carabinieri, guardie nazionali, esercito – un mondo di nemici – senza che questi giungono mai a vincerli o domarli ».Garibaldi. Clelia, Cap. XXIII.), non mi dispiace, non avendo nulla di comune coi fra Diavolo, coi Pace, coi Fuoco, coi Ninco-Nanco, , coi La Gala, veri mostri di ferocia e negazione della natura umana, non vorrei però che certe imprudenti o troppa appassionate apologie, venissero a menomare una piaga sociale che, se non si risolve colla legge Pica nè coi mezzi violenti, domanda l’opera assidua del governo e dei comuni mercè l’istruzione ed il lavoro.

Il brigante, all’occhio di un imparziale osservatore, non è il più delle volte un volgare malfattore, per animo malvagio, ma un impasto di buone e di cattive qualità
io ricordo di averne visti ed avvicinati parecchi nel 1860 nei dintorni di Cosenza, anzi in alcuni caffè di Cosenza stessa, e debbo dire, in omaggio della verità, come lungi dallo inspirarmi ribrezzo, ne abbia provato simpatia tanto mi apparvero semplici nei costumi, risoluti nei modi, garbati, baldi di personale vigoria, senza ostentazione, religiosi fino agli scrupoli, spinti alla macchia da un complesso di circostanze inutili qui a riferire, ma certo non nati nè cresciuti malvagi ed io non dubito di affermare, come una seria educazione, potrebbe ridurre in poco tempo operosi ed onesti cittadini, utili a sè ed alla patria, questi ribelli figli della montagna.

Il brigante, nato fra le libere balze de’suoi monti, porta per istinto l’amore alla libertà ed insofferente di freno, vive si può dire allo stato di natura selvaggia, portando con sè quella indomita fierezza, cui una guasta educazione non seppe ancora volgere a buon fine. Tu lo vedi coll’agilità del camoscio balzare pei dirupi delle sue montagne, armato della lunga carabina che difficilmente coglie in fallo. Una tinta lucida ed ulivigna imprime al suo volto adusto, quella maschiezza e leggiadria che distingueva gli antichi montanari Sanniti, descritti da T. Livio e dal Micali: le chiome corvine e ricciute, cadenti, inannellate sugli omeri, il cappello acuminato con nastri a svolazzo, leggiadramente inclinato sul destro orecchio, l’occhio nero, vivace, scintillante, il farsetto di velluto, il coltello spiccante dalla fascia screziata che ne cinge il fianco, le gambe nerborute raccolte ne’ sandali tradizionali – danno un complesso di linee cosi armoniche ed artistiche, da farne soggetto di quadri di genere, avidamente richiesti in Italia e fuori.

