Antonio Secola, brigante per caso storia di un meridione povero e ribelle

copj170.aspAntonio Secola, brigante per caso storia di un meridione povero e ribelle

UN LIBRO che racconta la storia di un brigante per caso, Antonio Secola, muratore del Fortore, l’ area montana del Sannio che confina con Pugliae Molise. La vicenda di un operaio travolto dagli eventi dell’ Italia post-unitaria che, raccontati dai vincitori piemontesi, hanno sovrastato e cancellato per decenni le ragioni dei vinti. Chi sono i vinti? Sono tutti briganti come li hanno descritti i “nordisti” vincitori? Secondo l’ autore Antonio Bianco rappresentano piuttosto un movimento popolare fedele ai Borbone che rivendicava la volontà, spesso tradita dal doppiogiochismo dei signori locali, di non sottomettersi alla monarchia sabauda. Una storia di un Meridione povero e ribelle.

 
Rinchiuso nel carcere di Campobasso perché accusato di un furto commesso per sfamare la sua famiglia, Secola quando esce diventa brigante e conquista la fiducia del “comandante” Caruso ma appena si rende conto che l’ epilogo è vicino si consegna ai piemontesi. Avrà salva la vita, ma sarà rinchiuso fino alla morte nel penitenziario dell’ isola d’ Elba. Secola confesserà, al collegio giudicante del Tribunale militare di Caserta, tutti i suoi crimini nella convinzione di poter avere qualche sconto di pena ma lo farà anche per vendicarsi di qualche “signore” del Fortore che durante la rivolta aveva fatto il doppio gioco. Il brigante farà i nomi dei potenti accusandoli di connivenza con il brigantaggio e questi saranno giudicati, ma alla fine assolti. Una rilettura critica attorno alla storia di un muratore vittima di un ideale rivendicato da tanti “banditi” delle montagne del Fortore che alimentarono la cruenta storia del brigantaggio meridionale.
ottavio lucarelli


BRIGANTAGGIO IN VALFORTORE

– il baselicese ANTONIO SECOLA –

di Fiorangelo Morrone “Storia di Beselice e dell’alta Valfortore” – Arte Tipografica, NAPOLI, 1993

