Mito, bellezza, eroismo- D’Annunzio, il poeta che non cede alla crisi del Novecento (e oltre)
23 Novembre 2023
Gibellini raccoglie gli scritti di una vita sul grande autore abruzzese. Ne esce un ritratto sorprendente
Giuseppe Conte
Quanti autori sono passati e passano. D’Annunzio resta. Pietro Gibellini, uno dei più accreditati studiosi di D’Annunzio, direttore della Edizione Nazionale delle sue Opere, con Un’idea di D’Annunzio (Carabba editore, pagg. 710, euro 35), raccoglie trent’anni di lavoro in un volume corposo e tuttavia agile, che prende in esame tutta l’opera letteraria, poesia, romanzo, teatro, e il rapporto tra il «gesto e il testo» dell’autore dell’Alcyone, nella sua vita inimitabile, «aristocratica e populista». Io che con la mia ripresa (in sordina) di D’Annunzio venni indicato decenni fa come protagonista di un «caso letterario», e che ho scritto la prefazione all’ultima edizione francese della lirica dannunziana, ho trovato nel volume di Gibellini sollecitazioni nuove.
La vita di D’Annunzio viene vista da Gibellini in una geografia che comprende l’Abruzzo, Firenze, Roma, Napoli, la Francia e il Vittoriale. Lo dico subito: io credo che vada aggiunta Fiume. Ma verso l’impresa fiumana l’autore non mostra l’interesse che merita. L’Abruzzo è un mito fondamentale, aurorale per l’uomo D’Annunzio, ma non decisivo nella sua formazione culturale. Il Vittoriale è una specie di decorativa sepoltura prima del tempo. Già nel 1922, il poeta rischia di morirvi per la caduta dalla finestra che lui ribattezzò immaginosamente «il volo dell’Arcangelo». In realtà quella caduta, come racconta benissimo Gibellini, nasconde un vero mistero. In quei giorni travagliati e torbidi per la politica italiana, appena prima della marcia su Roma, era uscita la notizia che stava per formarsi un direttorio composto da D’Annunzio, Mussolini e Nitti. D’Annunzio si affrettò a smentire sul Corriere della Sera. Il Comandante di Fiume è una mina vagante, che qualcuno potrebbe avere interesse a eliminare. E poi c’è la pista amorosa, legata alla spregiudicata e vorace vita sessuale del poeta. Troppe attenzioni per Jojò, la sorellina di Luisa Bàccara, la musicista insediata al Vittoriale e amante ufficiale? Insomma, se fu una caduta o una spinta, e in questo secondo caso chi la diede, nessuno ancora oggi riesce a dirlo con sicurezza. Il vertice della poesia viene indicato canonicamente nell’Alcyone, tributo alla terra e al cielo, mentre Maia è tributo al mare, e Elettra un canto dedicato agli eroi nella accezione che a questo termine dà Thomas Carlyle, e che comprende chi irradia luce con la sua opera anche nel campo delle varie arti: D’Annunzio vi celebra Segantini, Bellini, Verdi, Hugo, e soprattutto Dante, «eroe/ primo del nostro sangue». Ma mentre Dante intende la patria nella successione di città, nazione, impero, D’Annunzio cancella il primo e l’ultimo termine per soffermarsi solo su quello centrale, spingendo l’amor di patria verso il nazionalismo. Molto interessanti le annotazioni sul mancato incontro tra D’Annunzio e Freud: lo scavo nei meandri della psiche che inaugura il padre della psicoanalisi e che tanta influenza avrà su tutto il Novecento non interessa il poeta cultore del mito: perché è proprio attraverso il mito che lui si immerge negli abissi della mente e dell’anima umana, portando alla luce «lo stesso materiale rovente». In Maia, per me un’onda di canto ininterrotto e prodigioso, D’Annunzio, con il dio Ermes per guida, rimitizza il mondo contemporaneo, reintroduce incanto e creazione dove i seguaci di Freud vedono solo il buio sotterraneo di un inconscio privo di sbocchi. D’Annunzio celebra la vita, la bellezza senza tempo, l’audacia gratuita, la sensualità dell’immersione nella natura, e dunque è estraneo al concetto di crisi, dell’individuo e della civiltà, così al centro della vita culturale del secolo scorso, e ancora della nostra, tra epigoni e passatisti. Piuttosto D’Annunzio potrebbe essere avvicinato a D.H. Lawrence, gigante incompreso, nella sua reazione al declino e alla vocazione mortifera di tanta cultura del Novecento. Non mancano nel volume pagine sui rapporti di D’Annunzio con Eleonora Duse, con Giovanni Pascoli, che si rivolge a lui dicendosi suo «fratello minore e maggiore», con Marinetti il futurista mitoclasta, che secondo leggenda l’autore di Alcyone definì una volta «un cretino con qualche sprazzo di imbecillità».
Il volume si chiude con una analisi della figura di Ulisse nel Novecento, dopo le comparse dell’eroe omerico in D’Annunzio e Pascoli, sino a riportare i versi di Guido Gozzano che, più che una parodia dell’Ulisse dell’Odissea, sembra una parodia del D’Annunzio di Maia: «Visse a bordo di uno yacht/toccando tra liete brigate/ le spiagge più frequentate/ dalle famose cocottes». Ulisse si ritrova in Umberto Saba, in una chiave esistenziale, e in Giuseppe Ungaretti, in una chiave metafisica, quasi biblica, alla ricerca della Terra Promessa: «Verso meta si fugge:/chi la conoscerà?/Non d’Itaca si sogna». Ma lo spirito ulisside più profondo, a dispetto delle parodie, rimane quello espresso proprio a da D’Annunzio all’inizio e alla fine di Maia: quella antica esaltazione della vita nel movimento, nel rischiare, nel cercare sempre. Ricordate? «Necessario è navigare/non è necessario vivere».
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