Nel futuro tutto tecnologia restano solo i valori umani
16 Febbraio 2024
Che mondo ci aspetta? Ci dicono che non vi sarà più alcun lavoro, né attività umana, che non sarà sostituibile anzi sicuramente sostituita dall’Ai, l’Artificial intelligence
Michele Brambilla
Che mondo ci aspetta? Ci dicono che non vi sarà più alcun lavoro, né attività umana, che non sarà sostituibile anzi sicuramente sostituita dall’Ai, l’Artificial intelligence. Neppure il pensiero, e neppure i sentimenti saranno esclusiva dell’uomo così come la Natura l’ha creato e come secondo Darwin si è evoluto. Le macchine penseranno, ameranno, odieranno, decideranno. Tutta l’umanità, oh sì, tutta ne trarrà gran beneficio. Solo per fare un esempio, il termine malasanità scomparirà dai vocabolari e dal gergo giornalistico perché l’Ai fornirà diagnosi infallibili e terapie risolutive. Ma poi che dico, non vi saranno più nemmeno vocabolari e giornali dai quali far sparire alcun sostantivo: anche il nuovo linguaggio, e forse anzi senz’altro un nuovo alfabeto, saranno esclusiva dell’Ai. E quindi pure malagiustizia scomparirà dai nostri discorsi, cioè dai discorsi delle macchine pensanti, perché non vi saranno più errori giudiziari. L’Ai procederà agli arresti e agli interrogatori degli imputati, escuterà i testimoni ed infine emetterà le sentenze, e non vi sarà bisogno di appello perché più che di sentenze si tratterà di verdetti, cioè di «qualcosa che è detto che sia vero». Le macchine non sbaglieranno. Non ci sarà più bisogno dei magistrati, e forse per qualcuno almeno questa è una buona notizia.
E certo c’è chi un po’ si spaventa, di fronte a queste prospettive. Che sciocchi, che ingenui, che incolti. Che gente che non sa come va e come è sempre andato il mondo. Sono uguali a coloro che dicevano che mai l’uomo avrebbe potuto alzarsi in cielo. Uguali a coloro che si spaventarono quando si passò dalla penna con il calamaio alla stilografica e poi alla biro, e poi dalla macchina per scrivere al computer. Uguali a coloro che pensavano che la radio, e ancor di più la televisione, e non parliamo poi di internet e dello smartphone, avrebbero devastato l’umanità. Ma del resto anche Gutenberg fu considerato, da alcuni, un corruttore dell’umanità, perché la stampa avrebbe diffuso il sapere, del quale il popolo avrebbe sicuramente fatto cattivo uso. L’uomo s’è sempre spaventato di fronte al nuovo: ma il nuovo è buono per definizione. Non esiste un progresso cattivo, né pericoloso.
Così ci assicurano quelli del Transumanesimo. Sono gli animatori di un movimento culturale nato all’inizio degli anni Ottanta in California e sostengono «l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità cognitive in vista di una possibile trasformazione postumana». E quindi sono parenti stretti di un altro esimo, quello appunto del Postumanesimo, secondo il quale si arriverà bisognerà arrivare! al superamento dell’uomo attraverso l’informatica e le biotecnologie. L’uomo si congiungerà con la tecnologia a livello biologico (le modalità dell’amplesso non sono ancora state rese note) e metterà al mondo individui ibridi.
In realtà transumanisti e postumanisti, parenti serpenti, prendono ciascuno le distanze dall’altro. I primi sarebbero più moderati. Sostengono che l’Intelligenza artificiale supererà quella umana, ma assicurano che non si tratta di raggiungere un ulteriore stadio evolutivo, bensì di liberarsi dai tratti naturali della specie umana. Dio è morto, ma pure Darwin non sta tanto bene. Il Transumanesimo assicura che la coscienza individuale verrà trasferita su un supporto digitale, oppure da tale supporto sarà emulata. Il risultato sono finalmente! le sorti magnifiche e progressive. Non il comunismo, ma la tecnologia le realizzerà. Non ci saranno più i malanni della vecchiaia e si resterà sempre giovani, mai ci si ammalerà, tutte le sofferenze involontarie saranno un lontano ricordo e si arriverà là dove ha fallito perfino Di Maio, eliminando la povertà. Non ci saranno più neppure le pene del cuore perché l’Intelligenza artificiale eliminerà le gelosie e i conflitti e le delusioni e si farà l’amore ognuno come gli va.