Le prime voci sui banditi cominciarono a diffondersi in Valfortore nel maggio del 1861. Si cercò quindi di armare, nei vari paesi, delle guardie nazionali, ma difettavano armi e coraggio. Da Baselice vennero richiesti dei carabinieri per tutelare la popolazione da eventuali attacchi. Covo dei briganti prese ad essere il bosco di Mazzocca. Questo bosco (uno dei più grandi dell’ex regno borbonico delle Due Sicilie) si estendeva tra Baselice, Castelvetere, Colle e S. Marco dei Cavoti. Ma un tempo aveva un’estensione ancora maggiore. Esso aveva inizio da un luogo quasi centrale fra i quattro comuni, detto “Toppo delle Felci”. Da questo toppo i briganti avevano l’opportunità di scorgere l’avvicinarsi di persone e di soldati. Minacciati, essi si nascondevano nel bosco, donde potevano con molta facilità piombare ora sull’uno ora sull’altro paese. Le gesta cominciarono nel giugno. Il 30 di questo mese a Mazzocca una banda armata, capeggiata da un tal Francesco Saverio Basile, detto il Pelorosso, da Colle Sannita, aggredì il guardaboschi del principe di Colle, nonché altre persone (1). Nella notte successiva lo stesso Basile con 60 seguaci ben armati si recò nella masseria di Francesco Iaccasile in Decorata, chiedendogli la somma di duemila ducati. Per rassicurare gli animi delle popolazioni profondamente scosse e turbate, il governatore della provincia di Benevento, Carlo Torre, inviò una colonna mobile del 62° di linea (50 uomini) del tutto insufficiente alle necessità. Per giunta la colonna venne ben presto richiamata, del che approfittarono i briganti per continuare nelle loro gesta criminose. Il 19 luglio il Pelorosso minacciava di assalire S. Croce del Sannio; in tale circostanza fu ucciso un certo Giuseppe Di Cecco. Il 21luglio fu ucciso il sindaco di Reino (e il suo mento fu regalato ai Baselicesi) (2); nella stessa giornata i briganti penetrarono in Castelpagano, disarmarono la Guardia Nazionale, distrussero gli stemmi sabaudi e l’effigie di Garibaldi, misero a soqquadro diverse abitazioni e uccisero un milite. Sempre nel medesimo giorno la Guardia Nazionale di Colle Sannita s’imbatté a Toppo delle Felci in 26 briganti capeggiati dal Pelorosso e dopo tre ore di scontro fu costretta a fuggire, lasciando morti sul terreno 4 militi, tra cui Luigi Mascia e Giorgio Petti. In serata la squadra del Pelorosso scese a Mazzocca e saccheggiò la masseria del barone Petruccelli di Baselice, al quale mandò pure un biglietto di ricatto. Costretto da questi avvenimenti, il governatore di Benevento Carlo Torre, inviò in perlustrazione due compagnie del 62° fanteria, al comando del luogotenente Foresti. Costui il giorno l° agosto giunse con i suoi uomini a Colle Sannita; vi lasciò 20 soldati e con il resto proseguì alla volta di S. Bartolomeo in Galdo. Nella notte seguente (tra il l° e il 2) una banda di briganti composta di circa 250 uomini, sotto la guida di tal Nicola Collara, penetrò in Colle, uccise una sentinella, disarmò i 20 soldati lasciati dal Foresti e si recò in chiesa ad assistere al canto del Te Deum. Il mattino seguente, 2 agosto, il luogotenente Foresti ripartiva da S. Bartolomeo con i suoi 35 uomini diretto a Colle; venuto però a conoscenza di quanto era accaduto durante la notte, si asserragliò in Baselice, in attesa di aiuti. Nei giorni successivi i briganti infuriarono. Il 6 agosto il Pelorosso con 50 uomini a cavallo entrò in S. Marco dei Cavoti, respinse le truppe accorse, “ripristinò” nel paese la monarchia borbonica. Nello scontro furono uccisi due soldati e cinque militi, tra cui Vincenzo Fiorino di Buonalbergo; i cadaveri furono mutilati e bruciati. Venne ucciso anche Domenico Fusillo di S. Marco per essersi rifiutato di far causa comune con i briganti e di inneggiare al re borbonico. Il giorno 8 il Pelorosso entrava come trionfatore in S. Giorgio la Molara; quindi passava a Pago e a Pietrelcina; aveva con sé più di mille uomini armati di spiedi e di mazze. Però all’alba del 10, sorpreso dai Piemontesi, non potendosi difendere, dové sloggiare. Comunque la situazione era preoccupante e vivo malumore agitava le popolazioni. Per la qual cosa il nuovo governatore della provincia di Benevento, Giovanni Gallarini, riuscì ad avere dal generale Enrico Cialdini una colonna di circa duecento uomini e con essa partì da Benevento il 3 settembre. Prima tappa della colonna fu Pescolamazza (oggi Pesco Sannita); quindi S. Giorgio La Molara, ove furono arrestate le persone maggiormente indiziate e si ebbero anche delle fucilazioni. Poi la colonna si diresse a Molinara per proseguire alla volta di S. Marco dei Cavoti, ove giunse nel tardo pomeriggio del 6 settembre. Quando i soldati stavano salendo l’ultima erta per entrare nel paese, i briganti, che nel corso della giornata si erano tenuti sulle alture, accolsero l’avanguardia a fucilate, ma all’assalto delle truppe si diedero alla fuga. L’accoglienza della popolazione però fu fredda. Da S. Marco il governatore Gallarini proseguì per Colle Sannita. Successive tappe furono Circello, dove a guardia del paese vigilavano ben 150 uomini, e Castelpagano, che il 30 luglio aveva subito danni notevoli per due successive incursioni di briganti. Il 10 settembre la colonna raggiunse, come ultima tappa, Castelvetere, dove fu arrestato il marchese Moscatelli. A questo gesto di forza del governatore di Benevento sembrò placarsi un po’ l’irruenza dei briganti. E cominciò pure la resa di alcuni banditi. Così, ad esempio, il 17 settembre si consegnarono 4 briganti di Baselice: Giovanni Iampietro, Leonardo Iannelli, Michele del Grosso e Domenico di Onofrio Petrocci (3). Nel mese di settembre il governatore Gallarini fu a Baselice. E nell’ottobre si portò a Baselice anche il generale Nicola Fabrizi, per incarico del generale Cialdini. Ambedue alloggiarono in casa del barone Rosario Petruccelli (4). Nel mese di novembre fu arrestato dalla Guardia Nazionale di Baselice Nicola Baldini di Molinara. Nel dicembre furono arrestati, sempre dalla Guardia Nazionale di Baselice, Giuseppe Nardoni di Campolattaro e