Gli è per questo spirito di naturale indipendenza che nei calabresi si conservò sempre, in mezzo alla ruvidezza dei loro costumi primitivi, il più schietto patriottismo e lo ricordano in ogni tempo le lotte sostenute contro straniere o nazionali tirannie. Fino dai tempi dei Romani il folto bosco Gallinario, presso il golfo di Cuma, era nido di feroci avventurieri. I monti di Nicastro e di Tiriolo, i boschi della Maida e l’ombra delle alte quercie della Sila, classico asilo di ribelli, ricordano in ogni tempo da Spartaco a Benincasa ed a Parafanti, gli episodj delle nostre nazionali sventure. Il brigante italiano, checchè si cianci
si declami da molti, fu una protesta permanente contro il governo dominante, contro la legalità: repubblicano contro Manhes, reazionario col cardinale Rufo, carbonaro contro re Bomba, rivoluzionario contro Franceschiello ed amico di Garibaldi e dell’Italia Una nel 1860; borbonico, satellite del prete e camorrista oggi, contro il governo di Vittorio Emanuele e la dinastia di Savoia (V.Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Fra Diavolo sino ai nostri giorni, per Marco Monnier – Firenze, Barbera, 1862. Vedi anche i 3 vol, illustrati di Giacomo Oddo – Il brigantaggio, o l’Italia dopo la dittatura di Garibaldi.)
Il brigante però lungi dall’essere inviso e maledetto dalle popolazioni, trova simpatie e protezione ovunque fra gli stessi maggiorenti, i sindaci e gli ufficiali della guardia nazionale, gli investiti di pubblici uffici i quali vi tengono spesso bordone e vi fanno da manutengoli. Le brune calabresi, dall’occhio andaluso e dalla severità castigliana, dal busto azzurro e dalla gonnella cremesina, preferiscono spesso al galantuomo (Galantuomo nelle provincie meridionali è sinonimo di facoltoso, di signore come anche oggidì nel contado lombardo si regala questo titolo ai capi di famiglia (rejù) ed alle gioie della casa, l’andare spose a briganti conducendo con questi la vita randagia dei boschi, fra il sibilo dei venti, la fame, la stanchezza, le privazioni eogli stenti d’ogni guisa.
Certo sono a deplorarsi tali costumi, nè io mi accingerò certo a giustificarli, trovo solo insana la pretesa di far scomparire questa grande piaga sociale coll’impero della forza e l’interregno delle leggi civili ( V. Studi sulle cause del brigantaggio, per Enrico Pani Rossi che studiò sul luogo le condizioni miserrime di queste contrade).
Nelle Calabrie sono popolazioni non difficili ad essere governate da chi sappia prenderle pel loro verso ed impedire a tempo che il sentimento di giustizia sociale,
profondamente impresso negli animi, non degeneri, per dolorosi contrasti, in sete di vindici rappresaglie, assumendo la odiosa forma della violenza; considerazione questa che dovrebbe essere sempre presente ad un governo prima di por mano a nuove leggi ed istituzioni, senza ricercarne la cagione, nelle reali necessità della storia e della vita.

Togliete le cause del malcontento, fate felice il popolo col diminuire le pubbliche gravezze, col promuovere le industrie locali, col facilitare i mezzi di comunicazione, col diffondere le scuole, gli asili, col migliorare in una parola le condizioni sociali e, quasi per incanto, vedrete scomparire quella lebbra che ha nome brigantaggio.
E qui lascierò ancora che il lettore, affrànto dalla corsa, riposi come Annibale nella terra felice che ricorda l’antico Formio di cui parla Orazio e Capua deliziosa e l’amenissima Cumea, infaustemente celebrata per le sue lascivie e dove gli opulentissimi romani venivano a darsi bel tempo, col pretesto di cercare salute nei bagni di Esculapio, ma in realtà per perderla nei seducenti laghi di Venere Afrodisiaca.

Le ferrovie, fu già da alcuni osservato, mentre giovarono ai commerci ed alle industrie per la celerità dei trasporti, tolsero al viaggiatore en touriste la poesia, , il piacere di gustare all’aperto, per vasti orizzonti, la libera campagna e prendere sul taccuino le impressioni di viaggio. Tuffato in un carrozzone di prima o di seconda classe, il viaggiare è diventato oggi una noia, un peso; non più il poetico scalpitar dei cavalli, lo schioppettio delle fruste, lo squillare delle trombe d’eleganti ed indiscreti postiglioni, ma la prosa di trovarsi pigiati, incassati come altrettante acciughe, nei compartimenti, di una cella ambulante, incomoda, e dove spesso si è costretti alle più dure privazioni ed a vincere gli stessi bisogni naturali. È progresso? Dobbiamo crederlo in omaggio al principio che il tempo è danaro.
Il viaggiatore che per la prima volta visita Napoli io lo consiglierei a giungervi dalla via del mare, entrando per quella baja che è fra le più incantevoli ed inondate di luce che esistano nel mondo.

Lunghesso il golfo sorridente e molle
Ognor del bacio delle tepide onde,
Fin dove il guardo giugne, in semicerchio
Lungo ordine di navi e maestosi
Alti edifici sorge, ove la fronda
Di Bacco lussureggia in fra i recessi
Della costa, e il palmizio al cielo erige
Con orgoglio, la cima flessuosa,
Agitata dai venti. Ai colli intorno
Levansi i tetti, splendidi terrazzi
Pari a giardini, con pendio soave.
Digradanti alla spiaggia.

