La nostra storia di Dino Messina
La Nazione napoletana: tra mito e realtà
di Eugenio Di Rienzo
Nel suo recente, importante volume Mito e realtà della nazione napoletana, (Guida Editori, 2016), Aurelio Musi traccia un magistrale affresco che, nella lunga durata storica che va dalla stagione dell’Umanesimo all’Italia liberale, ricostruisce la genesi e le successive trasformazioni del concetto di «patria napoletana». Concetto antico, questo, che si presenta alla ribalta della storia già nel tardo Quattrocento con Giovanni Pontano, il quale a proposito del Mezzogiorno peninsulare parlò esplicitamente di un organismo politico, territorialmente individuato, uno per cultura, costumi, istituzioni giuridiche, spazio economico. Un organismo il cui collante più forte era, comunque, rappresentato dal monarca, in grado di garantire la sovranità e l’indipendenza del Regno di Napoli nello schema internazionale della «libertà d’Italia» e in quello interno di un’alleanza tra la corona e una nobiltà anch’essa precocemente nazionalizzata e quindi sollecita del bene comune.
E’ questa l’ideazione della nazione-Regnum, luogo della storia e della memoria, dove si manifesta la fedeltà dei sudditi «alla terra e al re», che si trasporterà nella meditazione politica cinque-sei-settecentesca e che assumerà con Giovanni Antonio Summonte una versione “democratica” e “repubblicana” (la Nazione napoletana come unione dell’elemento aristocratico con quello popolare), per poi conoscere una nuova metamorfosi, con Pietro Giannone per il quale il Regno nella sua costituzione storica era sì fusione d’integrità territoriale e sovranità statuale ma rappresentava anche la pienezza delle prerogative regie contro l’anarchia feudale e il potere temporale del Papato. Con l’avvento dello «Stato nazionale» di Carlo III di Borbone, Antonio Genovesi modernizzerà il concetto di Nazione-Regno, alla luce della filosofia di Hobbes e Locke, proclamando, che pur nella cornice istituzionale dello Stato assoluto, il primo fondamento di una comunità nazionale andava ricercato nel «patto primitivo sociale espresso o tacito» che legava governante a governanti.
Il principio del contratto politico, come origine e principio animatore della Nazione, si affermerà poi pienamente nella stagione del Settecento riformatore, con Gaetano Filangieri, in quella rivoluzionaria, con Mario Pagano, per giungere a maturità, in quella napoleonica, con Vincenzo Cuoco ma non arriverà mai a ottenere diritto di cittadinanza dalla monarchia borbonica che fino a Ferdinando II rifiuterà ostinatamente di ancorare la sopravvivenza della dinastia e del Regno a una riforma di carattere costituzionale, respingendo il programma di quanti, come Carlo Poerio, capo del partito liberale napoletano non unitario, tentarono di sostituire al binomio nazione-Regnum quello di nazione-Costituzione.
E’ in questo imperdonabile ritardo storico che Musi giustamente individua la causa della crisi e della caduta dello Stato duo-siciliano e l’insuccesso registrato, dopo il 1860, a legare la difesa della causa legittimista all’aggiornamento via costituzione dell’idea di Nazione napoletana. Il tentativo degli ultimi sostenitori di Francesco II di avviare un processo di «nazionalizzazione della causa borbonica», che avrebbe potuto assicurare all’esule di Gaeta la possibilità di riconquistare i suoi domini, arrivò troppo tardi e con troppo poca convinzione fu accettato dall’ultimo re di Napoli per conseguire l’esito sperato. Inoltre, come ha notato Emilio Gin («Nuova Rivista Storica», C, 2016, 1) anche tra i più fedeli difensori di Casa Borbone, come Giacinto De Sivo, l’attaccamento della patria napoletana non era scisso da quello tributato alla più grande patria italiana, ancora intesa come settecentesco di sistema di Stati che, solo nel rispetto delle singole sovranità, poteva assicurare la libertà di ogni suo membro contro minacce provenienti dall’esterno o dall’interno delle Penisola.
Che l’idea di una Nazione napoletana, proiettata a interagire con le dinamiche nazional-liberali dell’Europa della seconda metà del XIX secolo, non sia stato soltanto, un argomento pretestuoso agitato dagli ultimi, irriducibili borbonici ma, come ha sostenuto Gigi Di Fiore nel suo La Nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista (Utet, 2015), un sentimento almeno embrionalmente già presente, negli ambienti più consapevoli dell’amministrazione, dell’esercito, della società civile è tesi che comunque merita di essere ancora investigata. L’esistenza di quel sentimento, germogliato con grande difficoltà dopo esser stato pressoché soffocato nella culla dalla testarda miopia politica della Corte di Caserta, fu riconosciuta da Manfredo Fanti, ministro della Guerra e della Marina nel terzo gabinetto Cavour, quando, nell’aprile 1861, illustrava le ragioni di quegli ufficiali borbonici, i quali, dopo essersi opposti con le armi alla “liberazione” del Mezzogiorno, giustificarono il loro operato come il necessario tributo al giuramento di fedeltà che li legava indissolubilmente non soltanto al loro legittimo sovrano ma anche e soprattutto al «governo nazionale napoletano riconosciuto in tutta Europa».
Certo è giusto sostenere, come ha scritto Carmine Pinto («Nuova Rivista Storica», CI, 2016, 2), che la valorizzazione della Nazione napoletana, in ambito borbonico, fu soprattutto una reazione allo «squagliamento» del Regno e alla lunga insorgenza anti-unitaria che ne seguì. Altrettanto giusto, però, è mettere in luce che tale valorizzazione raggiunse momenti di raffinata consapevolezza negli scritti di De Sivo, Pietro Calà Ulloa, Bermudez de Castro, Francesco Durelli ma anche in una galassia di opuscoli di autori minori e nei tanti libelli pubblicati in forma anonima. E’ questo il caso, ad esempio, della brochure, La Pologne et les Deux-Siciles, pubblicata nel 1863, a Parigi, da un emigrato borbonico che si definiva «cattolico e liberale» e che assimilava il triste destino del popolo polacco, sollevatosi contro l’occupazione zarista, a quello delle genti del Meridione «le quali da tre anni combattono senza tregua l’esercito piemontese per ripristinare la sovranità e l’indipendenza del Regno di Francesco II manomesse da un’invasione straniera avvenuta in spregio al diritto pubblico europeo e ai sentimenti più profondi della Nazione napoletana».
Dopo il 1870, come Musi giustamente sostiene, gli argomenti del nazionalismo borbonico persero di senso di fronte al pur difficile, contraddittorio, incompleto consolidarsi dell’edificio unitario. Eppure alcuni di questi argomenti, è sempre Musi a evidenziarlo, sopravvissero come elementi di critica costruttiva contro le inadempienze dell’Italia unita nei confronti del Mezzogiorno nei testi che tennero a battesimo la nascita della «questione meridionale», opera di Giustino Fortunato, Ettore Ciccotti, Pasquale Villari, Napoleone Colajanni, Pasquale Turiello.
(Pubblicato il 23 aprile 2016 – © «Il Corriere della Sera» – La nostra storia)