Michele Iorio di Buonalbergo (5). Dal canto suo Francesco Saverio Basile, il Pelorosso, dopo le imprese compiute nel Beneventano ai primi di agosto, si scontrò a S. Pietro Infine con un reparto di truppe italiane; ebbe la peggio, ma riuscì a fuggire in territorio pontificio. Respinto da un distaccamento francese nei pressi di Ceprano, si scontrò di nuovo con le pattuglie italiane, le quali dopo non lieve lotta riuscirono a impadronirsi di lui e di alcuni suoi gregari. Portava l’uniforme borbonica e aveva con sé molti oggetti di valore e 600 scudi romani. Venne fucilato. Nello scontro di S. Pietro Infine fu catturato anche Antonio Caretti, un luogotenente del Basile, ma più irruente di lui, detto “il bravaccio del Beneventano”. Era un ex ufficiale borbonico, intelligente e coraggioso. Fu fucilato a S. Germano il 24 agosto 1861 (6). Verso la fine del 1861 in Valfortore il brigantaggio sembrava in declino. Ma nella primavera e nell’estate del 1862 riarse di nuovo, non soltanto ad opera di piccole bande locali (Giuseppe Del Grosso, Marco De Masi, Giovanni D’Elia, Teodoro Ricciardelli), quanto soprattutto ad opera di capibanda rimasti famosi nella storia: Michele Caruso, Giuseppe Schiavone e Giambattista Varanelli. Michele Caruso, un mostro in sembianze umane, era un pastore di Torremaggiore. Attestatosi in Capitanata, sulle sponde del Fortore, oltre ad atterrire le popolazioni locali, compiva frequentissime incursioni nel Molise e nel Beneventano, divenendo un vero terrore per le zone che attraversava. “Coraggioso e abile capo di briganti” ebbe a definirlo il generale Emilio Pallavicini (7). Giuseppe Schiavone da S. Agata di Puglia fu lui pure uno dei più abili e arditi capibanda; terrorizzò per lungo tempo varie contrade, collaborando molto spesso col Caruso nel portare a termine ripetute, audaci imprese contro truppe e guardie nazionali. Al Caruso si univa spesso anche Giambattista Varanelli, già vaccaro di Celenza, anch’egli capo di una discreta banda. Questi furono i tre più famosi capibanda che nel 1862-63 atterrirono il Molise, il Beneventano e la Capitanata. Inferiore ai tre sopraddetti era Marco De Masi, di S. Marco dei Cavoti, ex servitore dei baroni Petruccelli di Baselice, che aveva una piccola banda di circa 20 uomini a cavallo e spesso collaborava con il Caruso, aggirandosi per lo più soltanto nella Valfortore. Con Michele Caruso collaborava di frequente anche Teodoro Ricciardelli, lui pure di S. Marco dei Cavoti. Giuseppe Del Grosso invece limitava le sue imprese in genere tra Colle Sannita e Circello, mentre Giovanni d’Elia preferiva aggirarsi in quel di Castelfranco. Le bande comunque si univano, si separavano, si riunivano, partecipavano insieme ad eccidi, sequestri, atti di grassazione. Allorché si trovavano nell’Alto Sannio, avevano il loro rifugio nel bosco di Mazzocca, donde movevano verso S. Bartolomeo, Alberona, Lucera, passando con estrema facilità dall’una all’altra provincia, dal Molise al Beneventano, dal Beneventano in Capitanata. E seminando ovunque morte e rovina. Il 13 giugno 1862 in contrada “Acqua Partuta”, nel tenimento di Foiano, le bande di Caruso e di Schiavone uccisero 9 guardie mobili appartenenti al 36° fanteria, più 5 carabinieri: tra gli altri restarono sul terreno Francesco Mussuto di S. Bartolomeo, Angelo Casamassa di Foiano e il brigadiere dei carabinieri Alessandro Falini, un nobile fiorentino (8). Ai primi di agosto, sempre del 1862, si unì alla banda di Caruso anche un baselicese, destinato ad avere lui pure una discreta parte nel brigantaggio beneventano: Antonio Secola (9). Era questi nato in Baselice il l° marzo 1834 da Michele e Maria Rosa Tresca; aveva appreso l’arte del muratore; il 17 settembre 1856 si era unito in matrimonio con Maria Diletta Morrone, nata il 12 luglio 1835 (10). Nel 1859 si trovava rinchiuso nel carcere di Campobasso ad espiare una pena di sei anni comminatagli dalla Gran Corte Criminale di Lucera per furto commesso in Castelfranco. Essendo addetto alla costruzione del tribunale, riuscì a fuggire il 29 luglio e si ritirò in Baselice, ove visse quasi tre anni indisturbato, esercitando la sua arte. Verso la metà di luglio del 1862 il Secola apprese da D. Benedetta Ricci, moglie del dottor Epifanio Giampieri (presso cui si trovava a lavorare), che era stato emesso un mandato di cattura nei suoi riguardi per l’evasione dal carcere, per cui il 26 dello stesso mese si diede alla macchia e si unì con Antonio Lisbona, pure di Baselice, latitante perché renitente alla leva. I due rimasero per una ventina di giorni travestiti nelle campagne di Baselice, in casa di contadini amici, nelle contrade “aia carravana” e “sei corde”. Da quest’ultimo luogo videro passare la banda di Michele Caruso, per cui decisero entrambi di aggregarsi a quel capo. E così Antonio Secola e Antonio Lisbona si trovarono, loro malgrado, briganti e furono incaricati dal Caruso di tenere la corrispondenza con i Baselicesi, ai quali essi chiedevano vino, rosolio, sigari e vestiti per la banda. Il 21 agosto Secola era con Caruso, Marco De Masi, Antonio Lisbona e certo caporal Tinterelli al Toppo delle Felci: di là i briganti mandarono un biglietto di ricatto al barone Petruccelli. Nei giorni successivi egli partecipò all’invasione di Ginestra degli Schiavoni, dove i banditi, tra l’altro, lacerarono la bandiera nazionale e catturarono l’arciprete, il quale si rifiutava di farli entrare in chiesa a cantare il Te Deum (e pare che autore delle due imprese fosse proprio il baselicese). Quindi, dopo alcuni giorni, il Secola si separò dal Caruso e si aggirò per varie province, fino in Basilicata, ove conobbe famosissimi capibanda, come Carmine Donatello (detto Crocco e Giovanni Fortunato (soprannominato Coppa). Rientrò poi nel territorio di Baselice con altri 8 o 9 briganti originari di S. Marco, di Baselice, di S. Giorgio e di S. Bartolomeo, sotto la guida di Teodoro Ricciardelli. Al seguito di costui egli fu presente ad un conflitto avvenuto presso Circello, in cui rimase ucciso il capitano della Guardia