A guisa di anfiteatro bella si distende fra le verdeggianti colline di Capodimonte, Verano, Posilippo, la popolosa città, dalla favola attribuita all’opera di una fata da cui l’antico nome di Partenope. Ischia, Procida e Capri (Ischia l’antica Arime secondo Omero nel Catalogo: “La terra fremea al disotto, come allorchè sdegnato, Giove fulminatore percuote la terra in Arime, ove dicono che di Tìfeo fosse il letto. »
Procida l’antica Prochita sorse dal greco vocabile “poxi” (effundo) prodotta da una subita effusione od eruttazione vulcanica è un isoletta deserta fra Capo Miseno ed Ischia.
Capri giace a 14 miglia da Napoli celebre per gli orti tiberini non meno che per le squisite sue uve.)
ed altre vicine isolette, forse staccate dal continente, per antico cataclisma, spiegano l’origine dei campi flegrei dati alla Campania e di avervi Omero fissata la regione d’Averno. Teatro della guerra che la favola racconta de’giganti fulminati da Giove, la più terribile dopo quella sostenuta dal Titani contro i celesti, la Campania ispirò sempre le vergini muse da Omero, a Virgilio, a Catullo, al cantore di Mergellina.

Ivi è la gente più vivace, più chiassona, più garrula, più irrequieta, più appassionata d’Italia: imaginosa, parolaia, beffarda, sboccata fino alla licenza e le cui conversazioni, anche di famiglia e fra gente ammodo, si assomigliano spesso alle pagine più oscene di Rabelais.
Napoli è la città dei poeti improvvisatori, dell’amoreggiare dai balconi (pelar la pava); dove tutto si fa all’aperto fra canti, balli e suoni, dove al largo del Carmine fanno saltabelli e ruzzi e gridano olè uno sciame di fanciulli scamiciati che dietro i muri giuocano al rimpiatterello; infine il chiasso ed il frastuono sono la caratteristica di questo curiosissimo paese, unico forse al mondo per la sua vivacità e per l’incessante schiamazzare che vi fanno vetturini (I vetturini, dopo sforzi inauditi, si sono lasciati finalmente disciplinare dalle tariffe e dalle ordinanze municipali, e solo al ricorrere di certe occasioni, si ribellano alla legge nuova e si ricordano di essere i Napoletani d’una volta, lasciando che il forastiere paghi a suo genio, ossia qualche cosettina più del dovuto.) e conducenti d’omnibus, facchini e fattorini, venditori ambulanti, biricchini (Sulla sera frotte di monelli scamiciati, a tutta corsa si slanciano pei quartieri della popolosa città gridando a squarciagola: ” O Pungolo! O Pungolo!-.È asciuto o Pungolo! – Notizie e Roma!- Notizie e Galibardo!- E’ bello a leggere!- O Pungolo! O Pungolo!”) ed accattoni, i quali tutti si, agitano, con una mobilità tutta meridionale ed un fuoco veramente vesuviano, in mezzo a mille voci assordanti, al gestire eloquente, al rapido affollarsi.

Il forastiero che alcuni anni addietro avesse visitato Napoli, trovava un popolo indolente e nemico del lavoro, uso amoreggiare sotto i boschetti di Mergellina o sulla spiaggia di S.Lucia. Erano frati questuanti, brune zingarelle e lenoni bisbiglianti profferte invereconde, turbe sfaccendate di pezzenti e di cantastorie che, dalle mille stradicciuole e dai viottoli innumerevoli, si versavano fra il romoroso roteare sul selciato di lava delle leggiere carrozzelle e dei festanti curricoli, in quel pandemonio che dal largo Mercatello, ora Piazza Dante, corre da Toledo (Corso Roma) fino a Chiaia. Oggi a Napoli tutto è cambiato, e quantunque conservi ancora la naturale sua gaiezza e vivacità, all’ozio è subentrata l’azione; dai cenci, dal berretto frigio di grossa lana e dalle foggie pittoresche dei tempi passati, si è fatto luogo alla blouse turchina dell’operaio, al cappello di feltro, ai pantaloni lunghi, ed agli ordinari indumenti accettati dall’uso. Il lazzarone veste oggi panni, nè si vede divorare all’aperto, come in passato, i suoi maccheroni, nè accalcarsi intorno al pubblico scrivano, ai cantastorie, od ai botteghini del lotto (1), nè ridere, come una volta , al S. Carlino dei lazzi sguaiati di Pulcinella. Pulcinella, la delizia dei Napoletani, è la degradazione dell’uomo sotto la umana forma; servo, amico, innamorato, marito, militare, egli si mostra sempre, come lo è infatti, simbolo di bassezza e di viltà. Il lazzarone che tu vedevi, scalzo e seminudo, ciaramellare lungo il Molo od a Piedigrotta, nel più pittoresco abbandono, sotto i raggi del suo bel sole, colla lunga pipa in bocca (una cannuccia sormontata da un piccolo vaso di creta o di lava), ha dovuto venire a transazione collo spirito moderno e, se non è sparito affatto, resta solo qua e là, fra i pescatori di Carmelo o di Mergellina, quasi un poetico ricordo del passato, un oggetto di curiosità per quegli stranieri che, venendo la prima volta in Italia, si meravigliano di non trovarla quale se l’erano imaginata colla loro fantasia o sulle descrizioni, non sempre fedeli, dei viaggiatori di quarant’anni sono.

