Il XXI secolo NON sarà cinese

Il XXI secolo NON sarà cinese

di Drieu Godefridi 18 febbraio 2024

Pezzo in lingua originale inglese: The 21st Century Will NOT Be Chinese
Traduzioni di Angelita La Spada
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Il crollo della Cina: settore immobiliare, valuta, mercati azionari, tecnologia, dati demografici. Tutti i pezzi combaciano tra di loro e ciò che si prospetta per la Cina sembra, nella migliore delle ipotesi, una stagnazione. (Fonte dell’immagine: iStock)

Quasi nessuno se ne preoccupa, perché durante l’estate tutto sembra così lontano, ma la notizia della settimana è molto probabilmente il crollo della Cina. Settore immobiliare, valuta, mercati azionari, tecnologia, dati demografici: tutti i pezzi combaciano tra di loro e ciò che si prospetta per la Cina sembra, nella migliore delle ipotesi, una stagnazione.

1. Crollo del mercato immobiliare

Il crollo del mercato immobiliare cinese: si stima che in Cina ci siano 80 milioni di case vuote: un numero enorme, anche per un grandissimo Paese. Sebbene il settore immobiliare abbia guidato la crescita della Cina per decenni, ora rischia di distruggerla. I principali conglomerati immobiliari cinesi stanno fallendo uno dopo l’altro. Questa volta non c’è nessun rimedio né esiste alcuna soluzione che possa ossigenare artificialmente “i mattoni” cinesi. Per anni, il regime cinese ha stimolato artificialmente il settore immobiliare come motore economico, e ha funzionato! A volte, però, si giunge a un punto di saturazione, e in Cina quel punto di saturazione e stato raggiunto adesso.

2. Crollo dello yuan

Poi è arrivata la marginalizzazione della moneta cinese, lo yuan, presentata come destinata a spodestare e a rimpiazzare il dollaro. Non ancora. Lo yuan può essere o non essere debole, ma soprattutto nessuno lo vuole come moneta internazionale perché nessuno si fida dell’affidabilità del regime cinese nel lungo termine. Nessuno vuole acquistare obbligazioni cinesi. “È molto difficile creare una valuta di riserva, senza interessanti attività di riserva. La Cina ha un problema. Vuole che gli stranieri acquistino obbligazioni, ma queste le vendono dall’inizio del 2022”, ha di recente rilevato Jens Nordvig, fondatore e CEO di Exante Data.

Quando le grandi aziende cinesi si indebitano sui mercati internazionali, lo fanno sempre in euro-dollari (un’iterazione del dollaro), e di certo non in yuan.

La moneta cinese, debole o meno, non sostituirà il dollaro, nemmeno nel Sud-Est asiatico. Sebbene il recente rafforzamento dei BRICS (il gruppo informale che annovera Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) rappresenti uno sviluppo geopolitico interessante, non vi è alcuna indicazione in questa fase che gli altri membri del gruppo dei BRICS siano pronti ad adottare lo yuan nelle loro transazioni, e di certo, non l’India.

Per quanto riguarda l’idea di una moneta comune da utilizzare tra i Paesi membri del gruppo dei BRICS, gli esperti hanno espresso il loro scetticismo. Danny Bradlow, docente del Center for Advancement of Scholarship presso l’Università di Pretoria, in Sud Africa, mette in discussione la praticità del ritorno al “gold standard” – non c’è abbastanza oro se tutti volessero convertire le banconote in oro – o l’utilizzo di criptovalute. Ha messo in dubbio la loro affidabilità nel commercio globale. Ci sono investitori seri che considerano le criptovalute essenzialmente una trovata, come la mania per i tulipani olandesi nel XVII secolo. Anche allora, almeno si possedeva un bulbo di tulipano.