Nazionale di quel centro, Zanoni, insieme con altri sei tra ufficiali e militi. Ma in seguito il Secola sostenne di non aver preso parte al combattimento per aver la giumenta zoppa. Il 29 settembre Francesco La Civita di S. Bartolomeo in Galdo (corriere postale e capitano della Guardia Nazionale) tendeva un agguato alla banda di Giambattista Varanelli, ma veniva ucciso da un colpo sparato da un brigante. Il 30 settembre Antonio Secola era di nuovo con Marco De Masi a Mazzocca, donde proferì minacce contro le autorità baselicesi perché avevano carcerato i suoi genitori. Il 13 ottobre fu visto con Angelomaria Luciano alla casa di campagna del barone Petruccelli; il 27 era a Mazzocca con Giuseppe Luciani di Castelvetere, Antonio Lisbona di Baselice e altri. Il 4 novembre, al seguito di Michele Caruso, partecipò ad un sanguinoso scontro avvenuto presso S. Croce di Magliano: il Caruso alla testa di circa 200 uomini a cavallo sterminò quasi completamente la 13a compagnia del 33° fanteria che il capitano Giuseppe Rota, ex garibaldino dei Mille, gli aveva condotto imprudentemente contro. Rimasero sul terreno lo stesso capitano, il luogotenente Perino, due carabinieri e diciannove soldati (11). Sulla fine dell’anno il Secola corse il rischio di perdere un occhio. Si trovava con le bande unite di Marco De Masi e “del Monachiello di S. Bartolomeo”, di nome Donato, nella masseria di un tal Facchino di Foiano. Mentre discendevano una scala, il fucile, che un brigante, detto “il Monachiello di Mugnano”, portava infilzato al braccio destro, urtando esplose e il Secola, che seguiva, fu colpito all’occhio. Egli venne medicato con albume d’uovo, erbe aromatiche, bagnature e suffumigi da Antonio Lisbona, valente – a dire dello stesso Secola – in medicina. In tutto questo periodo egli si recava spessissimo in paese, tranquillamente, data l’omertà che vigeva nei suoi riguardi, nonché il terrore che riusciva ad incutere in tutti i compaesani. Il 1863 fu un anno di sangue. Eppure esso era cominciato nel Beneventano sotto buoni auspici. Infatti il giorno 11 gennaio si consegno ai carabinieri il capobanda Marco De Masi, di S. Marco dei Cavoti, promettendo la sua collaborazione per la cattura di altri briganti. Dopo pochi giorni fu preso e fucilato Ferdinando Iatalese di Foiano e si consegnarono altri due banditi, pur essi di Foiano. Ma il brigantaggio era ben lungi dall’essere represso, che anzi si riaccese con maggior violenza, ad opera soprattutto del Caruso, di Schiavone, di Varanelli, nonché del Secola stesso. Come al solito, Caruso, Schiavone e Varanelli scorrazzavano per diverse province, mentre il Secola con la sua piccola banda limitava le sue azioni per lo più nel Beneventano. Ecco come nei suoi riguardi si esprimeva il 4 luglio 1863 il prefetto di Benevento Decoroso Sigismondi: “Tra le bande di briganti che sogliono infestare questa provincia la più molesta è quella che sotto gli ordini di un tal Secola e composta di undici masnadieri a cavallo travaglia ferocemente e a preferenza il circondano di S. Bartolomeo in Galdo. Tuttoché incessantemente perseguitata ed incalzata nulladimeno si è finora sottratta ed ogni giorno si sottrae agli attacchi della forza pubblica in ciò aiutata forse dalla stessa pochezza del suo numero e certo dalla singolare rapidità e dalla incredibile audacia dei suoi movimenti” (12). In effetti il Secola non fu crudele, bensì molto abile ed astuto. Ci fu un tal Francesco Paolucci di Colle che propose alle competenti autorità militari un suo progetto: voleva egli armare 15 individui, cinque dei quali avrebbero finto di aggregarsi al Secola, per annientarne la banda. Il Paolucci poneva delle condizioni, ma non se ne fece niente (13). Sarebbe lungo enumerare tutte le imprese di Caruso, Schiavone, Varanelli e Secola; mi limiterò ad accennare a quelle avvenute nelle zone della Valfortore. Nell’inverno 1962-63 a Baselice suscitò molto scalpore il sequestro del possidente don Nicola de Lellis. Il gentiluomo fu un mattino invitato dal garzone Fedele Natale a scendere in giardino, ove – a dire del Fedele – egli era atteso da alcuni operai. Ma in giardino ad attenderlo, travestito da donna, c’era il Secola, il quale fece salire sulla sua giumenta bianca il de Lellis e lo condusse in contrada S. Felice. Fedele Natale, il garzone costretto suo malgrado a tradire il padrone, dovette consegnare un biglietto di ricatto al fratello del gentiluomo, arciprete D. Camillo. La somma richiesta era di 12.000 ducati. A sera, soddisfatte tutte le pretese dei briganti, don Nicola poté riabbracciare i suoi cari in famiglia (14). Il 13 febbraio Giuseppe Schiavone partiva con 60 uomini a cavallo dalla sua abituale dimora situata tra Accadia e S. Agata di Puglia, percorreva il territorio di S. Bartolomeo in Galdo e nella notte del 17, eludendo le truppe e le Guardie Nazionali, passava a due sole miglia da Benevento. Per otto giorni si aggirò nei dintorni del capoluogo, uccise un sacerdote (fratello del sindaco di Montesarchio), sconfisse le Guardie Nazionali di Paduli e infine sterminò al cascinale Francavilla un drappello del 39° fanteria che lasciò sul terreno 16 morti, tra cui un ufficiale (15). Quindi si ritiro quasi indenne e il 4 marzo invase Ginestra degli Schiavoni. Vale la pena di ricordare che dal giugno 1861 al marzo 1863 si verificarono nel Beneventano 17 invasioni di paesi, centinaia di rapine e di violenze minori, nove grandi stragi di animali, dieci incendi di messi e covoni, dodici incendi di masserie (16). Il 5 marzo fu ucciso da Michele Caruso “all’Acqua Partuta” Giovanni Laudato da Benevento. Il giorno successivo in Baselice fu sequestrato don Epifanio Giampieri da parte del Secola, dei due fratelli Antonio e Domenico Lisbona e di tal Calabrese. Il giorno 17 fu ucciso Donato Pasquale di Foiano. Memorabile a Baselice il tentativo di assalto al palazzo Lembo, avvenuto in una notte di maggio, pare tra l’8 e il 9. Or dunque 12 briganti, tra cui Nicola Lazzaro di Pago, Baldassarre Iansiti di Molinara, Teodoro Ricciardelli di