(1) Il lotto è un tributo vergognoso imposto alla perpetua illusione del povero, il quale non vuole esserne sollevato. Garibaldi stesso, o santo Galibardo, nella sua onnipotenza, non giunse durante la dittatura del 1860, ad abolire questa istituzione, radicata dalla dinastia borbonica nelle abitudini del popolo, il quale avrebbe richiamato, il che è tutto dire, Francesco II pur di riacquistare il diritto di rovinarsi e di arricchire il fisco, riducendosi a morire volontariamente sulla nuda paglia. Questo brutto vizio è del resto generale in Italia e in tutte le provincie, senza distinzione. Ma più delle parole valgano le seguenti cifre :
Durante l’ultimo decennio, il prodotto complessivo delle giuocate in Italia ascese a L. 561.085.566,36 e quello delle vincite solamente a 324.281.460,22. Senza contare le spese d’amministrazione, il guadagno durante il decennio fu per lo Stato di L. 239.804.106,14. Avviso ai lettori!

Il popolo napoletano ebbe in questi anni a fare dei progressi morali sorprendenti, restando pur sempre il popolo delle contraddizioni, devoto fino alla più goffa superstizione (1), femmineo, chiaccherone, millantatore, ingegnoso ma inerte, rilassato e mobilissimo, tenace del solo momento che fugge ed incurante del domane, litigioso come un Greco (Napoli è la terra non solo dei filosofi, ma di più chiari giureconsulti ed il foro di Napoli quello che vanta i migiiori giurisperiti d’Italia, Mancini, Pisanelli, Conforti, Savarese, Imbriacci, Pessina, Vacca, Pica, Ruggero, De Falco, per tacere di molti altri. Il portafoglio di Grazia e Giustizia, lo mostrano gli stessi atti parlamentari del regno d’Italia, è quasi in permanenza infeudato all’elemento napoletano, in qualunque crisi ed in qualunque combinazione di partito.), sollecitatore inarrivabile e camorrista per antica consuetudine. « Se i Napoletani, diceva il Foscolo, non fossero tanto ciarlieri sarebbero consiglieri astuti e guerrieri più saldi. Loquacità, scompiglio e susurro ne accompagnarono in ogni tempo le più comuni operazioni della vita. » – Ma dopo tutto conviene confessare di avere Napoli, in ogni tempo, dati luminosi esempi di patriotismo e di amore alla libertà e gli ergastoli di Favignana, Ischia, Ventotene ( L’ergastolo era il luogo più tristo di detenzione e vi si racchiu¬devano gli sventurati condannati alla pena la più dura.La pena più mite era la prigionia che durava fino a 5 anni, indi la reclusione fino a 10, poi il presidio, il bagno e finalmente l’ergastolo,Spaventa, Settembrini, Morelli Salvatore, Agresti e i loro compagni politici furono tutti condannati all’ergastolo), i castelli in varie epoche costrutti più a reprimere il popolo che a difenderlo da nemiche invasioni (2), formano documento al lungo martirologio de suoi illustri pensatori, poeti, letterati, uomini di scienza (3). Nato fra le nordiche ,nebbie deí piani lombardi, io m’ebbi sempre le più cordiali simpatie per gli imaginosi e fantastici fratelli del mezzogiorno, di cui ho sempre dovuto ammirare, in mezzo al profluvio delle frasi altisonanti, lo svegliatissimo ingegno, la pronta intuizione e la percezione squisita, quel naturale buon senso che tiene luogo spesso della mancanza di coltura nelle masse.
Centro del grande feudo della Chiesa, Napoli, fertile in ogni tempo di filosofi, fino dalla più remota antichità, vive fra gli incanti del pensiero, gli splendori della natura e le meraviglie dell’arte. Politicamente corsa e conquistata dai Goti, dai Greci, dai Normanni, dagli Svevi, Angioini, Aragonesi, Francesi, Austriaci, Spagnoli, succedutisi l’un l’altro nel regno, Napoli non alterò mai la forma politica del suo reggimento, sicchè dicendo il regno, s’intende per antonomasia, in Italia, parlare di Napoli, dove ogni tradizione diventa dinastica (4), a differenza d’altre città italiane dove il principio monarchico vi è apparizione sporadica ed anormale.
Sovente pensando alla incostanza degli uomini e degli avvenimenti, mi soffermai sulla famosa piazza del Mercato, là dove, come a Parigi nel borgo S.Antonio, nacquero e si spensero tante rivoluzioni, dove furono eretti tanti patiboli e caddero tante vittime innocenti e tanti ambiziosi conquistatori.
