𝐏𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐥’𝐚𝐮𝐭𝐨𝐧𝐨𝐦𝐢𝐚 𝐦𝐚 𝐚 𝐬𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐡𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐜𝐢𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐬𝐩𝐨𝐫𝐜𝐚
Gli ultimi che possono protestare contro l’autonomia regionale sono le forze di sinistra, a partire dal Pd. Fu un governo di centro-sinistra nel 2011 a varare la sciagurata riforma del titolo V della Costituzione, poi sostenuta anche dal centro-destra, che è la premessa logica e necessaria all’attuale piano dell’autonomia.
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Piano con l’autonomia ma a sinistra hanno la coscienza sporca
di Marcello Veneziani
26 Gennaio 2024
Gli ultimi che possono protestare contro l’autonomia regionale sono le forze di sinistra, a partire dal Pd. Fu un governo di centro-sinistra nel 2011 a varare la sciagurata riforma del titolo V della Costituzione, poi sostenuta anche dal centro-destra, che è la premessa logica e necessaria all’attuale piano dell’autonomia. E non solo: neanche i 5 Stelle possono obbiettare nulla per la semplice ragione che accettarono tra i punti cardinali del primo governo Conte questa riforma sull’autonomia voluta dalla Lega. Anche allora, come oggi, fu un compromesso per governare: Conte e il suo Movimento accettarono di far passare l’autonomia in cambio delle loro proposte, come il reddito di cittadinanza. La caduta precoce di quel governo ci risparmiò già da allora dall’autonomia. Adesso invece, la riforma del premierato voluta dalla destra e dalla Meloni, prevede “in cambio” la riforma Calderoli per l’autonomia.
Ricordo ai tempi in cui si propose il referendum sull’autonomia che il Pd ebbe la ridicola pensata di esprimere un “si critico” al referendum. Non capimmo come si sarebbe poi espresso questo “si critico” sulla scheda elettorale: tracciando una croce ricamata a uncinetto sul si, o accludendo alla scheda obiezioni, allegati e arabeschi, aprendo un dibbbattito nel seggio con gli scrutatori?
Anche se ora lo dimenticano, ma alcuni anni fa tutti facevano a gara a chi fosse più federalista, da sinistra, al centro e a destra, scavalcando Bossi.
E se vogliamo risalire ancora più indietro, le regioni furono volute dai governi di centro-sinistra e dagli stessi comunisti già nel dopoguerra e al tempo della Costituente, perché ancora infatuati delle repubbliche socialiste sovietiche, l’Urss. Il loro “federalismo” traeva spunto dal modello sovietico. Le Regioni furono poi un frutto dell’Arco Costituzionale. Gli unici ferventi oppositori alla nascita delle Regioni furono i missini, e un po’ i liberali.
Le Regioni furono l’inizio del declino dello stato italiano, il raddoppio degli sprechi, del clientelismo e del personale politico, un favore fatto alle consorterie, dalla partitocrazia alle associazioni mafiose, dal familismo alla lottizzazione. Ma la riforma del titolo V fu poi la mazzata finale che investì le regioni di compiti e prerogative che dettero il colpo di grazia allo Stato nazionale e sovrano. L’istruzione, la sanità, la sicurezza passati di competenza alle regioni, e una marea di conflitti tra Stato e regioni da logorare il tessuto unitario e ogni prospettiva di efficacia.
Un paese che bene o male era cresciuto, si era unificato, alfabetizzato e modernizzato con uno stato centrale e un centinaio di province e di prefetture, cominciò a sfasciarsi, vedi la coincidenza, quando furono introdotte le regioni nel 1970. E ancor peggio fu l’esempio delle regioni a statuto autonomo, a partire dalla Sicilia. L’esperienza dunque ci dice che dare più autonomia e più poteri alle regioni è stata una sciagura progressiva che allargò a dismisura il deficit e il mancato controllo dei conti pubblici.
Sul tema specifico dell’autonomia fiscale si può essere d’accordo almeno in linea di principio e come criterio correttivo generale nello stabilire un più equilibrato rapporto tra risorse prelevate e territorio: ma è impensabile che i soldi raccolti dalle tasse vengano spesi tutti in loco, perché sarebbe la fine dell’Italia intera, e non solo del sud; anzi sarebbe la fine dell’Europa; certo è necessaria una più equa corrispondenza tra prelievi e spese e una rigorosa responsabilizzazione delle amministrazioni locali. Detto terra terra: se tu Sicilia o Campania, per esempio, sprechi e malgoverni, allora perdi soldi, servizi e sovranità locale, fino a essere commissariata. Anche se in molte amministrazioni locali, Roma inclusa, ci vogliono i giapponesi, se non i coreani, altro che autonomia…
Sul piano lirico della nostalgia, erano belli i regni asburgici e borbonici, più alcune signorie, ma era bella pure l’Italia centralista e napoleonica dei prefetti, uscita dal Risorgimento; per non dire dell’impero romano, ma il presente è questa roba qui e dobbiamo essere realisti. E fino a che non decidiamo di farla finita con questo paese e di seppellire gli ultimi conati d’amor patrio, di unità nazionale e di Stato sovrano, ci tocca pensare in termini d’Italia, non di regione. E di fratelli d’Italia e non di fraterie locali. Perché poi se i principi del “meno siamo meglio stiamo” e “le tasse si consumano sul posto” si dovessero applicare a cascata, finirà che le province più ricche, all’interno dello stesso nord vorranno staccarsi almeno sul piano amministrativo da quelle meno ricche, e nelle città i quartieri ricchi dai rioni poveri: noi paghiamo le tasse, quindi vogliamo servizi migliori rispetto alla periferia… Ma l’Italia non è una cucina scomponibile, da smontare all’occorrenza. E’ una patria, non un mobile Ikea. Nessuna comunità regge sul primato dell’egoismo.
A proposito dei costi pubblici che ricadono sulle nostre spalle di cittadini e contribuenti è comprensibile che non si vogliano caricare su di noi, l’assistenza sanitaria per i migranti, le loro case, il loro reddito d’inclusione, perfino le loro moschee e i loro cellulari; ma se non vogliamo condividere nemmeno la sorte dei nostri connazionali, cittadini regolari, lavoratori e contribuenti, chiudiamoci in casa o in crotto a mangiar pizzocheri e polenta taragna e non ne parliamo più. Sarò perdutamente italico, romanico e sudista ma l’Italia fu fatta per unirci nella differenza e non per dividerci sull’unità. Anche se a Teano, al sud, a unire l’Italia furono due settentrionali, un re piemontese e un combattente ligure. A loro il merito e la colpa.
La Verità – 25 gennaio 2024