S. Marco, Antonio e Domenico Lisbona, il Secola, un tal “zio Antonio” da S. Giorgio la Molara, certo Pellaro di S. Paolino, sotto la guida di un funaio di “Ripa da Mosano” di nome Costantino, ex garzone del Lembo, penetrarono nel palazzo, dopo aver abbattuto la porta dell’orto e una seconda entrata con arnesi tolti dal mulino dello stesso possidente. Erano già per la gradinata, quando una figlia del Lembo avverti dei rumori – ancora oggi si tramanda che ad un brigante sfuggisse di mano un arnese di ferro: le scale in realtà erano cosparse di olio – e chiamò il padre don Vincenzo, il quale armatosi prese a gridare: “Lascia che entrino, che saranno tutti uccisi”. Vistisi scoperti, i briganti fuggirono (17). Il 9 giugno una banda di il briganti – con ogni probabilità quella del Secola, visto che il rapporto del prefetto di Benevento Sigismondi redatto il 4 luglio successivo parla appunto di undici masnadieri inseguita da truppe regolari di stanza a Circello fuggi verso Toppo delle Felci; benché incalzata, la banda ebbe modo di uccidere Francesco Verdura di Fragneto e Giacomo Fiscarelli di Circello. Verso la metà di giugno Michele Caruso e Giuseppe Schiavone – che rimanevano pur sempre i briganti più terribili della zona e tormentavano incessantemente le due sponde del Fortore, nonché il territorio compreso fra i monti della Daunia e quelli del Sannio – riunirono le loro forze; il 22 ebbero uno scontro con i bersaglieri presso Campo Reale; quindi inflissero perdite a un drappello del 22° fanteria; il 23 penetrati nel territorio di Orsara uccisero il sindaco, il capitano della Guardia Nazionale e 21 militi (18). Il giorno 26 furono trucidati presso S. Bartolomeo in Galdo Leonardo Catullo di quello stesso Comune e Giovanni Maddaloni di Bonea, un povero “viaticale” che faceva ritorno dalla Puglia ove era stato ad acquistare grano. Verso la fine del mese i due arditi capibanda arrivarono a minacciare perfino Benevento (19). Nel capoluogo la popolazione era in preda a grande agitazione: il presidio militare si trovava fuori dell’abitato, attiratovi dalle rapide manovre delle bande; solo il sopraggiungere di rinforzi ristabilì la calma. Caruso e Schiavone però continuarono nelle loro audaci scorrerie. Il 13 luglio, sempre da Caruso, furono trucidati Francesco Tostino da Napoli e Vincenzo Mauro da Capua, mentre nelle vicinanze di S. Bartolomeo riattivavano i fili telegrafici. Il 16 i due banditi uccisero Francesco Polvere di Pagoveiano; nello stesso giorno si sottrassero all’inseguimento della cavalleria, della fanteria e dei bersaglieri, anzi tesero un agguato presso San Marco dei Cavoti a un drappello di cavalleggeri, uccidendone tre. Il giorno 18 però furono raggiunti presso il bosco di Tremolito da due squadroni di ussari di Piacenza e dal 22° battaglione di bersaglieri e persero 10 uomini. Ciò nonostante essi continuarono imperterriti nelle loro audaci e crudeli imprese (20). L’11 agosto il baselicese Giuseppe Bianco fu ucciso da Giambattista Varanelli in campagna, dopo aver dovuto assistere alla distruzione di tutte le sue sostanze: grano, fave, 5 maiali, 11 galline, 3 pecore, mobili e vestimenta (21). Il 27 agosto la banda dello stesso Varanelli, forte di 27 uomini a cavallo, assalì nella zona di Brecce il corriere postale Donato Picciuti. Nel mese di settembre, dopo l’approvazione della “Legge Pica” che colpiva i manutengoli e i favoreggiatori, Michele Caruso, vedendo forse che i contadini esitavano sempre di più nel sostenerlo, esplose in veri atti di estrema ferocia. Ebbro di sangue, nel suo odio contro le guardie nazionali prese a colpire ciecamente e spietatamente tutti quelli che fossero sospettati di tradimento. Da solo o in unione con altri capibanda, che in genere accettavano di collaborare in sottordine con lui, specialmente in unione con Giuseppe Schiavone, egli commise dei veri eccidi. Il l° settembre, insieme con Giambattista Varanelli, egli uccise nell’agro di Riccia i contadini Michele Di Domenico, Domenicantonio Moffa e Giuseppe Ciccaglione. Il 6 settembre uccise presso Torrecuso 4 soldati e 10 guardie nazionali (22). IL giorno 7 compì una vera carneficina presso Castelvetere Valfortore: ben 27 persone inermi, vecchi, donne e bambini, furono trucidate (23). All’eccidio era presente con la sua banda anche Antonio Secola, il quale però in seguito sostenne di non aver sparato neppure un colpo. Il giorno 9 carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso (24). Furono assassinate da 30 a 40 persone (25). Altri, come Mattia Cifelli e Michele Cenicolo, morirono in seguito alle ferite riportate. Anche a questa carneficina era presente il Secola, il quale però, successivamente, nel corso degli interrogatori che ebbero luogo alla sua consegna, affermò ancora una volta di non aver sparato neppure un colpo. Successivamente il Caruso uccise 7 possidenti lungo la via Sannitica, 14 contadini presso Colle, 7 in territorio di Morcone, 6 presso il Cubante, 16 alla masseria Monachella, presso Torremaggiore (26). Costretto da simili audacie e da tale efferatezza, il generale Emilio Pallavicini, che alla metà di settembre aveva assunto il comando della zona militare speciale del Beneventano e del Molise, decise di far di tutto per liberare il territorio da un simile mostro. A tal fine, tra l’altro, nei primi di ottobre egli tenne per alcuni giorni il suo quartiere generale a Baselice in casa del barone Petruccelli. In quella circostanza Baselice riuscì ad ospitare ben 4 squadroni di cavalleria e più compagnie di truppe di linea. Vista la presenza in Baselice del generale Pallavicini, il Secola ebbe il desiderio – o forse finse – di volersi consegnare: come segno di convenzione e di riconoscimento egli mandò al generale il suo orologio per mezzo di tal Giuseppe Ceci. Ma, come ebbe a dire in seguito, nel frattempo passò per la zona il Caruso che cercò di dissuaderlo. Se ne astenne definitivamente quando il Caruso fece fucilare due briganti – uno era il Pellaro – che volevano comportarsi allo stesso modo. Così il Secola non si consegnò