Corradino ed il giovane duca d’Austria suo cugino, vi furono decapitati alla presenza di Carlo d’Angiò e della sua corte, spettatrice del supplizio, in mezzo ai drappi di purpureo baldacchino. Durante otto giorni Masaniello, vestito di una camicia lacera frangiata d’argento, circondato da 100 mila lazzaroni armati, regnò assoluto signore di Napoli (1647). Nel 1799 e 1800 sulla stessa piazza ciel Mercato, venivano inalzati i patiboli sui quali caddero estinti Pagano, Conforti, Cirillo, tanti altri illustri patrioti e da ultimo quello di Luisa Sanfelice, la cui storia di dolori, è la più poetica e mesta leggenda di quella rivoluzione rimasta soffocata colla più feroce delle repressioni.
Culla di tante sommosse, di tante rivoluzioni, Napoli è divenuta oggi una delle provincie più tranquille del regno, se togli qua e là alcuni avanzi di brigantaggio ed il malcontento provocato dalla cattiva amministrazione, malcontento comune del resto a tutte le città d’Italia. Gli è forse a questo malcontento più che ad altre cause, da attribuire la prevalenza del partito clericale nelle ultime elezioni amministrative della città di Napoli, ed a torto, io credo, perdonabile solo al più grande patriottismo, il generale Garibaldi scriveva al Circolo democratico radicale di Napoli quelle gravi parole:
– « Dite ai Napoletani che non valeva la pena di seminare le ossa de’migliori Italiani nella pianura di Capua, per eleggere dei clericali. »
Il popolo napoletano, a cui natura donò ogni cosa bella, e gli uomini tolsero e guastarono tanto, griderà sempre, ma in fondo, in fondo, saprà sempre accontentarsi, vuoi perché buono e conducevole, vuoi perchè indolente per natura, teme di peggio e si rassegna a vivere in giornata ed a rimanere a stecchetto come può, e per quanto solo può spendere. La sobrietà fu sempre la caratteristica del popolo napoletano, ed anche ai tempi dell’odioso dominio borbonico, se si incontrava per via un ubbriaco questi era o un soldato svizzero o un gentleman inglese. Poco lavoro, scarso cibo e ordinario, luce viva, aria abbondante, un lastrone pulito per terra dove giuocare la briscola o il tresette, un corbello all’ombra, dove adagiare metà della persona, e altro non chiede e forse non desidera il buon popolano del Mercato, e canta e ride e urla (Donati, Bozzetti della vita napoletana).
Napoli, a differenza d’ogni altra città d’Italia, presenta una convivenza intima, quasi cordiale, della miseria coll’opulenza, dei conci col fasto. Nel luogo istesso dove una matronale bellezza, o una equivoca Maddalena, dall’elegante acconciatura, sepolte fra le trine ed i nastri, si fanno trascinare superbe su cocchio lucente, la povera famigliugla del popolano stenta la vita in un’angusta stamberga, umida, buia, lercia, divisa fra dieci o dodici persone. Damerini azzimati e profumati, passeggiano alla pari con una frotta di bimbi scamiciati o dalle vesti a brandelli, colla pelle abbronzata dal sole e screziata da mille sozzure camminano di pari passo ma senza confondersi, e le eccellenze ed i siqnurini rimangono eccellenze e signurini, gli scamiciati, scamiciati. La plebe napoletana scherza colla miseria, scherza colla fame senza querelarsene e vive coi ricchi senza odiarli, vedendo sprecare in un minuto, quello che basterebbe tutta la vita per una famiglia, e non si lagna.
Un altro grande merito dei Napoletani, specialmente nel basso popolo, è l’amore della famiglia, il rispetto ai vecchi, la venerazione figliale, per cui i figli conservano al padre e alla madre il titolo di gnore (signore), la cieca devozione per gli amici, la veemenza la tenacità negli affetti, per cui uno sguardo solo basta talora ad accendere amori che durano castamente per lunghi anni, fino a tanto che l’amante, accumulando soldo a soldo, riesce a comperarsi il letto e ad ammobiliare alla meglio una casuccia, onde ricevere la fidanzata, sì fedelmente attesa (I differenti costumi, la vita intima locale, non è, come già avvertii, abbastanza studiata in Italia nè quale si dovrebbe, io invito il lettore che avesse vaghezza di conoscere quella molto interessante del popolo napoletano, a leggere una serie di appendici pubblicate nel giornale “La Perseveranza”, dal dicembre 1869 al gennaio 1870 9 a mio giudizio dettate con molta fedeltà storica , nonchè gli studi del cav. Ricca, Sulla nobiltà di Napoli, e gli Usi e Costumi di Napoli e dintorni, per Francesco Bourcard.)