Parlando delle difficoltà legate alla creazione di una specifica moneta da utilizzare dal gruppo dei BRICS, Shirley Ze Yu, senior visiting fellow presso la London School of Economics, ha affermato che la creazione di una tale moneta unica implicherebbe la necessità di dar vita a una serie di istituzioni con standard e valori condivisi. “Questi obiettivi sono molto difficili da raggiungere, anche se non impossibili”, ha osservato l’economista.

Chris Weafer, analista di investimenti specializzato in Russia ed Eurasia presso Macro-Advisory, ha definito “un fallimento in partenza” la proposta di creare una moneta unica per i Paesi BRICS .

3. Crollo del mercato azionario cinese

È probabile che il presidente del Partito Comunista Cinese Xi Jinping non capisca come funzionano i mercati. Potrebbe aver pensato di poter moltiplicare i suoi interventi arbitrari sul mercato azionario cinese senza alcuna conseguenza: creando una perdita di fiducia. Perché qualcuno dovrebbe voler investire in un mercato azionario che è costantemente alla mercé di un “Principe” comunista e delle sue bizze e predilezioni personali?

Secondo la nuova “Legge contro le sanzioni” varata in Cina, qualsiasi cosa può costituire un crimine e i beni di una persona possono essere confiscati se i leader del Partito Comunista lo desiderano. Il raid (della polizia) nella sede centrale della Bain & Company, a Shanghai, e la colonizzazione (la conquista) dell’hub finanziario di Hong Kong da parte degli imperialisti cinesi hanno avuto anche l’effetto, da un punto di vista prettamente finanziario, di privare il mercato cinese di ogni affidabilità.

C’è anche il problema che in Cina non esistono aziende private: secondo il concetto di “fusione civile-militare” tutte le aziende appartengono al governo centrale e possono essere perquisite in qualsiasi momento per ottenere informazioni.

4. Mancanza di innovazione tecnologica

La belligerante radicalizzazione della Cina ha portato gli Stati Uniti, nonostante decenni di buone relazioni con Pechino, a mettere in discussione la propria “condivisione” della tecnologia dei semiconduttori con la Cina, e questo a causa, ad esempio, del mancato rispetto da parte della Repubblica Popolare Cinese degli standard di trasparenza o contabili statunitensi, dei disavanzi commerciali sempre a favore della Cina e del furto cinese permanente e sistematico della proprietà intellettuale americana. Il governo cinese non sembra ancora padroneggiare questo ambito, il che potrebbe rendere Xi ancora più interessato a conquistare Taiwan, che è un centro mondiale dei microchip. Le aziende cinesi e il governo di Pechino temono di rimanere indietro rispetto alle aziende giapponesi, della Corea del Sud, di Taiwan e di quelle occidentali, e questo è uno dei pochi punti di convergenza negli Stati Uniti fra Democratici e Repubblicani.

5. Calo demografico

In ogni Paese industrializzato e in ogni continente, salvo rare eccezioni, le curve demografiche stanno crollando. È vero soprattutto per la Cina, che con un tasso di fecondità di 1,28 figli per donna, sembra destinata a seguire le orme del Giappone. Sembra che Xi stia cercando di invertire questa tendenza al ribasso, ma è riuscito soltanto ad accelerarla. Nonostante la fine formale della politica cinese del figlio unico, avvenuta nel 2016, e l’introduzione di benefici finanziari e di riduzioni fiscali per le famiglie, i tassi di natalità non hanno registrato un considerevole aumento.

I dati delle Nazioni Unite indicano che, sebbene si sia verificato un lieve aumento del tasso di fertilità del Paese subito dopo il cambiamento di politica, da allora è però diminuito. I numeri sono passati da circa 1,7 figli per donna – simili ai tassi di Australia e Regno Unito – a 1,28, uno dei più bassi a livello mondiale. Questo recente calo rispecchia un insieme di varie pressioni economiche e sociali che si sono accumulate in Cina nel corso degli anni, ma un mercato del lavoro in flessione diminuisce il potenziale di crescita.

