𝐆𝐞𝐧𝐭𝐢𝐥𝐞 𝐟𝐮 𝐮𝐜𝐜𝐢𝐬𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥’𝐈𝐧𝐭𝐞𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐂𝐨𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨
A pochi giorni dall’ottantesimo anniversario della sua morte, la casa editrice Le Lettere della famiglia Gentile ripubblica con una mia nuova prefazione l’antologia che curai degli scritti di Giovanni Gentile, Pensare l’Italia (pp.248, 18 euro). Raccoglie le pagine più significative della sua filosofia civile: l’amor patrio, la tradizione italiana e i suoi autori, l’umanesimo del lavoro.
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Gentile fu ucciso dall’Intellettuale Collettivo
di Marcello Veneziani
18 Marzo 2024
A pochi giorni dall’ottantesimo anniversario della sua morte, la casa editrice Le Lettere della famiglia Gentile ripubblica con una mia nuova prefazione l’antologia che curai degli scritti di Giovanni Gentile, Pensare l’Italia (pp.248, 18 euro). Raccoglie le pagine più significative della sua filosofia civile: l’amor patrio, la tradizione italiana e i suoi autori, l’umanesimo del lavoro.
Gentile sconta un triplice oblio e una maledizione: l’oblio del pensiero, della filosofia idealista e della nazione. E la maledizione di essere considerato “il filosofo del regime fascista”. L’oblio del pensiero e della filosofia idealista si accompagnano all’oblio della nazione, della sua identità e sovranità. Gentile fu invece filosofo, idealista militante, e filosofo della nazione, profondamente legato al pensiero italiano. Viva e vigorosa è la sua eredità nella scuola e nell’educazione umanistica, nell’impresa culturale – dall’Enciclopedia Treccani all’Ismeo, Istituto di studi dedicati all’Oriente – solo per citare un paio di sue grandi impronte – nella concezione comunitaria e nella sua ricerca di un pensiero vivente, profondamente italiano e per questo profondamente universale.
Ma il 15 aprile è l’anniversario del suo assassinio. Chi ordinò l’uccisione di Gentile? Al di là dei mandanti e degli esecutori reali, il vero ispiratore fu l’Intellettuale Collettivo, che è la definizione di Gramsci del Partito Comunista; ma è anche il gruppo di professori e intellettuali organici al Pci, vicini a Secchia, a Longo, Li Causi e Togliatti, rientrato un mese prima dell’uccisione di Gentile dall’Urss. Fu proprio il leader del Pci a rivendicare l’esecuzione, definendo Gentile canaglia e camorrista, immondo e corruttore, bandito e bestione. Più male fecero i giudizi, le condanne e il plauso all’assassinio provenienti dagli intellettuali. Da Concetto Marchesi ad Antonio Banfi, che fino a pochi mesi prima seguitava a chiedere e ottenere favori da Gentile, da Eugenio Curiel a Bianchi Bandinelli, amico di Gentile e accompagnatore deferente di Hitler in visita a Firenze nel ’38. E il ruolo di Mario Manlio Rossi, Giorgio Spini, Carlo Ludovico Ragghianti e di Eugenio Garin, prima devoto a Gentile e poi compiacente verso il Pci; di Cesare Luporini, reticente sul delitto Gentile, e di tanti intellettuali. Quasi tutti debitori verso Gentile o verso il suo pensiero, come del resto Gramsci. Denigrarono Gentile come filosofo e come uomo. Ai suoi funerali, scrisse il giovane Spadolini, non c’erano accademici (solo tre) né intellettuali, ma c’era una vasta e commossa partecipazione di popolo.