Con tali ideologi mi sono imbattuto, un paio di anni fa, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove davanti agli studenti si discuteva delle implicazioni che avrà l’Intelligenza artificiale dal punto di vista legale. Ad esempio: quando le automobili viaggeranno senza conducente, in caso di incidente chi sarà responsabile? Il proprietario della vettura o il costruttore? Come si comporteranno le compagnie di assicurazioni? E così via.
Era stata invitata anche la presidente dell’Ordine degli Avvocati. «Una professione destinata a scomparire», le dissero i relatori transumanisti, ingegneri elettronici informatici eccetera. Le spiegarono appunto che sarà sufficiente inserire in una macchina tutti gli elementi d’accusa e di difesa per arrivare a una verità giudiziaria, anzi perfino a una verità storica. Lei, l’avvocata, provò a replicare facendo presente quanto sia importante, in un interrogatorio, l’aspetto umano, la sensazione che l’imputato o il teste possono fare ai giudici. Povera ingenua, le fu detto: già oggi ci sono macchine che sanno distinguere la verità dalla menzogna, e presto avremo anche quelle che leggono i sentimenti e le emozioni grazie a un algoritmo (eccola qua, la parola magica di tutto: algoritmo) che sa leggere i tratti del volto, la postura del corpo e il movimento delle mani, smascherando così l’impostore.
Quando fu il mio turno, provai a eccepire che una macchina, per quanto formidabile e sicuramente più veloce del cervello umano, avrà comunque necessità di essere rifornita da dati che solo l’uomo le può fornire. Ad esempio, in un processo penale, i famosi indizi: chi li avrà raccolti, se non un commissario o un maresciallo? Provai perfino a difendere l’indifendibile categoria cui appartengo, dicendo: certo che una macchina può confezionare un eccellente pezzo di cronaca o un reportage di guerra, lo scriverà anche senza quegli errori di sintassi o di grammatica ahimè sempre più frequenti; ma chi le fornirà i dati da elaborare? Chi, se non un cronista o un inviato che è andato «sul posto», come si diceva una volta? «Un tempo, anzi ai tempi delle vacche grasse dell’editoria», dissi, «nelle redazioni di cronaca dei giornali ogni fatto veniva seguito da due giornalisti. Il primo era il reporter, che andava a vedere che cosa era successo, si informava e raccoglieva tutti i dati. Il secondo era l’estensore, cioè colui che poi scriveva in bello stile i dati che il reporter gli aveva portato. Dino Buzzati, per dire, già famoso scrittore, faceva l’estensore nella cronaca di Milano del Corriere della Sera. Ecco, la macchina potrà diventare un eccellente estensore (anche se io preferirò sempre il genio di un Buzzati) ma avrà comunque bisogno di un reporter in carne ed ossa», conclusi. Aggiunsi poi, rivolto agli studenti che ci stavano ascoltando: «Insomma ci sono alcuni lavori che l’Intelligenza artificiale non potrà mai sostituire». Fui cazziato, poco dopo, da un professore transumanista: «Nella scienza», disse, «non si può mai pronunciare la parola mai».
Non avemmo tempo eppure la sede era quella adatta per approfondire un altro aspetto legale di non poco conto. Quello dei diritti d’autore. Sarà anche vero che l’Ai può scrivere perfino sublimi romanzi, assemblando idee e trame prese dai più bravi scrittori. Ma questi scrittori non avrebbero diritto a essere pagati? E sarà anche vero che una macchina, in medicina, potrà produrre diagnosi precise, attingendo a una sterminata letteratura medica, cioè da cartelle cliniche, esperienze, insomma lavori di migliaia di medici di tutto il mondo. Ma questi medici non avrebbero anch’essi diritto a essere pagati? E così via per il giornalismo, per la fotografia, per tutto quello che l’Ai già produce in qualità eccellente pescando un po’ di qua e un po’ di là.