e il Ceci tenne per sé l’orologio del brigante. In questo periodo il baselicese ora si univa con Caruso, ora si isolava nei pressi di Vitulano. Frattanto Michele Caruso non aveva smesso neppure un istante di compiere misfatti. Il 2 ottobre aveva ucciso Nicola Ventura di Buonalbergo; il 6 ottobre Angelo Maria Iannone presso Pietrelcina; nella stessa giornata aveva compiuto una strage a S. Giorgio la Molara, uccidendo tra gli altri Domenico Carosella e Pietro Frusciante. Il 9 ottobre era stato ucciso lungo il Fortore Donato Creatura di Castelfranco, mentre recava un plico alle truppe in Baselice. Ma ormai il cerchio si stava stringendo intorno al famigerato brigante. Il generale Pallavicini cercò in tutti i modi di “agganciarlo” e vi riuscì in ottobre alla masseria Pasquale, in territorio di Morcone, e presso Torre Francavilla, infliggendogli sensibili perdite (27). Numerosissimi furono gli scontri fra truppe regolari e guardie nazionali da una parte e le bande di Caruso e dei suoi luogotenenti dall’altra. Il 23 ottobre le guardie nazionali di S. Marco la Catola sorpresero nel bosco di S. Angelo le squadre di Caruso e di Varanelli. Quest’ultimo rimase ucciso nel conflitto; la sua testa fu recisa e portata a Celenza, sua patria (28). Anche per Michele Caruso però era vicino il momento del rendiconto. Egli nel mese di ottobre aveva rapito nel territorio di Riccia una giovane, Filomena Ciccaglione – cui 40 giorni prima aveva ucciso il padre – e l’aveva costretta a seguirlo. La povera giovane, pur nella sua disgrazia, si era adoperata per salvare l’esistenza di parecchi infelici caduti nelle mani del feroce bandito, implorando da lui la loro libertà in nome dell’amore che egli le portava; ma intanto covava nel cuore il desiderio di vendetta. Ella si trovava nel Beneventano con il Caruso quando costui, prima di partire per quella che sarebbe stata la sua ultima incursione in Capitanata, l’affidò a tal Capozzi di Molinara. Ai primi di dicembre il brigante tornava nel Beneventano per riprendere la giovane. Ma il generale Pallavicini, informato deI ritorno del bandito, ordinò al distaccamento di Montefalcone, comandato dal luogotenente Alliaud, di effettuare gli opportuni appostamenti (29). In uno di questi, durante la notte tra il 6 e il 7 dicembre, sulla strada per Montefalcone, in contrada Costa dell’Arso, presso la masseria Biaccio nella quale il Caruso si era rifugiato, i bersaglieri assalirono i briganti, uccidendone 7 (30). Michele Caruso però, profittando del trambusto provocato dall’eccessiva foga con cui i soldati si erano lanciati all’assalto nella speranza di catturare proprio lui, sulla cui testa pendeva una taglia di 20.000 lire, riuscì a fuggire e a dirigersi con un suo nipote, Francesco Festa, alla casa del Capozzi; ma ivi, su delazione della Ciccaglione, egli fu arrestato dal sindaco di Molinara, Nicola Ionni, la sera del 9 dicembre. Mentre veniva tradotto a Benevento legato su un asino, tra una folla desiderosa di linciarlo, egli procedeva “cinicamente fiero ed impassibile” (31). Il giorno 12 si tenne il processo. Richiesto da un giudice se sapesse leggere e scrivere, Caruso rispose: “Ah, Signuri, s’avesse saputo legge e scrive avria distrutto lo genere umano!” (32). Alle 14,30 della stessa giornata egli fu fucilato a Benevento, fuori Porta Rufina, alla presenza di numerosa folla. La povera Filomena Ciccaglione morrà di tisi in Riccia appena ventiduenne, il 31 gennaio 1866. Era un bel tipo di bellezza muliebre (33). Con la morte di Caruso il brigantaggio in Valfortore ebbe un terribile colpo. I banditi superstiti della sua squadra si dispersero. Il Secola da parte sua raggiunse gli antichi compagni. Ben presto però si separò dai due fratelli Lisbona e da Beniamino Innestato di S. Bartolomeo (detto “Sargentiello”) e ritornò alla volta di Vitulano. Così ognuno andò verso il proprio destino. La sera del l° gennaio 1864 la baselicese Caterina Papillo rivelò a Luigi Marengi, lui pure baselicese, la presenza di briganti nelle vicinanze della campagna coltivata dalla sua famiglia. Il Marengi riferì la notizia al sindaco Rosario Petruccelli. Si radunarono quindi i militi della Guardia Nazionale di Baselice, sotto la guida del tenente Goffredo de Nonno. Facevano parte del drappello Domenico Carusi (sergente maggiore), Michele Cocca (sergente maggiore), Vincenzo Capuano (sergente), Pasquale Canonico (sergente), Luigi Marenzi (caporal furiere), Raffaele Agostinelli (caporale), Leonardo Del Vecchio (caporale), Luigi Lepore (caporale), Samuele Monaco (caporale), Giuseppe Del Vecchio Crosca (caporale), Giovan Battista Papera (caporale) e Donatangelo de Nonno (chierico). I militi si diressero verso la zona indicata dalla Papillo. Nel rovistare un ammasso di paglia scoprirono l’esistenza di una grotta nella quale si annidavano tre briganti. Due di costoro, precisamente Domenico Lisbona baselicese e Cosmo Bonga di Pietra Monte-corvino, rimasero uccisi nel conflitto; il terzo, Antonio Guerriero di Castelnuovo, fu preso vivo. I militi, nell’ebbrezza della gioia, non avendo alcun mezzo di trasporto per condurre i cadaveri in paese onde “esporli al pubblico esempio”, credettero opportuno recidere loro le teste da portare appunto in Baselice. Cosa che fecero (34). Questo avveniva la mattina del 2 gennaio. Il Guerriero fu consegnato alle autorità militari e dopo un regolare processo fu fucilato nelle carceri di Baselice il giorno 6 gennaio, giorno dell’Epifania (35). Prima dell’esecuzione era stato confessato dall’arciprete D. Camillo de Lellis; fu sepolto nel camposanto; aveva 22 anni. Il Marengi ebbe in premio dal Governo lire 100, i militi lire 1500 e la Papillo lire 300 (36). Dopo la morte di Domenico Lisbona, dei briganti baselicesi restavano Antonio Secola e Antonio Lisbona. Nel mese di febbraio il Secola fu sul punto di esser catturato. Nella notte tra il 16 e il 17 difatti il brigante si nascose nel pagliaio di Antonio Colucci Nizza, alias Pizza. Il mattino seguente si trovò a passare per il posto la Guardia Nazionale di Castelvetere. Il