Da quanto detto sopra, consentitemi di fare una disamina della situazione. I nostri contemporanei spesso non rammentano che il regime cinese non è l’equivalente di una democrazia britannica, americana od olandese. Il regime cinese è una dittatura in senso stretto, la dittatura di un unico partito e, in definitiva, di un solo uomo, Xi. Quindi, se si vuole deporre un dittatore, lo si può fare soltanto con l’uso della forza, oppure, potrà accadere se lui stesso decide di andarsene o se la sua vita giunge al termine.

Xi, nonostante il fallimento delle sue politiche economiche, probabilmente non deciderà di andarsene. Potrebbe sperare che le imminenti elezioni presidenziali di Taiwan del 13 gennaio 2024 gli facciano cadere il Paese tra le braccia. Per polarizzare più scambi internazionali, Xi potrebbe rinviare qualsiasi aggressione pianificata o, al contrario, come spesso fanno i tiranni, intensificare le ostilità per distogliere la sua popolazione dalla crisi economica, non come preludio al “secolo cinese”, ma come una disperata manovra da parte di un uomo disperato.

Xi ha già detto al suo esercito di “prepararsi alla guerra” e di “combatterla e vincerla”. Ha fatto volare palloni spia sui siti militari più sensibili dell’America e ha inviato “centinaia di uomini cinesi in età militare” attraverso il confine meridionale aperto degli Stati Uniti (verosimilmente per ostacolare una controffensiva americana nel caso di un’invasione cinese di Taiwan) allo scopo di sabotare gli aeroporti americani, le reti elettriche, i sistemi di comunicazione, le forniture idriche, i ponti, i porti, le autostrade, i tunnel e altre infrastrutture strategiche.

Xi capisce che il suo “tempo utile”, durante un’amministrazione Biden che è forse compromessa, sta per scadere, e che gli Stati Uniti sono guidati da un presidente che stringe la mano a interlocutori immaginari e dice “No comment”, riguardo a una città ridotta in cenere e che assicura al presidente russo Vladimir Putin che una “piccola incursione” in Ucraina potrebbe essere tollerata.

Xi ha visto chiaramente l’amministrazione Biden fuggire dall’Afghanistan; eliminare l’indipendenza energetica e promuovere i mulini a vento; consentire a un pallone spia di completare la sua missione sui siti militari statunitensi sensibili; porre fine alla China Initiative che stava ostacolando la ricerca e lo spionaggio industriale; non vietare TikTok, gli Istituti Confucio, le Aule Confucio K-12, le “stazioni di polizia” illegali cinesi; consentire alla Cina di acquistare terreni agricoli americani, spesso vicino a basi militari statunitensi, e non fare di fatto nulla per porre un freno agli investimenti americani nell’industria e nell’esercito cinese attraverso fondi pensionistici riservati ai dipendenti federali come Thrift, così come investimenti nel settore privato.

Larry Fink, presidente di Blackrock, ha esortato gli investitori a “triplicare le loro allocazioni in asset cinesi”. “[Siamo] uno dei 16 gestori patrimoniali che attualmente offrono fondi indicizzati statunitensi che investono in società cinesi”, ha detto la BlackRock alla CNN a proposito di un Paese che li sta utilizzando per rimpiazzare l’America e governare il mondo.

Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan Chase, ha dichiarato che “intende operare in Cina secondo la politica estera statunitense e che fermerà apertamente l’espansione se la politica americana lo imporrà”. In altre parole, non è illegale investire nella Cina comunista, un Paese che vuole esplicitamente soppiantare l’America come principale superpotenza mondiale per governare il mondo. Se la Cina attaccherà Taiwan e inizierà una guerra, saranno gli Stati Uniti a finanziarla.

Anche le alleanze militari pianificate dagli americani nella regione attestano la probabilità dello scoppio della guerra, e la sua impellenza.

Drieu Godefridi è giurista (Université Saint-Louis de Louvain), filosofo (Università Saint-Louis de Louvain) e dottore in Teoria del diritto (Paris IV-Sorbonne). È autore di The Green Reich.