I Napoletani hanno però il grave difetto, comune del resto a tutti gli Italiani, di accusarsi ed infamarsi a vicenda, sicché stando a certi giudizi, l’Italia sarebbe una vera caverna di briganti, di camorristi, di accoltellatori, di gente senza fede e senza coscienza, colla quale conviene di non bazzicare o di starsi alla larga.
L’aristocrazia napoletana non è rimasta, come la fiorentina e la romana, fedele al vecchio legittimismo, ma preferì scendere a patti colla rivoluzione e col nuovo governo, che se non ama di grande amore, certo non odia nè pensa, almeno per ora, ad insorgere contro di esso, benché non manchino continuamente le istigazioni del partito nero o reazionario, il quale tiene in Napoli fila potentissime ed aderenze innumerevoli, come s’è veduto col fatto nelle ultime elezioni amministrative.
La cordialità fino alla ostentazione, è il carattere predominante ed insieme il pregio dei Napoletani; chiaccheroni, se volete, ma sempre servizievoli, larghi nel promettere, quantunque poco tenaci nel mantenere, portano, per naturale rilassatezza, non per difetto d’ingegno o per viziata abitudine, avversione al lavoro e ad una lunga, diuturna applicazione. La gioventù a Napoli del resto è studiosa, quanto svegliata d’ingegno ed all’Università sua, cresce una scolaresca assai più colta che non nelle altre celebri università di Pavia, Padova e Pisa.
Ogni nuova teoria, per quanto ardita, trova laggiù tosto dei proseliti, rimanendo in ogni tempo Napoli la patria del pensiero e della poesia. Che se all’ingegno naturale, sapessero i Napoletani unire fermezza di propositi e costanza di carattere, non troverebbero, io credo, chi li potesse emulare.