bandito stava per cadere nelle mani dei militi, quando la moglie del Colucci, Maria Antonia Barbati, cominciò a gridare: “La corte, la corte”. Così il Secola si provvide di una gonna e di un panno rosso, con cui riuscì a non dar nell’occhio e a salvarsi attraverso il bosco di Riccia. Il Colucci Nizza venne arrestato e deferito unitamente con la moglie al tribunale militare di Caserta (37). Dal 17 febbraio al 30 maggio il brigante vagò sui monti di Vitulano, di Paupisi, sul Taburno, insieme con la comitiva di Cosmo Giordano e Luciano Martini, famosi capibanda pur essi. Nel frattempo il 26 marzo veniva ucciso Antonio Lisbona in una masseria di Alberona a colpi di roncone da parte degli stessi coloni. Pertanto il Secola era rimasto proprio solo. “Svanita la speranza che, lungi dal farsi l’Italia con Roma e Venezia, sarebbe tornato presto a sedersi sul trono di Napoli Francesco II, il quale avrebbe perdonato qualunque misfatto”; svanita la speranza di poter passare nel dominio pontificio, non gli restava altra prospettiva che quella di consegnarsi. Il 31 maggio si recò nella masseria di Ferella per procurarsi del cibo, ma, avendo visto due persone armate che si dirigevano verso di lui, fuggi. Fu inseguito invano dalla Guardia Nazionale di Baselice, comandata da Goffredo De Nonno. Andò verso Calise, poi, per ingannare la Guardia Nazionale, tornò indietro verso Monteleone, di qui si recò a Fragneto, dove abbandonò la giumenta che aveva e si impadronì del cavallo di tal Giovannino Petrusciano. Da Fragneto a Benevento, nella piana di S. Cosimo, dove lasciò il cavallo e prese un’altra giumenta. Finalmente la mattina del 2 giugno, ritornato nei pressi di Baselice, si recò nella casa rurale di Vincenzo Ciufolo Camposello, da dove inviò una lettera al sindaco Petruccelli, in cui diceva di volersi consegnare. Quindi si avvicinò a due tiri di fucile dall’abitato. Era nella vigna di Giovannangela Cece Del Vecchio, quando scorse dei soldati che andavano in cerca di lui, per la qual cosa gridò loro: “Qua, qua, che sono Secola che mi vengo a presentare” e si consegnò nelle loro mani. Erano tre soldati del l° battaglione del 62° fanteria, con i quali si trovava anche il sergente della Guardia Nazionale di Baselice Leonardo Del Vecchio (38). Condotto in Baselice, il Secola fu sottoposto a un primo interrogatorio, alla presenza del sindaco Petruccelli, del giudice del mandamento, del brigadiere dei carabinieri e del capitano della truppa stanziata a Baselice. Nella stessa giornata, condotto in S. Bartolomeo in Galdo, ebbe a subire un secondo interrogatorio da parte del maggiore comandante la truppa di stanza in S. Bartolomeo. Quindi il 4 giugno rese una nuova deposizione in Benevento dinanzi all’ispettore di Pubblica Sicurezza, signor Baculo. Infine il 6 giugno fu sottoposto a un quarto interrogatorio nella camera del castello di Caserta. Giudicato dal tribunale militare di Caserta, fu condannato il 21 gennaio 1865 ai lavori forzati. Sfuggi pertanto alla fucilazione per essersi egli stesso consegnato. Mori nello stabilimento di pena di Portolongone, nell’isola d’Elba, per edema polmonare, il 21 aprile 1885, all’età di 51 anni (39). Con la consegna del Secola, che non era stato il più famigerato bandito delle nostre contrade, ebbe praticamente fine il brigantaggio nel territorio di Baselice. Ancora oggi le gesta di Antonio Secola sono arricchite di leggenda nella fantasia dei Baselicesi: si parla di sfide ai carabinieri, di ardite galoppate attraverso l’abitato sul suo cavallo bianco, o la sua bianca giumenta; si favoleggia di tesori di briganti sepolti in questo o quel luogo, di gente arricchita con il danaro inviato in paese dai banditi; si ricordano persone sequestrate che riuscirono a sfuggir dalle mani dei briganti, si ricordano tentativi di sequestro andati a vuoto; si parla comunque ancora di paura e di terrore… Dei capibanda famosi, di cui ho parlato tante volte, rimaneva solo Giuseppe Schiavone. Egli fu preso a Melfi la notte tra il 25 e il 26 novembre dello stesso anno 1864; il mattino del 28 fu giudicato da un consiglio di guerra e condannato alla fucilazione. Il giorno fissato per l’esecuzione, uscendo dal carcere, chiese un sigaro all’ufficiale che comandava la scorta; prima di essere fucilato gridò alla folla: “Popolo, tu solo puoi ancora salvarmi, per te ho sempre combattuto!” (40). Alle ore 9 del 29 novembre giaceva morto. Dei briganti minori di cui si è fatto cenno in precedenza, il capo-banda Giovanni D’Elia fu ucciso da Donato Giannini di Castelfranco; il “Monachiello” di S. Bartolomeo in Galdo fu trucidato dalla Guardia Nazionale di Alberona. Fu stroncato così con la forza il brigantaggio, ma non fu posto rimedio alle cause dalle quali esso aveva avuto origine (41). Prima di chiudere questo capitolo dedicato al brigantaggio e in modo particolare ai briganti di Baselice, mi corre l’obbligo di affermare che non mancarono neppure i Baselicesi che adempirono pienamente loro doveri di veri italiani nei confronti della patria unita. Così il baselicese Tommaso Lepore che combatté sotto Isernia contro le truppe borboniche e poi si adoperò contro il brigantaggio in Capitanata, facendo parte delle squadriglie a cavallo (42). Così il signor Antonio Lepore (43), il quale, nato a Baselice il 12 febbraio 1844, partì a 21 anni soldato di leva il 19 gennaio 1865 e rimase sotto le armi ben 10 anni. Ebbe pertanto modo di partecipare quale caporale alla terza “guerra d’indipendenza”, meritando il privilegio di fregiarsi della medaglia commemorativa delle guerre combattute per l’Indipendenza e l’Unità d’Italia, medaglia istituita con R. D. del 4 marzo 1865. Nominato sergente il 1° gennaio 1868, partecipò alla campagna per l’occupazione di Roma, acquisendo il diritto di fregiarsi della medaglia istituita dal Comune di Roma per i benemeriti della liberazione della città eterna. Nominato Sergente Conducente il l° ottobre 1870, Sergente di Compagnia il l° marzo 1871 e Furiere Zappatore il l° ottobre 1874, si congedò il 27 febbraio 1875 (44).

