A che serve la Rai

𝐀 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐫𝐯𝐞 𝐥𝐚 𝐑𝐚𝐢
La televisione compie oggi settant’anni ma nel celebrare il suo compleanno si omettono due dettagli storici non da poco.

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A che serve la Rai
di Marcello Veneziani
04 Gennaio 2024

La televisione compie oggi settant’anni ma nel celebrare il suo compleanno si omettono due dettagli storici non da poco. Il primo è che l’anniversario più importante di quest’anno, almeno come data, non è il settantennale della tv ma il centenario della radio, da cui nacque la Rai. La radio è la madre della tv, è l’incipit delle trasmissioni nell’etere. Il battesimo ufficiale della radio fu il 6 ottobre del 1924, in epoca fascista, l’emittente fu l’unione radiofonica italiana che poi assunse il nome famoso dell’Eiar. Che fu, si, altoparlante del regime fascista e della sua propaganda ma fu anche mezzo formidabile di informazione, istruzione e modernizzazione di massa. Arrivò perfino nelle campagne, fu il primo massiccio tentativo di includere i contadini nell’informazione, il loro passaggio dalla natura alla cronaca, dal tempo meteo al tempo storico.

Il secondo dettaglio trascurato dai tele-celebratori è che il 3 gennaio del 1954, andarono in onda i segnali e gli annunci ufficiali della Rai-tv ma le prime trasmissioni televisive risalgono in realtà al 1939, dopo un decennio di esperimenti. La Tv nacque in seno all’Eiar, sotto il regime fascista. Se non ci fosse stata la guerra, la tv si sarebbe diffusa un decennio prima, magari con l’esposizione universale del 1942 e avrebbe presumibilmente seguito nel tono e nell’ispirazione il modello di nazionalizzazione e mobilitazione delle masse che aveva assunto la sua sorella maggiore, la radio, nata e cresciuta sotto il regime fascista. Ma non solo: a inaugurare la televisione, nel 1939, non fu un ministro della cultura, dell’educazione o della pubblica istruzione, un Bottai, un Gentile o un Biggini, ma addirittura Achille Starace, il segretario del Partito nazionale fascista. Proprio lui, l’inventore delle veline, ma in un senso assai diverso da quello televisivo recente, famoso per i suoi ginnici salti nel cerchio di fuoco e per la devozione cieca e assoluta nei confronti del Duce, fino alla morte. Fu lui che compì il primo salto nel quadrato magico della scatola luminosa e tenne a battesimo il mezzo televisivo alle soglie del conflitto mondiale. Fu pure allestita una sala a Villa Torlonia, residenza del duce e della sua famiglia, per seguire i primi programmi sperimentali. Mussolini vedeva la tv prima che apparisse Mike Bongiorno. Le cose non nascono mai dal nulla, ma sono figlie di altre situazioni e di altri contesti.

Ristabilita la verità storica, di solito omessa per ridicoli motivi di omertà storica e ottusa partigianeria, poniamoci la domanda per eccellenza: qual è il bilancio complessivo che si può fare della televisione, ovvero qual è il segno dell’influenza che ha esercitato sugli italiani, come singoli e come popolo, e sulle istituzioni?

Si potrebbe dire che la storia della televisione sia divisa in due parti, che in linea di massima coincidono con le due metà del suo secolo di vita: nella prima parte la radio-televisione è stata soprattutto un mezzo di promozione popolare e di elevazione di massa, nella seconda parte è stata soprattutto un mezzo di peggioramento e involgarimento dei gusti di massa e dei modelli di vita. Da mezzo evolutivo a industria per il peggioramento della specie…

Il punto di svolta coincise con due fattori emersi negli anni settanta: da una parte l’avvento della tv commerciale e dunque della concorrenza, che pure di solito migliora i prodotti ma nel caso della tv ha prodotto una gara al ribasso della qualità e della mission; dall’altra parte la tv controllata dal potere politico si fa lottizzazione, e questo da un verso garantisce un maggior pluralismo dell’informazione ma dall’altro abbassa il livello della televisione all’interesse dei partiti e della loro propaganda, dei loro impresari e dei loro emissari. La gara della quantità ha ucciso la qualità, la gara dei consumi si è abbattuta sui costumi.

Si può davvero sostenere che per cinquant’anni almeno la tv ha, si, uniformato gusti, conformato stili di vita, banalizzato saperi, ma ha alfabetizzato il paese in modo capillare e massiccio, ha unificnato davvero l’Italia, ha consentito il passaggio alla lingua italiana di larghe aree del sapere, ha dato istruzione primaria più della scuola, ha intrattenuto, divertito, avvicinato la gente alla cultura e ai fatti del giorno. E dunque la sua impronta può dirsi complessivamente positiva.

Ma dalla fine degli anni settanta, la tv ha cominciato a invertire il suo ruolo, la propaganda e la promozione pubblicitaria hanno prevalso sulla tv che informa, traduce la cultura in visione popolare e fa crescere il livello del paese. L’imperativo degli ascolti, dello share e dell’audience, ha ulteriormente abbassato la soglia della qualità e il senso della sua missione. Detto questo, non si vuol concludere alla Pasolini che la tv vada abolita o spenta; resta una struttura primaria per un paese, uno spazio pubblico, una piazza essenziale di confronto, connessione e integrazione. Ed esercita una funzione comunque utile, se non insostituibile, anche nell’equilibrio delle fonti d’informazione, tra media, social, carta stampata. L’abbrutimento avviene quando la tv diventa il solo mezzo d’informazione e di intrattenimento, la sola finestra sul mondo, e sostituisce la lettura, l’incontro di persona e altre forme di in/formazione. Bisogna saperla dosare, e usare spirito critico. Il suo limite rispetto a internet è noto: non è interattiva, l’utente è spettatore e non attore.

Ma la tv, soprattutto se è pubblica, ha il dovere di aiutare un paese e un popolo a crescere sul piano civile e culturale. Chi sostiene che la tv non debba coltivare propositi educativi o comunitari perché altrimenti diventa una tv etica e pedagogica, sottilmente autoritaria e prescrittiva, non si rende conto che senza un progetto educativo e comunitario, gli utenti e soprattutto i minori non vengono lasciati liberi ma in balia di altre agenzie diseducative. Peraltro ognuno è libero di fare zapping nel vasto arcipelago delle offerte televisive. Se la gara è solo tra chi fa più ascolti coi giochini, il trash, le tele-risse denominate talk show, si ritiri lo Stato e si lascino in campo i privati. Ne guadagnerebbero la dignità, l’intelligenza e il mercato.

Alla Rai spetta il compito di sfatare il pregiudizio che culturale e popolare, formativo e ricreativo, siano incompatibili. Ma quel pregiudizio si è insediato da decenni nella testa della signora che oggi compie settant’anni, e sua madre cento.

La Verità – 3 gennaio 2023