(1) Qualche anno addietro a Napoli, come oggi ancora a Roma, le immagini della Vergine e del padre putativo s. Giuseppe, non solamente si vedevano affisse su tutti i canti delle vie, ma nelle botteghe stesse le più profane, nei caffè, nelle taverne e perfino nei postriboli, dove, per devoto pudore, si soleva da quelle sacerdotesse di Pafo, velare l’imagine della Vergine durante le lubriche battaglie del piacere. Nelle prigioni poi l’olio per la Madonna forniva pretesto ad ogni specie di frodi e di turpi ricatti. Le prediche all’aria aperta, gli spettacoli religiosi, le più incredibili pagliacciate, offendenti la maestà stessa della religione, erano comunissime in Napoli prima del 1860.
L’ inferno era il dogma principale del popolo napoletano, e quantunque sia temerario l’asserire che tutti i lazzaroni dei tempi scorsi credessero in Dio, si può senza tema di cogliere in fallo, asserire come invece tutti quanti credessero al diavolo, e col terrore delle pene eterne venissero mantenuti in una mezza probità, quale bilancia di ogni virtù. Chi non rammenta infatti, senza sorriderne, gli intercalari santo diavolo, santo diavolone, comunissimi fra il popolo napoletano in tutti gli ordini sociali?
La superstizione a Napoli arriva al punto da prendersi sul serio, e non solo dalle beghine e dalle spigolistre, ma da persone bastantemente colte, la prodigiosa liquefazione del sangue di s. Gennaro che schiumeggia dopo XVI secoli, per tacere della vecchia fola della jettatura, la fascinatio dei Romani, da cui si crede preservarsi portando gingilli in forma di corna, per lo piu di roseo e paesano corallo.

(2) Castel del Carmine, fabbricato nel 1647 dopo l’insurrezione di Masaniello; Castel Nuovo, incorninciato nel 1283; Caslel dell’Uovo, sopra una lingua di terra che si stende per un bel tratto in mare e quindi a cavaliere della città; Pizzofalcone, Castello Capuano o la Vicaria, costruito dal re Guglielmo nel XII secolo, una volta residenza del re di Napoli. S. Ermo, opera a stella di 6 lati irregolari, sopra una ripida roccia all’occidente della città, era la vera cittadella, tiranna di Napoli, le cui fortificazioni datano da Luigi XII di Francia,

(3) Basti ricordare l’agano, Caracciolo, Caraffa, Pignatelli, Serra, Riario, Imperiali, Colonna, Filomarino, Cirillo, Conforti Francesco , Russo Vincenzo, Pimentel Eleonora Fonseca, Luisa Sanfelice, per tacere dei primi martiri Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliano, Vincenzo Gadani, il generale Spanò, Pasquale Battistessa, giustiziati in Napoli il 4 ottobre 1794 sotto í cannoni di Castel Nuovo che proteggeva il palco.
Vedi Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. – Pietro Colletta, Storia del reame di Napohi. – Generale Guglielmo Pepe, Memorie intorno alla sua vita ed ai recenti casi d’Italia. Bartolomeo Nardini, Mémoires pour servir à l’histoire des dernières révolutions de Naples. Mariano D’Ayala, Vita di Francesco Federici e di Giuseppe Rossarol.

(4) Già fino dal XVI secolo il reame di Napoli era chiamato per antonomasia il regno perché il solo nel continente italico ad avere titolo regio, e dividevasi in 9 provincie, cioè : Terra di Lavoro, Principato Citra ed Ultra, Calabria Citra ed Ultra, Basilicata, Terra d’Otranto, Terra di Bari, Capitanata, Contado di Molise, Abruzzo Citra ed Ultra. Ed è questo l’ordine in cui le dispone e le descrive il Porzio nella sua Relazione del regno di Napoli, scritta verso il 1577 – 79.
Fra’Leandro Alberti, bolognese, ordinis Praedicatorum, nella sua Descrittione de tutta Italia et isole partenenti ad essa- Venezia MDXCVI, divideva il Reame in 8 regioni, ossia : Terra di Lavoro o Campania; Basilicata o Lucania; Calabria prima o Bruzi; Calabria seconda o Magna Grecia; Terra d’Otranto o Messapia; Terra di Bari, Puglia piana e Abbruzzo.
[…] pag 184 IV – LE ISOLE