NOTE

1. Per questi primi episodi di brigantaggio si veda soprattutto ZAZO, Gli avvenimenti cit., in Samnium, 1952, p. 1 Ss.

2. Cf. DE NONNO, poche parole in difesa della Guardia Nazionale di Baselice, Napoli, 1864.

3. Cf. Pel Barone Rosario Petruccelli, giudicato ed assoluto dal Tribunale Militare di Caserta, anonimo, Napoli, 1864, posizioni a discarico, p. 5.

4. Ibidem, pp. 4-6.

5. Ibidem, p. 5.

6. Cf. CESARI, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano cit., pp. 105-106.

7. Cf. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, 1964. cit., p. 139.

8. Cf. DE NONNO, op. cit., p. 10.

9. Su Antonio Secola si veda soprattutto Pel Barone Rosario Petruccelli

10. Dal matrimonio nacquero quattro figli che morirono tutti in tenerissima età: Michelarcangelo, Maria Rosa, Michelarcangelo Giosuè, Maria Celeste Rosina. (Ho attinto le notizie dall’Archivio Parrocchiale di Baselice).

11. Cf. Molfese, op. cit., p. 173;

12. Cf. A.S.N., Bngantaggio, fascio 4 cit., fascicolo 8.

13. Ibidem.

14. Da una memoria del nipote, il compianto dottor Nicola de Lellis, attualmente in mio possesso.

15. Cf. MOLFESE, op. cit., pp. 253-254.

16. Ibidem, p. 134.

17. Cf. Pel Barone cit., Interrogatori, p. 12.

18. Cf. MOLSESE, op. cit., pp. 255-256.

19. Ibidem p. 256.

20. Ibidem.

21. Cf. A.S.N., Brigantaggio, fascio 4 cit.; DE IACO, op. cit., p. 219.

22. Cf. MOLFESE, op. cit., p. 313.

23. Tra gli altri rimasero sul terreno Giuseppe Iarossi, Pasquale Bracale, Arcangelo Bibbò, Nicola Tambascia, nonché 5 fratelli: Felice, Carmina Maria, Vincenza, Maria Antonia e Maria Vittoria Valente, che stavano a lavorare i campi. Cf. A.S.N., Brigantaggio, fascio 4 cit., passim.

24. Ibidem; cf. anche Molfese, op. cit., p. 3i3.

25. Tra i morti vi furono Achille Mariella, Basile Viesti, Giuseppe Fataloli, Donato Vinciguerra, Pasquale Ruggiero, Michele Lauro, Angelo D’Andrea, Antonio Circelii, Domenico Picciuto, Antonio Picciuto, Michelangelo Pelosi, Pasquale D’Onofrio, Michele Pepe, Giuseppe Furino, Biase Iannantoni, tutti di S. Bartolomeo, nonché Pasquale Santovito – soldato di Vietri – e Domenico Lo Prete, segretario di Pubblica Sicurezza. Cf. A.S.N., Brigantaggio, fascio 4 cit., passim. –

26. Cf. Molfese, op. cit., p. 313.

27 Ibidem.

28 Ibidem; cf. anche DE NONNO, op. cit., pp. i4-i5.

29. Cf. CESARI, op. cit., pp. 115-116..

30. Cf. Archivio Parrocchiale di Montefalcone, Libro dei Morti della Parrocchia di S. Maria Assunta in Cielo di Montefalcone, cominciato l’anno 1841…, f. 51.

31. Cf. Molfese, op. cit., p. 133.

32. Cf. Molfese, Op. cit., p. 132; op. cit., pp. 154-155.

33. Cf. Masciotta, op. cit., p. 284.

34. In seguito a questo comportamento dei militi si ebbero parole di sdegno da parte del giornale “Nuovo Sannio”, che accusò di “barbarismo” la Guardia Nazionale di Baselice. Il 18 gennaio ci fu la replica del chierico Donatangelo de Nonno, che diede alle stampe, per la tipografia di Giuseppe Carluccio, Napoli, poche pagine (un sedicesimo) dal titolo: Poche parole in difesa della Guardia Nazionale di Baselice.

35. Mia nonna Annarosa Raiola era solita narrare che quella sera D. Nicolangelo Iannilli disse al popolo, radunato in chiesa per la funzione liturgica, che avrebbe baciato lui per tutti il piede del bambinello Gesù, dal momento che quella era una serata di lutto.

36. Cf. Pel Barone cit., Rapporti e documenti, pp. 84.85; Documenti, p. 16.

37. Ibidem, Interrogatori, pp. 10-11. Antonio Colucci morì il 10 giugno 1864 per una malattia contratta in carcere; la moglie comparve davanti ai giudici del tribunale il 13 luglio successivo; venne assolta. (Cf. SANGIUOLO, p. 246).

38. Cf. Pel Barone cit., Interrogatori, pp. 13, 16.

39. Cf. SANGIUOLO, op. cit., p. 253. La notizia della sua morte fu comunicata d’ufficio al Comune di Baselice, ove giunse tre anni dopo. Cf. Archivio Comunale di Baselice, Registri dello stato civile, anno 1888, n. 1, parte 2°, in data 20 giugno 1888.

40. Cf. Molfese, op. cit., p. 133.

41. Durante la lotta contro il brigantaggio morirono in Baselice cinque soldati ivi di stanza: Carta Salvatore di anni 19, nativo di Buono, soldato del 1450 reggimento di fanteria, morto nei locali del soppresso monastero il 21 dicembre 1862; Buccino Giambattista di anni 23 di Pontinivrea (Savona), soldato del 20° reggimento fanteria, 40 battaglione, prima compagnia, morto nei locali del soppresso monastero il 2 ottobre 1863; Venere Cosimo, di anni 26, da Taurisano (Lecce), soldato del 20° reggimento fanteria, 40 battaglione, prima compagnia, morto nell’ ospedale in Casa Pizzicari il 28 novembre 1863; Basile Santo, di anni 21, da Lecce, soldato del 27° reggimento fanteria, morto nei locali del soppresso monastero il 25 gennaio 1864. Poveri giovani, morti in miserrime condizioni, in locali squallidi, su letti di paglia. Ho attinto queste ultime notizie dall’Archivio Parrocchiale Baselice.

42. La notizia è attinta da uno dei tanti fascicoletti che compongono il fascio 4 più volte citato del fondo Brigantaggio, conservato nell’A.S.N.

43. Avo dell’Avv. Antonio che da Roma mi ha gentilmente inviato fotocopia dei documenti da cui ho tratto le notizie riportate nel testo.

44. L’ultimo figlio del “furiere zappatore”, il dottor Francesco, seguì le orme paterne, con una brillante carriera nell’Arma dell’Areonautica, di cui fu Tenente Generale Medico.

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