Sarebbe arrivato, dopo quel convegno, il lungo sciopero (148 giorni) degli autori di Hollywood, i quali hanno capito, o meglio sperimentato, che l’Intelligenza artificiale può essere una grande opportunità ma anche la più Grande Rapina della storia.
Sempre a Bologna feci, più o meno in quei tempi, un incontro interessante. Quello con Federico Faggin. Il suo nome non dirà nulla ai miliardi di giovani che passano ore davanti a uno smartphone. Ma il padre di quell’aggeggio è proprio lui, ben prima di Apple. È lui che ha inventato il celeberrimo microprocessore Z80, lui che ha inventato il touchscreen e il touchpad. Nato a Vicenza il primo dicembre del 1941, fisico, ingegnere e informatico, Faggin emigrò in California sul finire degli anni Sessanta. E per capire di chi stiamo parlando, Bill Gates ha detto di lui: «Prima di Faggin, la Silicon Valley era semplicemente la valley».
Cenammo insieme dall’ingegner Francesco Bernardi, un imprenditore innamorato della cultura e della conoscenza, che aveva organizzato uno dei suoi Incontri Esistenziali al Teatro Duse, dove Faggin era atteso da un migliaio di persone.
«A 48 anni», raccontò Faggin a cena, e ripeté poi in teatro, «entrai in una crisi profonda. Avevo tutto: successo, fama, benessere economico, una bella famiglia. Ma quel tutto mi sembrava nulla. Che cos’è infatti la vita se poi tutto finisce con la morte? Ma la vita ha un senso? Ed io che sono?».
«Una notte del 1990, nella mia casa sul lago Tahoe, dov’ero in vacanza, non riuscivo a dormire. Mi alzai per prendere un bicchier d’acqua. Tornato a letto, mentre aspettavo di riaddormentarmi, ho sentito un’energia fortissima emergere dal petto. Era amore, ma un amore diecimila volte più intenso di qualunque amore avessi provato. Un amore che percepivo essere la sostanza di tutto, me compreso. In quell’istante ho capito, ho percepito, ho provato che tutto è amore».
L’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso, XXXIII, v. 145)?
Faggin ne è convinto e dice che da quella notte si sente investito da una missione: «Confutare da scienziato, non da religioso! lo scientismo che oggi vorrebbe far credere che l’uomo è una macchina e che il computer, l’Intelligenza artificiale, lo può sostituire».
«Il computer», mi disse ancora Faggin, «può fare molte più cose di quelle che può fare un essere umano, può fare miliardi di calcoli al secondo, ma non potrà mai avere una coscienza. Mai potrà avere la percezione di sé, mai potrà avere un libero arbitrio».
«Il nostro pensiero e i nostri sentimenti», continuò, «non sono il prodotto di un insieme di contatti elettrici nel cervello. Quelli spiegano il come, ma non il perché. Quelli sono lo sviluppo, non l’origine di ciò che proviamo. L’io esiste. Ed è qualcosa di immateriale, quindi di immortale».
Da qualche anno, Faggin ha costituito con la moglie Elvia una Fondazione che ha lo scopo di spiegare perché nessuna macchina può e potrà mai avere una coscienza. Non aderisce a nessuna confessione religiosa, resta solo uno scienziato: quando spiega la sua teoria, fa ricorso alla fisica quantistica, con parole che qui faticheremmo a spiegare. I suoi studi, in collaborazione con il professor Giacomo D’Ariano, un’autorità della fisica quantistica, stanno cominciando a far riflettere i colleghi.
I quali però, in maggioranza, restano felici e contenti di pensare che quando dicono «ti amo» lo fanno perché qualche reazione chimica glielo fa dire; restano contenti, insomma, di pensare di non esistere, di essere solo macchine, e per giunta inferiori a quelle che verranno.
E su chi abbia ragione, tra questi transumanisti e il professor Faggin, chi scrive non può saperlo. Ma su quale sia, fra i due mondi che essi prospettano, il più desiderabile, di dubbi non ce ne sono.
https://www.ilgiornale.it/news/cronache/nel-futuro-tutto-tecnologia-restano-solo-i-valori-umani-2284604.html