Perché fu eliminato? Non fu punito per il passato, semmai fu un modo per eliminare attraverso lui il loro passato, per occultare le loro compromissioni col regime. Chi lo uccise volle troncare l’appello gentiliano dal Campidoglio alla pacificazione tra fascisti e antifascisti, che da Mosca Togliatti aveva attaccato duramente. Lo uccisero non per l’adesione alla Rsi ma per l’appello alla concordia nazionale. Cinque giorni prima era stato ucciso il suo segretario nell’Accademia, Fanelli, da cui si cercavano documenti riguardanti Gentile. Il 18 aprile del ‘44 Gentile avrebbe dovuto incontrare Mussolini a Salò. Nell’ultima lettera inviata a Mussolini, il filosofo concludeva fiducioso: “E noi ci ritroveremo a Roma. Ci aspetta Roma, Roma Roma!” Una lettera strana, anche nel tono, se confrontata con le precedenti. Gentile non fu ucciso per il suo passato ma per sgombrare il futuro di una figura così ingombrante e imbarazzante per molti ex gentiliani. Il 15 aprile si compì un parricidio rituale e si indicò un codice ideologico di comportamento per il futuro: o gli intellettuali si redimevano passando al Pci, come i Banfi, i Garin, i Bianchi Bandinelli, i Bilenchi, in parte gli Spirito e i Malaparte; oppure sarebbero stati emarginati e rimossi, come accadde ai Volpe, i Pellizzi, i Soffici, i Papini o Evola, ma anche ai Prezzolini, i Del Noce e altri che fascisti non furono mai. L’uccisione di Gentile, la denigrazione postuma, la rimozione di ogni sua memoria, fu il peccato originale su cui si fondò il sistema ideologico-mafioso italiano, fu il parametro per misurare gli ammessi e gli esclusi, in accademia e non solo; fu il preambolo alle omertà successive e alle perduranti miserie partigiane della cultura italiana.
La sua ultima opera-testamento, Genesi e struttura della società, è un “saggio di filosofia pratica”, dice lo stesso Gentile. E’ una pietra miliare ma sommersa della filosofia sociale. Qui è il passo famoso: “All’umanesimo della cultura che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro”. Il lavoro non è in Gentile solo produzione e fatica ma attività etica e riscatto spirituale: “l’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro”. Nella definizione dello Stato, Gentile richiamava la continuità col pensiero liberale e conservatore; nell’umanesimo del lavoro, invece, richiama l’eredità del socialismo e del sindacalismo. Dalla sintesi gentiliana sorge lo Stato nazionale del lavoro.
L’umanesimo del lavoro fu il convitato di pietra della Costituzione italiana del ’48. La repubblica fondata sul lavoro già nel primo articolo della Carta ne è traccia palese, e gli eredi dell’umanesimo del lavoro sono le forze socialiste e comuniste, cattolico-popolari e sindacali.
Il materialismo è per il filosofo “il crollo di ogni moralità”. E invece l’uomo svolge un’attività universale che è “la ragione comune agli uomini e agli dei, ai vivi, agli stessi morti e perfino ai nascituri”. Ecco la comunità, intesa non solo tra i viventi ma tra chi ci ha preceduto e a chi ci seguirà; la filosofia ne è la sua coscienza. È il pensiero comunitario di Gentile: “In fondo all’Io c’è un Noi; che è la comunità a cui egli appartiene, e che è la base della sua spirituale esistenza, e parla per sua bocca, sente col suo cuore, pensa col suo cervello”. Organicismo comunitario. Gentile richiama il ruolo centrale e insostituibile della famiglia. L’uomo è famiglia, scrive in un bellissimo passo: “Lì è la radice del senso dell’immortalità, onde ogni uomo s’infutura e spezza la catena dell’attimo fuggente”. Per Gentile la famiglia è il “perenne vivaio morale dell’umanità”.
Colpisce il tono sereno, fiducioso, costruttivo dell’ultimo Gentile, nonostante il clima dell’epoca e la tragedia in atto; un pensiero ostinatamente positivo, proteso al bene e alla concordia, in piena tempesta bellica, in mezzo all’odio. Cercatore di vita davanti alla morte, che presto sarebbe andata a prelevarlo…
La Verità – 17 marzo 2024